Commenti – Osservatorio Coesione Sociale https://osservatoriocoesionesociale.eu Sito Osservatorio Coesione Sociale Thu, 11 Apr 2024 10:02:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.3.18 Elezioni locali del 2024 in Turchia: Cosa viene dopo? https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/elezioni-locali-del-2024-in-turchia-cosa-viene-dopo/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/elezioni-locali-del-2024-in-turchia-cosa-viene-dopo/#respond Thu, 11 Apr 2024 09:43:26 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8583 Commento n.2 – Aprile 2024. Di Deniz Nihan Aktan, Scuola Normale Superiore

Elezioni locali del 2024 in Turchia: Cosa accadrà dopo la vittoria dell’opposizione? Quale inclusività di varie minoranze della società civile? Mentre il risultato è stato un’ovvia sconfitta per l’AKP, i suoi impatti sui partiti di opposizione e sulla società civile non sono ancora così evidenti.

I risultati elettorali sono senza dubbio serviti come rimedio rapido e necessario contro il sentimento diffuso di disperazione e apatia nella maggioranza della popolazione in Turchia, visto che il regime autoritario si era assicurato il potere con la vittoria delle elezioni generali di meno di un anno fa. Sebbene gli oppositori del governo abbiano apprezzato i risultati incoraggianti, la gioia si è mescolata ad un certo livello di cautela poiché questa vittoria ha inevitabilmente ricordato a molti le elezioni generali del 7 giugno 2015.

In quelle elezioni generali, l’AKP è stato il partito più votato ma ha perso la maggioranza in parlamento, mentre il Partito pro-curdo HDP ha ottenuto il 13% dei voti e ha superato la soglia del 10% per entrare in parlamento. Poiché non è stato possibile formare una coalizione, il 1° novembre si sono svolte le seconde elezioni generali, che hanno visto la netta vittoria dell’AKP con il 49% dei voti. Nel periodo tra queste due elezioni, i negoziati di pace tra il governo turco e il movimento curdo si sono fermati. Questo arresto si è riflesso nel cambiamento del discorso del governo contro l’HDP e nella crescente violenza contro la popolazione curda del paese. Nello stesso periodo sono stati attaccati anche i comizi elettorali e gli edifici del partito dell’HDP[1]. Con gli incidenti del periodo successivo, come i bombardamenti, il tentativo di colpo di Stato e lo stato di emergenza durato 728 giorni, l’approccio securitario e militarizzante dello Stato si è fatto sentire nella vita quotidiana di gran parte della società.

Analogamente a quanto accaduto in quel periodo, sia durante che dopo le elezioni del 31 marzo 2024, il governo ha cercato di ignorare la volontà dell’opposizione. Oltre ad altre significative vittorie in 10 comuni cittadini e in 65 comuni distrettuali, il Partito pro-curdo DEM ha ottenuto più del 55% dei voti di Van. Tuttavia, due giorni dopo le elezioni, uno dei co-sindaci, Abdullah Zeydan, è stato privato del diritto di essere eletto dalla commissione elettorale provinciale di Van. Inoltre, l’autorità di sindaco è stata assegnata al candidato dell’AKP che è arrivato secondo con solo il 27,14% dei voti. Mentre il popolo di Van e i membri del partito DEM si sono mobilitati rapidamente contro questa decisione, si è iniziato a dubitare la capacità degli altri partiti, in particolare il principale partito di opposizione CHP, di dimostrare il loro discorso inclusivo, che ha contribuito alla loro vittoria, oltre la retorica.

Queste pratiche illegali non si sono limitate a Van. In città come Bitlis e Şırnak, dove il partito DEM aveva un’alta probabilità di vincere, ci sono stati casi in cui il risultato è stato cambiato a favore dell’AKP a causa dello spostamento di persone da province diverse o di voti ritenuti non validi. Sempre in questi giorni, nei comuni che stanno per passare al CHP dall’AKP, vengono tracciati acquisti e trasferimenti di denaro molto rapidi e di grande entità prima del passaggio di consegne, il che viene interpretato come rivelatore della portata della corruzione da parte delle precedenti amministrazioni.

Molti partiti politici e una parte significativa della società hanno reagito rapidamente contro la pratica illegale di Van. Cosi facendo, non hanno contribuito all’ulteriore criminalizzazione del popolo curdo, che è una pratica strategica a cui il governo è abituato a ricorrere per mobilitare sentimenti nazionalisti. Il 3 aprile il Consiglio elettorale supremo (YSK) ha consegnato ancora una volta il certificato di elezione ai candidati del partito DEM. Questa vittoria e la sua percezione all’interno dell’opposizione più ampia potrebbero fornire i primi segnali di una trasformazione post-elettorale verso un ambiente più democratico. Ciò potrebbe essere interpretato come un indebolimento dell’impatto di due delle strategie più fidate del governo: attuazione della retorica del “terrore” e criminalizzazione delle proteste di piazza.

La democratizzazione è un processo; tuttavia, la sconfitta del partito al potere dopo due decenni e le conquiste politiche successive hanno ripristinato la fiducia e la speranza nel cambiamento sociale e politico in gran parte dell’opposizione. Al contempo, è troppo presto per dichiarare l’indebolimento dell’impatto della retorica odiosa del governo contro i gruppi emarginati e le minoranze, visto che il partito islamico YRP, che ha anche dichiarato che chiuderà le associazioni LGBTI+, è diventato il terzo partito con il maggior numero di voti.

Durante questi giorni post-elettorali, abbiamo anche assistito alla detenzione di donne e persone LGBTI+, che sono tra i pochi gruppi che non sono indietreggiate nonostante il clima politico oppressivo dell’ultimo decennio del Paese. Il 2 aprile, le donne trans e lɜ loro alleatɜ volevano organizzare un iftar[2] in via Bayram, nel quartiere Beyoğlu a Istanbul, dove le donne trans vivevano e lavoravano fino a quando il comune distrettuale ha sigillato le loro case un mese fa[3] Otto persone sono state arrestate e rilasciate nelle ore successive. Il 4 aprile, nel corso della protesta femminista in solidarietà con Van, 54 persone sono state arrestate e tutte rilasciate a tarda notte.

Il fatto che tali violazioni non costituiscano un’eccezione nel contesto politico odierno rivela che i risultati elettorali siano solo una fermata nel percorso verso la democratizzazione. Tuttavia, questi risultati possono fornire alla società sopraffatta la motivazione e la fiducia necessarie per continuare a lottare contro la mentalità che normalizza i fiduciari nominati che si appropriano della volontà del popolo, la corruzione negli organi governativi e la securizzazione della vita quotidiana. La solidarietà e la cooperazione per un cambiamento sociale dovrebbero tenere conto delle asimmetrie di potere. Le urne elettorali non offrono soluzioni facili per alcuni gruppi emarginati che devono ancora lottare per i loro diritti fondamentali come il diritto alla vita, all’alloggio, al lavoro, il diritto di voto e di eleggibilità. Le molteplici storie di resistenza del paese possono offrire importanti lezioni e fonti di ispirazione.

 

[1] O’Connor, F., & Baser, B. (2018). Communal violence and ethnic polarization before and after the 2015 elections in Turkey: attacks against the HDP and the Kurdish population. Southeast European and Black Sea Studies, 18(1), 53–72.

[2] Il pasto serale con cui si interrompe il digiuno quotidiano durante il mese di Ramadan.

[3] https://kaosgl.org/en/single-news/violation-of-rights-against-lgbti-s-in-march-trans-women-s-houses-were-sealed-bayram-street-12-platform-made-a-call-for-solidarity

 

Deniz Nihan Aktan è una dottoranda presso la Classe di Scienze Politiche e Sociali della Scuola Normale Superiore e membro del Center on Social Movements Studies (COSMOS). Da diversi anni, sia in ambienti accademici che attivisti, lavora e scrive sulle politiche della sessualità nei campi di calcio e sulla mobilitazione deɜ atletɜ-attivistɜ queer-femministɜ per il loro diritto allo sport.

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Elezioni locali del 2024 in Turchia: la rinascita della socialdemocrazia https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/elezioni-locali-del-2024-in-turchia-la-rinascita-della-socialdemocrazia/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/elezioni-locali-del-2024-in-turchia-la-rinascita-della-socialdemocrazia/#respond Fri, 05 Apr 2024 14:28:49 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8534 Commento n.1 – Aprile 2024. Di Batuhan Eren, Scuola Normale Superiore

