Note – Osservatorio Coesione Sociale https://osservatoriocoesionesociale.eu Sito Osservatorio Coesione Sociale Wed, 17 Jul 2024 08:53:13 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.3.18 Pochi figli, non per scelta! L’Italia tra familismo e de-natalità https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/pochi-figli-non-per-scelta-litalia-tra-familismo-e-de-natalita/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/pochi-figli-non-per-scelta-litalia-tra-familismo-e-de-natalita/#respond Mon, 30 Oct 2023 14:34:00 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8450 NOTA n.5 – ottobre 2023 – di Manuela Naldini, Università di Torino

La denatalità: un fenomeno strutturale

Nel 1960, anno di inizio del periodo del baby boom (1960-1964), l’Italia poteva contava su 1 milione di nascite, nel 2021 su 400.249. I dati per il 2022 mostrano che per la prima volta dall’Unità d’Italia, i nati sono scesi sotto la soglia dei 400.00, attestandosi a 393 mila nati, meno 184.000 rispetto al 2008 (ISTAT 2022).

Fig. 1 Il crollo delle nascite

 

Tabella 1: Numero di nati 1960-2022

Anno Nascite
1960 1,000,000
2008 576,659
2012 534,186
2021 400,249
2022 393,000

Fonte: Istat, 2022

Perché le nascite diminuiscono? Da un punto di vista demografico, il numero dei nati è riconducibile a due fattori: 1) la ‘propensione’ degli individui in età riproduttiva a fare figli; 2) il numero di potenziali genitori.

In Italia la denatalità è solo in parte riconducibile al primo fattore, alla scelta di posporre – anche se è un dato di fatto che l’età media al parto continui a salire e si è attestata a 32,4 anni nel 2022 – o alla rinuncia al progetto genitoriale. Fattori, questi, che contribuiscono inconfondibilmente alla riduzione delle nascite e che non lasciano intravedere segnali di inversione di tendenza, come mostrano i dati sulla continua crescita della quota di donne che hanno il primo figlio dopo i 40 anni, da un lato, e dall’altro, sulla crescita del numero di donne che alla fine del periodo riproduttivo rimangono senza figli. Si tratta prevalentemente di donne childlesness, perché le childfree (senza figli per scelta) sono ancora una minoranza nel nostro paese, come suggerisce il dato ormai consolidato del fertility gap, ossia la differenza tra figli desiderati e fecondità realizzata, molto alta in Italia.

Tuttavia, il fattore più rilevante per comprendere la bassa natalità è il persistente fenomeno della bassissima fecondità, che in Italia dura da oltre 30 anni e che ha ridotto il numero dei potenziali genitori, a fronte di saldi migratori con l’estero che non consentono di compensare tale riduzione. L’Italia è dentro una ‘trappola demografica’: i pochi figli del passato, ossia i genitori di oggi, sono sempre meno e sempre più vecchi. La denatalità, come esito della riduzione delle donne in età riproduttiva, diventa cioè un fenomeno strutturale, che vincola al ribasso non solo le nascite attuali, ma anche quelle future (Mencarini e Vignoli 2018). D’altro canto a seguito della Pandemia ci si attende un’ulteriore contrazione delle nascite, come mostrano già i dati ISTAT sopra richiamati (Tab.1).

Alla crisi demografica fanno però da corollario altre crisi. Innanzitutto, quella occupazionale, per la bassa partecipazione delle donne e dei giovani al mercato del lavoro. Il tasso di partecipazione delle donne supera di poco il 50% – di molto inferiore rispetto al livello europeo. I dati sui NEET (giovani Not in Education, Employment or Training, ovvero coloro che non studiano e non lavorano) così come quelli relativi alla disoccupazione giovanile e all’alta diffusione del lavoro povero (working poor) completano il quadro poco edificante in cui si trovano a vivere i e le giovani e le loro famiglie oggi. L’Italia non è un paese per i giovani, non solo se guardiamo ai dati sulla dispersione scolastica e ai NEET, fenomeni questi che riguardano prevalentemente i giovani a bassa istruzione, ma anche se guardiamo alla popolazione giovanile altamente istruita. In Italia anche molti giovani laureati (o dottori di ricerca) sono costretti ad emigrare per trovare un lavoro adeguato rispetto alla formazione ricevuta e raramente rientrano: la cosiddetta ‘fuga dei cervelli’. Nel 2020 circa 23.000 giovani laureati nella fascia 25-39 sono andati a vivere all’estero, pari a 8,6 emigrati ogni 1000 laureati nella stessa fascia d’età.

Alla crisi demografica ed occupazionale si accompagnano divari strutturali e ampie disuguaglianze sociali: dalle vecchie e nuove divisioni territoriali tra Nord e Sud, alla diffusione