La Turchia ha vissuto una notte storica per la cultura democratica del Paese, nelle recenti elezioni amministrative del 31 marzo 2024. Le elezioni hanno portato a una vittoria rivoluzionaria per le forze di opposizione del Paese: per la prima volta dal 1977, il principale partito di opposizione socialdemocratico e progressista CHP (Cumhuriyet Halk Partisi; Partito Popolare Repubblicano) ha ottenuto la vittoria del voto popolare in un’elezione, conquistando il 37,8% degli elettori. Il partito conservatore di governo AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi; Partito della Giustizia e dello Sviluppo), invece, ha ottenuto il 35,5% dei voti, diventando il secondo partito, in un’elezione, per la prima volta dalla sua fondazione nel 2002. Mentre l’AKP ha perso il 7,3% dei voti dalle ultime elezioni locali del 2019, il CHP è riuscito ad aumentare i suoi voti del 7,7 %.
Alle elezioni, il candidato del CHP Ekrem İmamoğlu è stato rieletto sindaco di Istanbul con il 51% dei voti, nonostante la campagna elettorale dell’AKP in cui il governo ha utilizzato tutti i mezzi mediatici e 16 ministri hanno partecipato attivamente contro di lui. Imamoğlu può essere considerato il candidato più forte per diventare il giovane leader delle forze di opposizione in Turchia con la sua posizione socialdemocratica e un discorso politico contro la polarizzazione. Allo stesso modo, il candidato del CHP Mansur Yavaş, con la sua posizione anti-corruzione e il suo programma di politica sociale, ha battuto un record storico ed è stato rieletto sindaco della capitale Ankara con il 60% dei voti. Vincendo in 35 province su 81, il CHP governerà quindi le città con oltre il 60% della popolazione e l’80% delle fonti economiche del Paese. Anche il partito filo curdo DEM (Halkların Eşitlik ve Demokrasi Partisi; Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli) è riuscito a ottenere un risultato positivo, soprattutto nelle regioni orientali del Paese. Nonostante la crescente repressione attraverso la nomina non democratica di fiduciari non eletti nella maggior parte dei comuni democraticamente conquistati dal 2019, il partito DEM ha vinto le elezioni in 10 città. Poiché il numero di donne sindaco è raddoppiato in tutto il Paese, le elezioni locali hanno segnato una vittoria significativa per la socialdemocrazia.
Considerando l’apatia politica tra i sostenitori dei partiti di opposizione dopo la perdita delle recenti elezioni presidenziali contro il presidente Erdoğan nel 2023, pochi osavano sperare in una simile vittoria in Turchia. Nonostante l’impatto devastante del forte terremoto di febbraio e la crisi economica in corso, Erdoğan è riuscito ad assicurarsi il posto di presidente nel maggio 2023 ottenendo il 52,2% dei voti contro Kemal Kılıçdaroğlu, presidente del CHP e candidato delle forze di opposizione. La decisione del leader del CHP di rimanere al suo posto fino alle elezioni del congresso del partito, invece di dimettersi immediatamente, ha fatto perdere il sostegno al partito a molti elettori del CHP. In queste circostanze, la storica vittoria sotto la guida di Özgür Özel, eletto nuovo presidente del CHP a novembre, solo un paio di mesi fa prima delle elezioni locali, è considerata da molti un risultato inaspettato.
È ancora presto per ipotizzare le ragioni sociali, politiche ed economiche di questo importante cambiamento nel contesto politico turco, ma ci sono stati alcuni indicatori di questo risultato che dovrebbero essere ulteriormente indagati. Con un tasso di inflazione intorno al 70% e il deprezzamento della lira turca al punto che 1 euro equivale a 35 lire, la crisi economica in corso sembra essere efficace nel modificare le preferenze degli elettori. Il fatto che l’AKP di Erdoğan non sia riuscito a superare l’impatto devastante della crisi nonostante la presidenza e la maggioranza parlamentare, fa sì che molti sostenitori dell’AKP, compresi i pensionati e la classe operaia conservatrice, prendano le distanze dall’AKP. I risultati mostrano che il partito ultraconservatore YRP (Yeniden Refah Partisi), alleato di Erdogan alle elezioni generali del 2023 ma che ha deciso di correre da solo alle elezioni locali, è riuscito ad attrarre parte di questo gruppo di elettori. Con le sue critiche ai continui accordi commerciali dell’AKP con Israele e agli effetti della crisi economica, la sua retorica che privilegia i valori islamici e la sua rigida posizione contro i diritti LGBT+, l’uguaglianza di genere e le politiche di vaccinazione COVID-19, questo partito è diventato di recente un’alternativa conservatrice per esprimere l’insoddisfazione verso l’AKP e ha ricevuto il 6,2% dei voti. In questo contesto di crisi, il principale partito di opposizione CHP, con il suo nuovo leader e i sindaci di Istanbul e Ankara che godono di fiducia pubblica, è riuscito ad attrarre nuovi elettori dai partiti di entrambi i blocchi di governo e di opposizione. Le politiche sociali redistributive di İmamoğlu e Yavaş, l’enfasi sulla lotta alla corruzione, la responsabilità pubblica e la trasparenza e il discorso politico depolarizzante del loro periodo da sindaci hanno giocato un ruolo importante nel rafforzare la fiducia nell’opposizione in tutto il Paese. Le forti critiche del leader del CHP Özel all’AKP per le pratiche nepotiste e corporative, la sua enfasi sull’impoverimento e il suo appello per una “Alleanza per la Turchia” inclusiva e pluralista sembrano risuonare anche con gli elettori curdi, nazionalisti laici e conservatori moderati degli altri partiti. Questo sostegno è comprensibile se si considera che questi elettori di opposizione erano già stati incoraggiati a votare per gli alleati dei loro partiti a causa delle alleanze strategiche tra i partiti nelle elezioni generali del 2003. Questo cambiamento nelle pratiche di voto potrebbe avere un impatto positivo sull’aumento significativo dei voti del CHP.
In un contesto politico in cui l’estrema destra è in ascesa in Europa, la svolta della Turchia verso una socialdemocrazia progressista dopo 22 anni di governo imbattuto dell’AKP è significativa non solo per la storia democratica del Paese, ma anche per le lotte democratiche nella regione. È fondamentale che i comuni del CHP continuino con le loro politiche sociali, l’approccio egualitario e la governance trasparente per mantenere il sostegno popolare alle prossime elezioni generali. Inoltre, la capacità dell’opposizione di opporre una resistenza unitaria alle pratiche fiduciarie antidemocratiche, già iniziate contro il partito DEM subito dopo le elezioni, è una delle condizioni più importanti per preservare la rinata cultura democratica del Paese. Tenendo presente che questa vittoria non è un risultato ma un inizio per la difesa della democrazia, è necessario continuare la lotta per un cambiamento progressivo e democratico in Turchia.

Per saperne di più:
Per i risultati delle elezioni: https://secim.aa.com.tr/
Per la vittoria economica dell’opposizione (in turco): https://www.ekonomim.com/ekonomi/en-buyuk-ekonomiye-sahip-illerin-tamami-chpye-gecti-haberi-736830
Per la vittoria di İmamoğlu e Yavaş: https://www.duvarenglish.com/thousands-of-supporters-gather-for-imamoglu-and-yavass-re-election-victory-speeches-news-64118
Per l’ascesa dello Yeniden Refah Partisi: https://www.duvarenglish.com/turkeys-far-right-yrp-becomes-third-party-nationwide-after-campaign-on-poverty-palestine-news-64117
Per il “regime fiduciario” antidemocratico della Turchia: https://www.duvarenglish.com/turkish-authorities-detain-2906-dem-party-members-in-2023-news-63513

 

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Riforma del long-term care dopo 40 anni: è il disgelo? https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/riforma-del-long-term-care-dopo-40-anni-e-il-disgelo/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/riforma-del-long-term-care-dopo-40-anni-e-il-disgelo/#respond Thu, 20 Apr 2023 09:53:55 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8173 Commento n.2 – Aprile 2023. Di Costanzo Ranci, Politecnico di Milano

Il sistema di long-term care (LTC) italiano è rimasto sostanzialmente congelato per circa quarant’anni. Nel mentre l’invecchiamento della popolazione è galoppato e tutti gli altri stati europei, inclusi molti paesi dell’Europa meridionale e centro-orientale, hanno introdotto profonde riforme.Il disegno di legge delega DDL Anziani approvato dal Parlamento italiano il 21 marzo 2023[1] consente di colmare il vuoto e allineare il nostro paese al resto dell’Europa?

Come spesso accade, la risposta dipenderà soprattutto dall’implementazione. Il testo non è certo dei migliori: è farraginoso e denso di roboanti dichiarazioni di principio, cui non seguiranno probabilmente innovazioni profonde. Alla legge manca inoltre un finanziamento: costituisce un adempimento del Pnrr ma non prevede alcun investimento finanziario ad hoc. Infine, sui punti decisivi promuove un’innovazione incrementale, costruita attorno all’introduzione di progressive forme di coordinamento orizzontale tra istituzioni e comparti dell’amministrazione pubblica che mantengono le loro prerogative precedenti.

Eppure, qualcosa forse si muove. Sospinta dalle proposte avanzate dal Patto per un Nuovo Welfare sulla Non Autosufficienza[2], che riunisce gran parte delle associazioni della società civile attive nel settore, la legge prevede un forte incremento e l’intensificazione dei servizi territoriali di assistenza domiciliare, proponendo l’istituzione di un servizio unificato che superi la storica separazione tra sanità e assistenza. Si introduce una programmazione nazionale che dovrebbe prevedere l’integrazione tra autorità sanitarie e assistenziali, nonché la delineazione di obiettivi nazionali capaci di superare i divari regionali. Si introduce un sistema nazionale di valutazione della non autosufficienza che consenta di ricondurre ad omogeneità i criteri di eleggibilità necessari per accedere al nuovo sistema di cure. Si prevede la definizione di livelli nazionali di assistenza a cui si agganceranno diritti esigibili.

L’innovazione più importante sul piano pratico dovrebbe essere la riforma dell’indennità di accompagnamento, la misura che assorbe quasi il 50% delle risorse complessive del paese destinate alla non autosufficienza. Si tratta di una misura che, ancorché universalistica (ovvero indipendente dal reddito e dal versamento di contributi sociali) e abbastanza generosa – prevede infatti un’indennità fissa di 520 euro circa al mese, non sottoposta a vincoli e praticamente irreversibile – mostra alcuni limiti evidenti: è concessa in modo disomogeneo tra le regioni, configurando un sistema frammentato e diseguale; prevede un importo fisso non commisurato al bisogno; trasferisce la responsabilità della cura interamente sulle famiglie o sulle badanti, anche quando queste sono assunte irregolarmente. La riforma sostituisce l’indennità di accompagnamento con la Prestazione Universale, che resta una misura universalistica esigibile come diritto dal cittadino, ma introduce una graduazione negli importi dipendente dal bisogno di cura e consente una “opzione servizi”, ovvero la possibilità per il cittadino di convertirla in servizi professionali di cura.

Sarà un cambiamento reale? È troppo presto per dirlo. Dipenderà innanzitutto dalle risorse finanziarie allocate dal governo nei prossimi anni, e dunque anche dalla volontà politica. Anche prevedendo una implementazione graduale, sia la crescita del sistema dei servizi che l’introduzione a pieno regime della Prestazione Universale richiederanno un impegno finanziario consistente. Senza questo la riforma non si farà. È presumibile che le associazioni del Patto svolgeranno una funzione di stimolo e di controllo nella fase che abbiamo di fronte, equivalente a quella giocata, alcuni anni fa, dall’Alleanza contro la Povertà. Ma potrebbe non bastare. Se sarà vero disgelo, lo capiremo pian piano, a cominciare dalla stesura dei decreti attuativi e dalle decisioni di spesa del governo.

 

[1] https://www.lavoro.gov.it/priorita/Pagine/Anziani-approvata-legge-delega.aspx .

[2] https://www.pattononautosufficienza.it/

 

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Miopia? Opportunismo? Disumanità? Le politiche migratorie del governo Meloni in risposta al naufragio di Cutro https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/miopia-opportunismo-disumanita-le-politiche-migratorie-del-governo-meloni-in-risposta-al-naufragio-di-cutro/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/miopia-opportunismo-disumanita-le-politiche-migratorie-del-governo-meloni-in-risposta-al-naufragio-di-cutro/#respond Tue, 28 Mar 2023 11:56:34 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8126 Commento n.1 – Marzo 2023. Di Francesca Campomori, Università Cà Foscari di Venezia 

La tragedia che si è consumata all’alba del 26 febbraio di fronte alle coste calabresi ha quanto meno mostrato le falle della catena di comando del sistema di soccorso italiano, in una dinamica di mancato coordinamento e/o di sottovalutazione del pericolo ancora tutta da chiarire, soprattutto in relazione a chi e perché abbia deciso e ordinato l’azione di polizia (law enforcement) invece che di Sar (Search and Reascue), cioè di soccorso. Invece di riportare nell’agenda politica un serio programma europeo di ricerca e salvataggio in tutto il Mediterraneo, cominciando magari a dare il buon esempio ai partner europei, come era stato fatto ormai dieci anni fa con Mare Nostrum, il governo ha preferito puntare tutto sul capro espiatorio rappresentato dagli scafisti. Peraltro gli esponenti del governo parlano indistintamente di trafficanti e scafisti tacendo sul fatto che gli scafisti che guidano le barche sono solo l’ultimo anello della catena di trasporto illegale, mentre i trafficanti non rischiano certo la vita in mare o l’arresto. In ogni caso, scaricare ogni responsabilità di questa e di altre tragedie del mare solo sugli scafisti e i trafficanti è un modo per oscurare le responsabilità di più di un decennio di politiche italiane ed europee di chiusura e di esternalizzazione delle frontiere, tra cui emergono in particolare gli accordi con la Turchia (2016) e con la Libia (2017), che hanno previsto ingenti finanziamenti ai rispettivi governi in cambio del blocco delle partenze di migranti verso l’Europa. Si tratta, è bene dirlo chiaramente, di politiche che favoriscono, invece che combattere, il traffico e la tratta degli esseri umani. La cosiddetta industria del passaggio irregolare dei confini esiste infatti anche perché l’ingresso regolare è diventato impossibile: se entrare con un visto di ingresso per lavoro attraverso i decreti flussi è complicato, per il cronico sottodimensionamento della programmazione, l’ingresso per richiesta di asilo è del tutto impraticabile, nonostante il Regolamento Europeo dei Visti preveda l’attivazione di visti umanitari che dovrebbero consentire alle persone in fuga da guerre e violenze l’attraversamento delle frontiere europee in sicurezza e legalità. Un attraversamento in sicurezza che, peraltro, poco più di un anno fa è stato reso possibile alle persone ucraine in fuga dalla guerra, con decisione unanime dei paesi dell’Unione e stupefacente manifestazione di solidarietà da parte della società civile.

Ad aggravare uno scenario di omissioni nella tutela dei diritti umani e di politiche fortemente restrittive si sono poi aggiunte le dichiarazioni del Ministro dell’Interno Piantedosi all’indomani del drammatico naufragio (“La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli”). Parole che non solo sviliscono le drammatiche storie delle persone coinvolte, ma rivelano la volontà di ignorare come in larghissima maggioranza le persone che accettano i rischi dei “viaggi della speranza” non hanno valide alternative. Non si può tacere inoltre che su quel caicco viaggiavano soprattutto persone provenienti dall’Afghanistan (tra cui molte donne), di cui è ben nota la condizione di vessazione e privazione dei diritti da parte del regime dei talebani.

L’ondata di emozione suscitata dal naufragio di Cutro ha in qualche modo anche accelerato le politiche del governo in materia migratoria: il Consiglio dei Ministri tenutosi simbolicamente a Cutro il 9 marzo ha portato infatti ad un decreto, in gran parte già nell’aria dopo quello sulle ONG dei primi giorni del 2023 (n.1/2023). Si tratta di misure disorganiche, largamente propagandistiche e fortemente inadeguate a gestire un fenomeno complesso come l’immigrazione. Di fatto, il governo pretende di “risolvere” la questione migratoria: inasprendo le pene per gli scafisti (già previste e già elevate), che come abbiamo detto sopra non sono la causa primaria del problema, ma piuttosto il risultato di politiche di chiusura dell’Unione Europea; limitando il permesso di soggiorno per protezione speciale introdotto nel 2020 dal Decreto Lamorgese (n.130/2020), che aveva riconosciuto il diritto delle persone straniere già presenti in Italia di ottenere un permesso di soggiorno in presenza di rischi che incontrerebbero nel Paese di origine, ma anche dimostrando elementi di integrazione nella società italiana; rimodulando i decreti flussi, che vengono dunque (erroneamente) intesi come uno strumento per regolare l’arrivo di richiedenti asilo, senza considerare che questo dispositivo in primo luogo si applica invece ai migranti per motivi economici e, in secondo luogo, soffre di per sé di evidenti contraddizioni perché si basa sulla finzione di fare entrare in Italia un lavoratore/lavoratrice che il datore di lavoro non conosce. Prevedere, come si faceva nell’originario Testo unico sull’immigrazione, poi riformato nel 2002 dalla Bossi-Fini, un visto per ricerca di lavoro aggirerebbe il problema ed eviterebbe ingressi irregolari o, per alcuni paesi, con visti turistici che poi non possono essere convertiti in permessi di soggiorno.

Invece che inasprire le pene per gli scafisti si potrebbero attivare vie legali e sicure per chi si trova nella necessità di richiedere asilo. Come? Con una seria politica pubblica che promuova e finanzi i corridori umanitari, di cui al momento si fanno carico principalmente la Tavola Valdese, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas e la Federazione delle Chiese Evangeliche, e con l’attivazione di visti umanitari che, consentendo l’attraversamento delle frontiere in maniera regolare, renderebbero inutili i trafficanti.

Purtroppo, tuttavia, il governo si ostina ad utilizzare l’allarmismo come arma per ottenere consenso su misure che continuano a non tutelare i diritti umani. L’ultimo in ordine di tempo è l’annuncio shock dei 685mila migranti in arrivo dalla Libia, che sarebbero sul punto di partire istigati dai mercenari della brigata di Wagner e utilizzati quindi come “arma ibrida” dalla Russia. Al di là della semplificazione di questa analisi, che si basa su stime numeriche con pochi fondamenti e non tiene conto dei molteplici fattori che spingono le persone a partire (tra cui la crisi in cui economica e democratica della Tunisia e i regimi dittatoriali dell’Africa Sub-Sahariana), preoccupa la pericolosa associazione dei migranti con la minaccia della guerra. Un’associazione che rischia di legittimare ancora più di quanto già non si faccia l’utilizzo di strumenti di respingimento.

 

Per saperne di più:

Fondazione Migrantes 2022 Il diritto d’Asilo. Report 2022

Idos 2022 Dossier statistico immigrazione

 

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Il rimbalzo del Pil manda in soffitta i propositi di riforma degli ammortizzatori sociali https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/il-rimbalzo-del-pil-manda-in-soffitta-i-propositi-di-riforma-degli-ammortizzatori-sociali/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/il-rimbalzo-del-pil-manda-in-soffitta-i-propositi-di-riforma-degli-ammortizzatori-sociali/#respond Mon, 15 Nov 2021 10:54:54 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=7422 Commento n.2 – Novembre 2021. Di Dario Guarascio, Sapienza Università di Roma

La scorsa estate, al primo accenno di rimbalzo del Pil italiano, gli strumenti di sostegno al reddito, che sino a quel momento avevano garantito la tenuta della domanda, delle imprese e dell’intera economia, sono finiti sul banco degli imputati. Le argomentazioni sono ormai note: le imprese non trovano braccia a sufficienza perché i potenziali lavoratori, soprattutto quelli più giovani, verrebbero impigriti dalla eccessiva generosità dei sussidi pubblici, in primis il Reddito di Cittadinanza. Un discorso analogo sembra valere per gli altri strumenti di sostegno al reddito, dalla Cassa Integrazione (CIG) alla NASPI, colpevoli di accrescere indirettamente lo stipendio minimo ritenuto accettabile dal lavoratore medio.

Si tratta di una lettura priva di qualsiasi fondamento: se gli strumenti di sostegno al reddito avessero realmente disincentivato l’accettazione di posti di lavoro che, nella maggioranza dei casi, sono temporanei, a basso salario e ad elevato sfruttamento, ci sarebbe stato di che rallegrarsi. Purtroppo, però, le frizioni che pure in una qualche misura si osservano all’interno del mercato del lavoro sono in realtà il frutto di smottamenti strutturali (i.e. mobilità interna, riorganizzazione familiare, informalità e accesso a mercati parzialmente invisibili come quelli della logistica e delle piattaforme digitali – si vedano, ISTAT (2021) e Barbieri e Guarascio (2021)). Il riassestamento ha richiesto qualche mese, ma le cose sembrano già essere tornate agli standard pre-pandemici: se non si è in stagnazione e il Pil italiano cresce, come in questa fase, lo fa creando prevalentemente lavoro precario e sottopagato. Soprattutto per i giovani e le donne.

E gli ammortizzatori sociali, dunque? L’OCSE, nel rapporto annuale Employment Outlook 2021, ha recentemente certificato come i programmi di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro – di cui OCIS si è occupata nella recente Nota Crisi pandemica e solidarietà europea: SURE da strumento temporaneo a meccanismo permanente? – abbiano consentito, nelle fasi più acute della pandemia, di preservare circa 60 milioni di posti di lavoro. L’Italia ha messo in campo un impegno senza precedenti nella storia repubblicana, proteggendo, solo con la CIG, il reddito di circa 3.752.518 lavoratori. Allo stesso tempo, la pandemia ha messo in luce gli aspetti critici e le iniquità del sistema italiano di ammortizzatori sociali: i) per un’ampia platea di lavoratori (coloro che sono impiegati in imprese di piccole dimensioni o che hanno contratti part-time e basse retribuzioni) il sostegno al reddito è stato insufficiente se non del tutto assente; ii) le stesse categorie che hanno maggiormente pagato la crisi (giovani a basso reddito e con carriere frammentate, donne con contratti part-time) hanno vissuto anche una significativa penalizzazione a causa del meccanismo puramente contributivo e del cosiddetto decalage (cioè la riduzione mensile del 3% della prestazione che oggi scatta automaticamente a partire dal 4° mese) che caratterizza la NASPI; iii) i lavoratori autonomi e i collaboratori occasionali che hanno vissuto un’improvvisa interruzione delle loro attività si sono trovati, se si fa eccezione per le misure straordinarie poste in essere dal Governo (bonus a favore delle ‘Partite IVA’), sprovvisti di sostegno o supportati da strumenti di entità e durata scarsamente sufficienti a soddisfare i loro bisogni.

Per queste ragioni, durante l’estate 2020, l’ex Ministro Catalfo aveva costituito una Commissione incaricata di elaborare una proposta di ‘universalizzazione’ del sistema degli ammortizzatori, con la precisa finalità di garantire a tutti i lavoratori una tutela adeguata a prescindere dal settore, dalle dimensioni dell’impresa e dalla tipologia contrattuale. Un progetto che ha incontrato una fortissima opposizione, capeggiata da Confindustria e da tutti i partiti, ad eccezione del Movimento 5 Stelle e della sinistra. Gli argomenti erano quelli consueti. Il primo: una riforma ‘troppo onerosa’ per le finanze pubbliche, salvo dimenticare che rafforzando gli ammortizzatori si rafforza la domanda interna, si riduce l’incertezza e quindi in prospettiva il rapporto Debito/Pil. Il secondo: ammortizzatori troppo generosi disincentiverebbero il lavoro, ignorando la copiosa letteratura economica che, a partire da Akerlof e Yellen (1986), consente di asserire l’esatto contrario.

Dopo quasi un anno di stallo, il Governo Draghi ha deciso di presentare una nuova proposta di riforma degli ammortizzatori sociali. Vengono recuperati alcuni contenuti della bozza presentata a marzo 2021 dalla Commissione Catalfo, ridimensionandone però enormemente le ambizioni, e dunque la reale capacità di fornire una copertura universalistica e, soprattutto, una tutela rafforzata per i più fragili. E ciò a causa del persistere di miopi logiche ‘ragionieristiche’ in virtù delle quali si ritiene di poter garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche prescindendo da politiche redistributive e di espansione della domanda.

A differenza del testo della Commissione Catalfo, che proponeva l’estensione della Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria – CIGO a tutte le imprese a prescindere dalla dimensione e dal settore, la proposta del Governo prevede infatti l’estensione del Fondo di Solidarietà (meno generoso della CIGO in ragione dei vincoli finanziari che ne limitano l’azione) alle imprese tra i 5 e i 15 dipendenti, attualmente prive di qualsiasi copertura per quanto riguarda il sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro, per un massimo di 12 mesi in un biennio mobile; mentre a quelle sopra i 15 dipendenti verrebbero garantite 26 settimane nello stesso periodo ampliando lo spettro delle causali a cui le imprese possono fare ricorso. Un intervento che consente di imporre alle imprese un onere relativamente contenuto (i.e. sulle imprese tra i 5 e 15 dipendenti graverà un’aliquota pari allo 0,45% della retribuzione, mentre la stessa aliquota sale allo 0,65% per le imprese che impiegano più di 15 dipendenti), ma che non garantisce una tutela soddisfacente a quei lavoratori che dovessero trovarsi alle prese con una riduzione consistente dell’attività lavorativa. Per quanto riguarda la NASPI, la Commissione Catalfo proponeva di abolire il decalage e di ridurre sensibilmente i requisiti di accesso in modo da ridimensionare la platea di coloro, soprattutto giovani con carriere intermittenti, che non riescono ad accedere allo strumento. Il Ministro del Lavoro, in ragione della dote minimale concessagli dal MEF – 3 miliardi contro i 10 stimati per l’insieme delle misure della Commissione Catalfo – sembra essersi accontentato di uno slittamento in avanti del decalage: dal 4° al 6° mese per tutti e dall’8° mese per gli over 55. Infine, pare confermato l’intervento sul contratto di espansione – che consente di avviare piani concordati di “esodo” per i lavoratori che si trovino a non più di 5 anni dal conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia o anticipata: la soglia dimensionale delle aziende coinvolte scenderebbe dai 100 ai 50 dipendenti per il prepensionamento dei lavoratori a 5 anni dalla pensione. Nulla è invece previsto per i lavoratori autonomi – per una quota relativamente ristretta dei quali una tutela minima è stata introdotta a dicembre 2020 la ISCRO, che prevede l’erogazione di una somma pari al 25% di quanto percepito l’anno precedente la presentazione della domanda da chi avesse avuto un calo della propria attività del 50%.Tali lavoratori, nelle previsioni della Commissione Catalfo, avrebbero dovuto oggetto di un intervento sistematico finalizzato a garantire una protezione di entità e durata adeguata agli autonomi giovani e a quelli a basso reddito.

Nel complesso, la riforma proposta dal Governo non va in nessun modo nella direzione universalistica auspicata dalla Commissione Catalfo, né tantomeno può riuscire a modificare in modo sensibile la condizione di quei vasti segmenti del mercato del lavoro caratterizzati da enorme incertezza e redditi insufficienti a garantire un’esistenza dignitosa. Ciò vale in particolar modo per i giovani e le donne che vivono nel Mezzogiorno. Questo risultato, dopo circa un anno e mezzo di dibattito attorno a una possibile riforma universalistica degli ammortizzatori, sembra certificare la prevalenza ideologica (e politica) delle posizioni di chi vede negli ammortizzatori un mero strumento assistenziale e ritiene che la disoccupazione sia perlopiù causata da svogliatezza o dalle scarse competenze di chi pretende un reddito. D’altra parte, in un contesto che rimane altamente incerto per quanto riguarda le prospettive macroeconomiche future e dove permangono tutti gli elementi di fragilità strutturale (diseguaglianze, prevalenza di imprese di imprese sottocapitalizzate e di piccole dimensioni, profondi divari territoriali), scegliere di non intervenire al fine rendere il sistema degli ammortizzatori compiutamente solido e universale rischia di compromettere le prospettive future dell’economia italiana e la capacità del PNRR di dispiegare appieno i suoi effetti.

Per saperne di più:
Akerlof, G. A., & Yellen, J. L. (Eds.). (1986). Efficiency wage models of the labor market. Cambridge University Press.
ISTAT (2021) Rapporto annuale 2021, Roma. https://www.istat.it/it/archivio/259060
Barbieri M. e Guarascio D. (2021), La pandemia e la necessità di riformare il sistema degli ammortizzatori sociali, in Politiche Sociali/Social Policies, di prossima pubblicazione.

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Un’occasione mancata: la regolarizzazione degli stranieri a rischio fallimento https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/unoccasione-mancata-la-regolarizzazione-degli-stranieri-a-rischio-fallimento/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/unoccasione-mancata-la-regolarizzazione-degli-stranieri-a-rischio-fallimento/#respond Thu, 06 May 2021 08:12:39 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=7143 Commento n.1 – Maggio 2021. Di Francesca Campomori, Università Cà Foscari di Venezia 

Circa un anno fa la regolarizzazione dei lavoratori immigrati veniva inserita nel Decreto Rilancio (DL n. 34/2020) dopo un lungo braccio di ferro tra M5S – contrario al provvedimento – e Italia Viva, Pd e Leu che lo avevano promosso. La prima ondata della pandemia aveva di fatto aperto una ‘finestra di opportunità’ che sembrava impensabile: l’ultima regolarizzazione in Italia risale al 2012 e successivamente il tema è diventato tabù, mentre nei due decenni precedenti le sanatorie avevano assunto la connotazione di una routine periodica (ne sono state effettuate sette tra il 1986 e il 2012).

Con la pubblicazione del testo definitivo del Decreto l’entusiasmo iniziale è però rapidamente scemato e sono montate, invece, le critiche da parte di vari osservatori ed esperti del settore (tra cui ASGI, CNEL, Caritas-Migrantes[1]). L’articolo 103 della norma ha infatti adottato un’impostazione restrittiva, limitando la possibilità di emersione solo al lavoro domestico e al lavoro subordinato in agricoltura, lasciando esclusi numerosi comparti economici nei quali il lavoro irregolare è diffuso – come l’edilizia, la ristorazione, il turismo.  La stima per difetto dei lavoratori stranieri irregolari è di 621mila (Dossier Statistico Immigrazione 2020), mentre gli aventi diritto alla regolarizzazione sono stati stimati dal governo stesso in un numero decisamente inferiore (circa 220mila), nonostante la ratio del Decreto fosse legata alla salute individuale e collettiva in conseguenza all’emergenza sanitaria. Poiché è ovvio che l’uscita dall’irregolarità rende più praticabile la prevenzione e il monitoraggio sanitario, oltre che la procedura di vaccinazione, l’esclusione di una platea così vasta di potenziali beneficiari risulta incomprensibile. Alla chiusura dei termini della presentazione delle istanze sono state contate 207.542 domande, nettamente sbilanciate sul lavoro domestico (85%) rispetto al settore agricolo (15%). Oltre al lavoro subordinato, la procedura ha previsto un secondo canale di emersione che consisteva nella domanda di un permesso temporaneo di sei mesi per ricerca di lavoro. Potevano tuttavia usufruirne solo le persone straniere con un percorso precedente di regolarità (un permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019) e un’esperienza lavorativa documentata nei soli settori domestico o agricolo. La rigidità dei criteri ha fortemente depotenziato la portata di questo canale di emersione, che alla fine ha fatto registrare un numero di domande residuale (appena 13.000). Fatte salve le criticità nell’impostazione del provvedimento, la risposta alla regolarizzazione è stata tutto sommato in linea con quanto il governo si aspettava e ha confermato quanto le fila delle lavoratrici domestiche irregolari si siano progressivamente ingrossate dopo l’ultima procedura di regolarizzazione del 2012.

Quello che oggi preoccupa è il grave ritardo nell’esame delle domande, specie in riferimento al primo canale d’accesso (emersione di un rapporto di lavoro irregolare o instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro con un cittadino straniero), per il quale a febbraio 2021 erano arrivate alla fase finale della procedura solo il 5% delle domande (13.244 le convocazioni effettuate al 16 febbraio 2021). A documentare puntualmente i ritardi è il gruppo di associazioni promotrici della campagna Ero straniero che ha raccolto i dati dal Ministero dell’Interno attraverso una serie di accessi agli atti. Ne è emerso un quadro inquietante soprattutto nelle due città italiane più grandi e che hanno ricevuto più istanze: alla fine di gennaio, a Roma (oltre 16mila domande ricevute) nessuna pratica era arrivata ancora alla fase conclusiva, mentre a Milano (oltre 26mila domande) a metà febbraio solo 289 pratiche risultavano in istruttoria e le convocazioni in prefettura limitate a 16 alla settimana a causa delle regole di sicurezza COVID. Il report di Ero Straniero ha calcolato che di questo passo servirebbero 30 anni per portare a termine tutte le domande di Milano. Un’altra città critica è Caserta, territorio in cui abbondano il lavoro nero le pratiche di caporalato: su oltre 6mila domande ricevute, a metà febbraio le convocazioni per finalizzare l’assunzione erano solo 10 e ancora non era stato rilasciato nessun permesso di soggiorno. Va un po’ meglio Bari (4.993 domande) e Firenze (4.483), pur dovendo considerare quasi un altro anno per portare a termine tutte le pratiche. Decisamente più incoraggiante la situazione delle pratiche relative al secondo canale di accesso, per la quali al 31 dicembre erano stati rilasciati 8.887 permessi di soggiorno su 12.986 domande presentate, complice una procedura più snella. Due elementi hanno contribuito prima a creare e poi a esasperare i ritardi. Il primo risiede in una difficoltà legata al reclutamento del personale aggiuntivo necessario per esaminare le pratiche. Degli 800 lavoratori/lavoratrici interinali previsti, al 12 aprile ne erano stati assunti solo 499 ma – questo è l’aspetto più grave – le prime assunzioni sono arrivate solo alla fine di marzo, lasciando sostanzialmente scoperte le prefetture per 6 mesi. Le prefetture hanno infatti lamentato la difficoltà di far fronte sia al carico ordinario, sia all’esame delle domande senza (o con insufficiente) personale aggiuntivo. La seconda ragione dei ritardi è da imputare alla necessità di rispettare le norme di sicurezza sanitaria che impongono un accesso contingentato agli spazi. Questo problema si potrebbe però superare derogando alle convocazioni in presenza dei datori di lavoro e dei lavoratori: la procedura potrebbe infatti essere completata in via telematica.

Come sostengono le associazioni promotrici di Ero Straniero, le conseguenze negative del gravissimo ritardo accumulato non ricadono soltanto sulle persone che attendono una risposta e un permesso di soggiorno per uscire da una situazione di incertezza che rischia di diventare permanente; ci sono infatti elementi di forte criticità anche in relazione alla campagna vaccinale poiché, finché restano invisibili, gli irregolari resteranno anche ai margini della programmazione vaccinale.

La difficoltà con cui le prefetture stanno affrontando l’evasione delle domande porta allo scoperto anche i limiti dello strumento della regolarizzazione intesa come provvedimento straordinario e categoriale. Una valida alternativa, già sperimentata in Germania e Spagna, potrebbe essere una forma di regolarizzazione senza finestre temporali e senza click day: una procedura sempre aperta e accessibile agli stranieri irregolari che dimostrino la disponibilità di un contratto di lavoro o che siano positivamente integrati in un territorio, secondo una valutazione da fare caso per caso piuttosto che con criteri astratti.

[1] ASGI, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione: https://www.asgi.it/; CNEL, Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro: https://www.cnel.it/; Caritas-Migrantes: https://www.migrantes.it/xxix-rapporto-immigrazione-caritas-e-migrantes-2020-conoscere-per-comprendere/.

 

Per saperne di più:

Campomori F. e Marchetti C. (2020) Much Ado about nothing: i paradossi della regolarizzazione dei migranti figlia della pandemia, in Politiche Sociali/Social Policies, n.2/2020

Kraler A. (2019) Regularization of Irregular Migrants and Social Policies: Comparative Perspective, Journal of Immigrant & Refugee Studies, 17:1, 94-113 https://doi.org/10.1080/15562948.2018.1522561

https://erostraniero.radicali.it/

Caritas- Fondazione Migrantes, XXIX Rapporto Immigrazione 2020

 

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Il salario minimo: lezioni straniere https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/il-salario-minimo-lezioni-straniere/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/il-salario-minimo-lezioni-straniere/#respond Fri, 29 Nov 2019 10:54:13 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu//?p=5432 Social Cohesion Note n.5 – Novembre 2019. Di Manos Matsaganis, Politecnico di Milano

L’Italia è uno dei pochi paesi sprovvisti di un salario minimo legale. L’istituzione di un tale strumento era previsto nella legge delega del Jobs Act del 2014. Anche se di fronte all’opposizione delle parti sociali quella delega non fu mai esercitata, essa ha stimolato un dibattito che in seguito ha portato alla presentazione di tre disegni di legge. Il primo, DDL 310 del 3 maggio 2018, firmato da Mauro Laus e altri dieci senatori del Partito Democratico, stabilisce un valore orario del salario non inferiore a 9 euro, al netto dei contributi previdenziali e assistenziali, da applicare a tutti i rapporti aventi per oggetto una prestazione lavorativa. Il secondo, DDL 658 del 12 luglio 2018, firmato da Nunzia Catalfo e altri otto senatori del Movimento Cinque Stelle, prevede una retribuzione minima di 9 euro l’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali (ovvero 8,15 euro al netto dei contributi). Il terzo, DDL 1132 del 11 marzo 2019, firmato da Tommaso Nannicini e altri sedici senatori del Partito Democratico (fra cui lo stesso Laus), supera la precedente proposta del Pd (DDL 310/2018), proponendo invece di riconoscere valore legale alla retribuzione minima stabilita dai contratti collettivi firmati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative (quindi di mettere fine ai cosiddetti “contratti pirata”), e di istituire una commissione per definire un salario minimo di garanzia per i lavoratori esclusi dalla contrattazione collettiva.

La prospettiva di una possibile introduzione anche in Italia del salario minimo legale ha suscitato paure e speranze. La principale speranza è che il salario minimo restituisca dignità ai lavoratori più deboli, eliminando la povertà tra i lavoratori. La paura, da parte delle imprese, è che le renderà meno competitive, aumentando il costo del lavoro. Infine, il timore dei sindacati è che il salario minimo legale indebolisca la contrattazione collettiva, trascinando verso il basso le retribuzioni delle categorie più deboli.

Non si può negare che per affrontare con successo problemi specifici e peculiari bisogna inventare soluzioni tagliate su misura, piuttosto che importarne prêt-à-porter. Ed è vero che alcuni aspetti del mercato del lavoro italiano, come per esempio il grande peso delle piccole e micro aziende nella struttura produttiva, oppure il ricorso a contratti pirata da parte di molte imprese, sono assenti (o molto meno presenti) altrove. Ma resta fermo che lo studio dell’impatto del salario minimo in altri paesi potrebbe essere ugualmente istruttivo.
Cosa insegnano le esperienze recenti di paesi come il Regno Unito e la Germania, che il salario minimo l’hanno introdotto davvero dopo dubbi e incertezze non dissimili da quelli italiani, o come la Grecia, dove il salario minimo, già in vigore da anni, fu tagliato piuttosto brutalmente nel periodo più buio della recente crisi finanziaria, nel disperato tentativo di fermare l’aumento vertiginoso della disoccupazione? Si potrebbe dire che, se queste esperienze molto diverse tra loro, hanno una lezione in comune, è che sia le paure che le speranze rischiano di rivelarsi eccessive.

Procediamo con ordine. Il salario minimo abolirà lo sfruttamento nei luoghi di lavoro (o almeno, più banalmente, la povertà tra i lavoratori)? Purtroppo non sarà esattamente così. Povertà significa basso reddito familiare, ed è determinata non solo dalla retribuzione oraria di chi lavora, ma anche da quante ore lavora, da quante altre persone lavorano nello stesso nucleo familiare, dalla loro busta paga, e ovviamente da tutti gli altri redditi che contribuiscono al bilancio familiare. L’utilità del salario minimo come strumento contro la povertà dipende molto da chi sono i soggetti che ne beneficiano perché hanno un salario basso: per usare due esempi estremi, se i lavoratori sottopagati fossero tutti studenti che abitano con genitori benestanti, il salario minimo non inciderebbe affatto sul livello generale della povertà, mentre se a beneficiarne fossero capofamiglia con figli a carico, il contributo del salario minimo alla lotta contro la povertà sarebbe rilevantissimo.

Il contributo del salario minimo alla riduzione della povertà è comunque possibile a una condizione: che la risposta dei datori del lavoro all’introduzione di un salario minimo legale considerato troppo alto non ne vanifichi i vantaggi per i lavoratori. Può succedere? In teoria, si. Nessuna legge può obbligare un’impresa a mantenere il numero di dipendenti e/o l’ammontare di ore lavorate raggiunti prima dell’introduzione del salario minimo.  Sarebbe troppo alto un salario minimo orario pari a 9 euro lordi, come specifica il disegno di legge presentato dal Movimento Cinque Stelle? Se consideriamo il rapporto fra salario minimo e salario mediano (ovvero il livello salariale posto al centro della distribuzione di tutti i salari del paese), nel 2019 i paesi europei si collocano fra il 40 (Spagna) e il 62 per cento, mentre secondo uno studio di Andrea Garnero, economista dell’Ocse, con 9 euro lordi all’ora il salario minimo in Italia porrebbe una soglia pari al 75-80 per cento del salario mediano: un valore molto elevato in termini relativi.

Nella realtà, tuttavia, le previsioni apocalittiche si avverano molto raramente (o quasi mai). Per esempio, alla vigilia dell’introduzione del salario minimo in Germania, autorevoli economisti suonarono l’allarme sull’imminente aumento della disoccupazione – le stime più pessimiste ipotizzavano la perdita di 4 milioni di posti di lavoro. Nel 2016, con l’economia in forte crescita, il livello di occupazione superò i 40 milioni posti di lavoro, con 1 milione 250 mila posti in più rispetto al 2014, l’anno dell’entrata in vigore del salario minimo a 8,50 euro orari lordi. Per quanto riguarda la distribuzione dei salari, l’effetto del salario minimo fu indubbiamente positivo: nell’arco di un anno i posti di lavoro pagati meno di 8,50 euro all’ora si ridussero da circa 4 milioni (aprile 2014) ad appena 1 milione 365 mila (aprile 2015).

Al contempo, in Grecia, la disoccupazione non smise di crescere anche quando il salario minimo fu tagliato del 22 per cento nel febbraio 2012. Il numero di occupati di quel mese fu superato solo nel marzo 2018, ovvero dopo ben sei anni. Una recente e rigorosa analisi dei dati greci ha trovato significativi effetti del salario minimo sui salari, ma non sui livelli di occupazione.

Di fronte all’introduzione di un salario minimo legale che ‘morde’ – cioè non così basso da risultare ininfluente – le imprese hanno infatti a disposizione diversi canali di aggiustamento. Da un lato, possono ridurre il personale, o meno drammaticamente l’orario di lavoro, o gli straordinari, o i premi di produzione, o altre prestazioni come il welfare aziendale. Dall’altro, possono ridurre il turnover, che comporta costi sia per i lavoratori coinvolti che per le aziende, riorganizzare i processi di produzione per renderli più efficienti, investire sui dipendenti per aumentarne la produttività. Inoltre, se le condizioni di mercato lo permettono, possono alzare i prezzi. Oppure possono semplicemente ignorare la legge, entrando in quella che eufemisticamente viene chiamata ‘economia sommersa’.

La reazione delle imprese dipende dunque innanzitutto dal livello del salario minimo. Se questo non è troppo alto  – quindi se ‘morde’, ma non troppo – le imprese tendono ad assorbire i costi senza necessariamente subire profitti più bassi. Un accurato studio recente di tre ricercatori dell’Ufficio studi della Commissione Salario Minimo tedesca ha quantificato la rilevanza delle diverse forme di aggiustamento analizzando i dati sulle risposte reali delle aziende tedesche all’introduzione del salario minimo. Nei settori più interessati (alberghi, ristoranti, servizi alla persona), molte aziende hanno ridotto gli orari, presumibilmente eliminando le ore di minore attività. Per il resto, i prezzi sono lievemente aumentati (nel contesto di un tasso di inflazione complessivo pari allo 0,3% nel 2015), il turnover è diminuito (del 3%), sono stati concessi meno bonus che in precedenza, mentre sono aumentate le infrazioni (temporanee, ipotizzano gli autori: con un po’ di vigilanza, quasi tutte le aziende si dovrebbero adeguare alle nuove regole).

E i sindacati? Che fine ha fatto la sacrosanta Tarifautonomie, ovvero il principio che gli stipendi vengono concordati dalle parti sociali tramite contrattazione collettiva, senza alcuna interferenza da parte del governo? A superare le resistenze iniziali della federazione sindacale DGB, e la ferma opposizione del potentissimo sindacato dei metalmeccanici (IG-Metall), hanno contribuito tre fattori. Primo, la campagna a favore del salario minimo è stata lanciata da un nuovo attore sindacale: ver.di, il sindacato dei lavoratori nei servizi. Secondo, le riforme degli anni ’90 avevano creato precarietà e insicurezza non solo ai margini del mercato di lavoro, ma anche al suo cuore: la stessa IG-Metall ha scoperto che ben 50 mila lavoratori tra i loro iscritti erano assunti dalle imprese del settore tramite agenzie interinali. Terzo, nel 2014, con il sostegno morale esterno del Partito Socialdemocratico al Parlamento, i sindacati dei lavoratori più garantiti decisero di sposare la causa dei loro compagni più precari, in una mossa esplicitamente ispirata alla solidarietà di classe. Pensavano che, così facendo, avrebbero sacrificato i loro interessi ristretti: “Se la Tarifautonomie non c’è più, perché iscriversi al sindacato?”. Non ci fu invece bisogno di sacrificare nulla. Per molti lavoratori tedeschi, la risposta alla domanda era: “Per ottenere stipendi più alti del minimo legale”; per altri era: “Per sostenere chi sa lottare per gli interessi di tutti i lavoratori, soprattutto di quelli meno protetti”. Senza dubbio, i sindacati tedeschi sono usciti da questa battaglia, che rischiava di dividerli, più uniti e con più prestigio di prima.
Sarà questo il destino del salario minimo legale anche in Italia? Non è detto. Ma il dibattito si fa interessante.

Manos Matsaganis, insegna al Politecnico di Milano ed è membro del comitato scientifico dell’Osservatorio per la coesione e l’inclusione sociale.

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Immigrazione: crisi dei rifugiati o crisi di governance dei paesi UE? https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/immigrazione-crisi-dei-rifugiati-o-crisi-di-governance-dei-paesi-ue/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/immigrazione-crisi-dei-rifugiati-o-crisi-di-governance-dei-paesi-ue/#respond Tue, 31 Jul 2018 10:28:42 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu//?p=4873 Social Cohesion Note n.4 – Luglio 2018. Di Francesca Campomori, Università Ca’ Foscari di Venezia

Il 2014 è spesso ricordato come l’anno di esordio della “crisi dei rifugiati”, alludendo all’alto numero di sbarchi sulle coste del sud Europa e all’impennata delle richieste di asilo in vari paesi europei. Quattro anni dopo, la retorica è rimasta quasi del tutto invariata nonostante sia diventato sempre più evidente che ci troviamo principalmente di fronte ad una crisi di governance tra i paesi dell’UE, incapaci di una visione comune sulla gestione dell’immigrazione, come emerso nel Consiglio Europeo del 28-29 giugno.
L’unica partnership possibile sembra quella finalizzata al contenimento dei flussi, che si sostanzia nel progetto volto a ridurre i fattori che spingono le persone a migrare (il famoso “aiutiamoli a casa loro”), nel rendere più restrittivo il contesto normativo e nell’esternalizzare il controllo dei confini fuori dai paesi UE.

Di fatto, dopo gli accordi con la Turchia (2016) e con la Libia (2017), gli sbarchi sono nettamente diminuiti (in Italia il 75% in meno rispetto ad un anno fa nello stesso mese), ma il panic discourse no, quello viene evocato con forza dal nostro Ministro dell’Interno per legittimare la chiusura dei porti e la criminalizzazione delle organizzazioni non governative che prestano soccorso ai migranti nel Mediterraneo. Appena insediato, il ministro Salvini ha voluto dare prova dell’energia con cui il nuovo governo intende affrontare il tema delle migrazioni: le navi delle ONG cariche di persone soccorse, alle quali è stato negato l’approdo, sono diventate oggetto di strumentalizzazione e simbolo dell’evidente invasione di migranti irregolari a cui l’Italia non può più sottostare. Le stesse argomentazioni sono state portate ai partner europei, in realtà con scarsi risultati. L’accordo faticosamente raggiunto nel Consiglio Europeo non fa altro che ribadire la volontarietà degli stati nel trasferimento dei richiedenti asilo e quindi nella loro accoglienza, senza cambiare di una virgola i punti cardine del Regolamento di Dublino (che danneggia l’Italia in quanto paese di frontiera dell’Ue), con buona pace della “voce grossa” che avrebbe dovuto portare ad una svolta epocale nel ruolo che l’Italia gioca nella partita sulle migrazioni dell’Unione.

Controllare e proteggere i confini sembra diventata la parola d’ordine, talvolta unita ad una versione più umanitaria che fa leva sulla necessità di fermare il traffico di vite umane. Si tace, tuttavia, sul fatto che da alcuni anni non esistono praticamente più modalità legali per migrare. Le migrazioni economiche sono diventate sinonimo di migrazioni irregolari, che dunque non meritano protezioni internazionali. Non si riflette però a sufficienza sul fatto che i migranti cosiddetti economici percorrono le vie illegali anche a causa dell’assenza di una concreta possibilità di essere inclusi in flussi regolari (le quote flussi, che negli ultimi anni sono state drasticamente ridotte).

Inoltre, il richiamo (falso) all’invasione e alla necessità di contrastarla fa perdere di vista il tema cruciale della qualità della ricezione e dell’integrazione dei richiedenti asilo e rifugiati già presenti in Italia. Un numero peraltro non impossibile da gestire: si parla di 354 mila persone (di cui 170 mila nelle strutture di accoglienza), a fronte del milione e 400 mila della Germania e delle 402 mila della Francia. I comuni che sono entrati nella rete SPRAR (Sistema di Protezione per Rifugiati e Richiedenti Asilo), che promuove percorsi di integrazione spesso attraverso il modello dell’accoglienza diffusa nei territori, sono ancora una minoranza (circa 1200 per un totale di 35.869 posti finanziati). L’80% dei richiedenti asilo è ospitato in centri straordinari (CAS) gestiti direttamente dai prefetti che non di rado si sono trovati ad aprire centri di accoglienza nonostante il parere contrario dei comuni di riferimento. E una volta usciti dai percorsi di accoglienza, anche quando si è ottenuta una protezione e quindi un diritto a risiedere nel paese, l’integrazione per molti rimane un sogno soprattutto a causa dell’estrema difficoltà a trovare una sistemazione abitativa. Lo scorso settembre è stato pubblicato un “Piano Nazionale di integrazione dei titolari di protezione internazionale” (che tuttavia esclude i titolari di protezione umanitaria, che rappresentano più del 20% dei permessi rilasciati). Sebbene in linea di principio questo documento rappresenti un passo in avanti (riguardo ai cui effetti, tuttavia, ad oggi è difficile fare una valutazione) il fatto che sia promosso dal Ministero dell’Interno rimanda all’idea che il controllo e la sicurezza sono l’essenza della politica migratoria, mentre le migrazioni sono una politica trasversale per eccellenza che dovrebbe attraversare molti ministeri e dipartimenti. Il modo in cui un governo pone e definisce un tema, i toni e le metafore che utilizza per descriverlo, e naturalmente il modo con cui agisce su di esso, influiscono non poco nel formare l’opinione pubblica di un paese. Un paese frammentato, diffidente e impaurito rappresenta un rischio per la coesione sociale e la convivenza quotidiana nelle nostre città. La percezione della sicurezza tra i cittadini diminuisce quando si è continuamente esposti ai panic discourse.

Francesca Campomori, insegna Politiche sociali all’Università Ca’ Foscari di Venezia ed è membro del comitato scientifico dell’Osservatorio per la coesione e l’inclusione sociale.

Per saperne di più:
Maurizio Ambrosini (2018) Irregular immigration in Southern Europe. Actors, Dynamics and Governance, Palgrave Macmillan.

Fonte: Sondaggio OCIS-SWG, 9 febbraio 2018.

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La rivoluzione nel quotidiano? Il cambiamento degli stili di vita degli italiani https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/la-rivoluzione-nel-quotidiano-il-cambiamento-degli-stili-di-vita-degli-italiani/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/la-rivoluzione-nel-quotidiano-il-cambiamento-degli-stili-di-vita-degli-italiani/#respond Mon, 11 Jun 2018 13:44:24 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu//?p=4733 Social Cohesion Note n.3 – Maggio 2018. Di Francesca Forno, Università di Trento e Paolo Graziano, Università di Padova

Le forme del consumo responsabile
La responsabilità nelle scelte di consumo è di fondamentale importanza per la sostenibilità, sia sotto il profilo ambientale (tutela ambiente) sia sotto il profilo sociale (tutela del lavoro e sostegno alle piccole realtà produttive indipendenti). Ciò è ancora più vero nelle cosiddette “società dei consumi”, il cui modello economico si basa sull’incessante produzione e acquisto di merci. Scegliere consapevolmente cosa acquistare e cosa non acquistare ha assunto sempre di più i connotati di un’azione politica. Acquistare un bene, e non un altro, significa infatti scegliere di sostenere un tipo di economia e un tipo di relazioni sociali e, dunque, di società. A livello internazionale sempre più attenzione viene rivolta al consumo responsabile, come attesta l’obiettivo numero 12 dei Sustainable Development Goals (SDG) che si prefigge di “Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo” e in particolare la specificazione contenuta nella Risoluzione adottata dall’Assemblea della Nazioni Unite secondo cui ci si accerterà che entro il 2030 “tutte le persone, in ogni parte del mondo, abbiano le informazioni rilevanti e la giusta consapevolezza dello sviluppo sostenibile e di uno stile di vita in armonia con la natura” (pag. 21). Sebbene con un certo ritardo rispetto agli altri paesi europei, e in particolare ai paesi dell’Europa del Nord, anche in Italia le pratiche di boicottaggio e di buycottaggio si sono diffuse negli anni, contribuendo a far nascere nuove organizzazioni e reti di organizzazioni che non solo hanno saputo estendere le forme di intervento dei cittadini nella vita politica, ma hanno dato avvio a vere e proprie ‘innovazioni sociali’ o ‘laboratori di altra economia’. A titolo d’esempio si possono menzionare i bilanci di giustizia, le banche del tempo, la finanza etica, le reti e i distretti di economia solidale.

Sebbene alcuni studi recenti abbiano messo in evidenza la diffusione e diversificazione delle forme del consumo responsabile, tuttavia, troppo spesso mancano dati longitudinali che consentano un’accurata comparazione tra la situazione attuale e il passato. Per tale ragione, i risultati di un sondaggio commissionato dall’Osservatorio per la Coesione e l’Inclusione Sociale (OCIS) condotto dalla SWG[1] all’inizio di Febbraio 2018 sono invece illuminanti, in quanto permettono un confronto con i risultati rilevati nel 2002 da un analogo sondaggio realizzato nell’ambito dell’Ottavo Rapporto IREF sull’associazionismo sociale in Italia (novembre 2002).
[1] Indagine svolta il 9 febbraio 2018 con metodologia CAWI su un campione di 1.000 cittadini italiani maggiorenni, con quote proporzionali alla distribuzione della popolazione per genere, classi d’età e zona di residenza.

Una crescita lenta, ma inesorabile: alcuni dati
Il confronto tra i dati del 2002 e del 2018 evidenzia come ci sia stato un notevole aumento del numero di cittadini che adottano pratiche di consumo responsabile (Figura 1). I due questionari permettevano inoltre di distinguere tra diverse forme di consumo responsabile: il consumo critico, gli acquisti presso il circuito del commercio equo e solidale, la sobrietà volontaria, il turismo responsabile e la partecipazione a Gruppi di Acquisto Solidale.
Come si vede dalla Fig. 1, le persone che hanno adottato (anche solo temporaneamente) scelte di consumo critico – cioè che hanno comperato beni e servizi da imprese che rispettano il divieto di sfruttare il lavoro minorile, non inquinano l’ambiente devolvono una parte del loro surplus a fini di beneficienza) – sono passate all’11,3% al 30,3%. Le persone che hanno acquistato (anche solo sporadicamente) generi del commercio equo e solidale sono aumentate dal 16,3% al 37,3%, mentre il numero di persone che ha ispirato le proprie scelte di consumo ad uno stile di sobrietà (cioè comperato beni e servizi facendo attenzione al consumo energetico e al fatto che producono pochi rifiuti) è quasi quintuplicato: dal 10,5% al 51,7%. Infine, i turisti responsabili (cioè turisti che si propongono di limitare i viaggi nei paesi non democratici, di entrare in contatto con gli usi e i costumi dei paesi poveri, di far conoscere l’attività dell’economia solidale locale) sono passati dallo 0,2% al 7,5%, e gli aderenti ai Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) sono il 10,6% (nel 2002 il dato non era stato rilevato, in quanto questo tipo di gruppi mobilitava ancora un numero molto limitato di persone).

Figura 1: Il consumo responsabile. Confronto 2002-2018

Consumo
critico

 Commercio Equo
e solidale

  Sobrietà

  Turismo
sostenibile

    Spesa collettiva
tramite Gas

Non conosco

54

36,8

29,7

57,9

60,4

Non mi interessa

15,7

25,9

18,7

34,6

29

Si

30,3

37,3

51,6

7,5

10,6

Tot.

100

100

100

100

100

Fonte: Sondaggio OCIS-SWG, 9 febbraio 2018; Iref, Ottavo rapporto sull’associazionismo italiano, 2002.

Il confronto tra le due rilevazioni permette inoltre di evidenziare un altro elemento di particolare importanza che riguarda le ragioni di chi non ha adottato scelte di consumo responsabile (Tabella 1). Oltre ad una percentuale abbastanza costante di chi non l’ha fatto perché non interessato (oscillante dal 15,7% del consumo critico al 34,6% relativo al turismo responsabile), vi è una percentuale molto elevata (fino al 57,9% del turismo responsabile) di chi non ha adottato forme di consumo responsabile perché non le conosce. Un dato, questo,
che sottolinea come il consumo responsabile abbia ancora ampi margini di crescita se si aumenta l’informazione volta ad incrementare la consapevolezza degli impatti ambientali e sociali degli stili di vita e di consumo.

Tabella 1: Percentuale adozione e conoscenza delle diverse forme di consumo responsabile, 2018 (valori %)

Fonte: Sondaggio OCIS-SWG, 9 febbraio 2018.

 

Potenziare il consumo responsabile e l’economia eco-solidale
Prendendo le mosse dagli obiettivi ONU relativi allo sviluppo sostenibile, sembra ormai ineludibile che l’economia eco-solidale – sostenuta da comportamenti sempre più consapevoli di consumo responsabile – debba essere sostenuta e diffusa. A tal fine, i dati sopra illustrati forniscono alcune indicazioni molto utili per le politiche pubbliche locali e nazionali.

1) In primo luogo, è necessario sostenere un’azione volta ad aumentare l’informazione e educazione alla produzione e consumo responsabile, accompagnata da un sostegno a quelle modalità di acquisto che sono in grado di facilitare scelte di consumo sostenibile, ovvero alle diverse forme di piccola distribuzione organizzata – che vanno dalla vendita diretta, ai negozi di vicinato “green” ai Farmers’ markets – per esempio tramite affitti calmierati, abbattimento della tassa per occupazioni di suolo pubblico o lo sviluppo di piattaforme di comunità per l’acquisto e vendita di prodotti che rispettano ambiente e lavoro.

2) Inoltre, pare importante realizzare mappature partecipate che consentano anche una attività di monitoraggio nel tempo delle realtà di economia eco-solidale presenti sui territori (sul lato sia della produzione che su quello della distribuzione e del consumo) con l’intento di darne visibilità e facilitare la messa in rete di tali realtà, agendo quindi contemporaneamente sulle leve dell’informazione e della crescita di consapevolezza (si veda per esempio il progetto BergamoGreen realizzato dal Comune e dall’Università di Bergamo).

3) Infine, è fondamentale articolare forme di pressione istituzionale che renda la pubblica amministrazione – a più livelli – maggiormente consapevole e capace di riorientare le proprie politiche (ad iniziare da quelle che regolano i propri acquisti) a sostegno dell’economia eco-solidale.

Da sole, la consapevolezza e l’azione dei cittadini non sono sufficienti: è necessaria anche la consapevolezza e l’azione delle istituzioni.

Per saperne di più:
Francesca Forno e Paolo Graziano, Il consumo critico. Una relazione solidale tra chi produce e chi consumo, Bologna, Il Mulino.

http://www.economiasolidale.net/

https://comune-info.net/

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La “grande invasione”? Percezioni sbagliate e dati veri sull’immigrazione https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/la-grande-invasione-percezioni-sbagliate-e-dati-veri-sullimmigrazione/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/la-grande-invasione-percezioni-sbagliate-e-dati-veri-sullimmigrazione/#respond Thu, 15 Feb 2018 09:45:04 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu//?p=3570 Social Cohesion Note n.2 – Febbraio 2018. Di Francesca Campomori, Università Ca’ Foscari di Venezia
Il numero degli immigrati in Italia sta aumentando in maniera incontrollata?

Non accade solo in riferimento al fenomeno dell’immigrazione, ma certamente questo tema è un potente collettore di percezioni sovrastimate di pericolo e di allarme. Il sondaggio Ipsos Perils of Perceptions nel 2015 ci informa che gli italiani in media ritengono che gli immigrati rappresentino il 26 per cento della popolazione, ovvero più di 15 milioni. I numeri reali invece si fermano a poco più di 5 milioni (circa il 9 per cento della popolazione totale), compresi gli 1,5 milioni di cittadini Ue (in larga parte provenienti dalla Romania). Si deve tenere anche presente che: a) dal 1986 i governi di ogni colore politico hanno promosso a suon di sanatorie (sette tra il 1986 e il 2012) la regolarizzazione di quasi 1,9 milioni di immigrati regolari; in larghissima parte si tratta di persone di cui il mercato del lavoro (informale) italiano stava già usufruendo e di cui pertanto verosimilmente possiamo dire che avesse bisogno; b) durante gli anni in cui la crisi ha manifestato i suoi effetti più drammatici in termini di perdita di posti di lavoro le quote di ingresso per lavoro, fissate annualmente dallo Stato, si sono praticamente azzerate. Come argomenta Ambrosini, (https://welforum.it/gli-scenari-dellimmigrazione-nel-2018/) l’economia incide sui numeri dell’immigrazione per lavoro.

L’Italia è diventata un “grande campo profughi”?
La cosiddetta crisi dei rifugiati (a partire soprattutto dal 2014) ha portato parte dell’opinione pubblica – complici spesso i media e le dichiarazioni sconsiderate di alcuni leader politici – a
drammatizzare ed esasperare la percezione sull’immigrazione, contribuendo a moltiplicare l’uso di metafore come quella dell’invasione. Le migrazioni forzate, quando cioè le persone sono costrette a spostarsi dai propri paesi, rappresentano senz’altro un fenomeno drammatico e dal 2014 – questo è vero – le coste italiane sono state punto di approdo di un numero di profughi certamente maggiore rispetto al passato. Affermare che l’Italia è invasa dai profughi è, però, tutt’altra cosa, ed è sostanzialmente falso: di fatto i rifugiati e richiedenti asilo rappresentano lo 0,4 per cento della popolazione italiana (e lo 0,6 per cento di quella dell’Unione Europea). Dall’estate del 2017, inoltre, gli sbarchi sono nettamente diminuiti (da 180.000 del 2016 a 119.000 del 2017) specie per effetto degli accordi con la Libia: accordi che – vale la pena ricordarlo – non garantiscono alcuna tutela dei diritti umani per le persone che vengono trattenute nei campi profughi libici.
Altra percezione – sbagliata diffusa – è che l’Unione Europea sia costretta ad accollarsi la grande maggioranza dei profughi. La realtà è invece che la Turchia da sola ospita quasi 2,8 milioni di rifugiati e richiedenti asilo, seguita dal Pakistan (1,5 milioni) e dal Libano (poco più di 1 milione). Le richieste di asilo nell’Unione Europa nel 2016 si sono attestate a 1,2 milioni, di cui 122.960 in Italia. Nel settembre 2017 le persone accolte nel sistema di accoglienza italiano erano 196.285 (dati del Ministero dell’Interno). Il dossier Statistico Immigrazione, utilizzando i dati di Eurostat e UNHCR, afferma che i rifugiati e richiedenti asilo presenti attualmente in Italia siano 247.291. Siamo il quarto paese Ue per numero di rifugiati e richiedenti asilo: ci precedono la Svezia (312.267), la Francia (367.317) e la Germania (1.256.828). La grande maggioranza dei profughi non si trova comunque nei paesi occidentali, ma nei paesi limitrofi a quelli da cui sono fuggiti.

L’immigrazione sta producendo un processo di “islamizzazione” dell’Italia?
Il tema dell’identità religiosa che va perdendosi a causa dell’immigrazione è un altro dei miti da sfatare, pur senza voler creare improprie semplificazioni rispetto all’integrazione sociale e culturale, processi senza dubbio delicati e complessi. Il sondaggio già menzionato Ipsos Perils of Perception fa emergere che in media gli italiani sovrastimano notevolmente la presenza di migranti di religione musulmana ritenendo che rappresentino il 20 per cento della popolazione, mentre in realtà sono appena il 3% (meno di un terzo della popolazione immigrata, in numeri assoluti circa 1,5-1,6 milioni). Più della metà degli immigrati in Italia (52 per cento) si professa di fede cristiana.

Tra poche settimane saremo chiamati a dichiarare chi vogliamo che ci rappresenti in Parlamento: è necessario che (tutte) le forze politiche siano capaci di un approccio (più) responsabile al tema immigrazione, andando oltre percezioni sbagliate e dati scorretti: una corretta conoscenza del fenomeno è il punto di partenza per la costruzione di un paese più inclusivo e coeso.

Per saperne di più:

Ambrosini M. (2017), Migrazioni, Egea Editore

Dossier Statistico Immigrazione 2017, http://www.dossierimmigrazione.it/

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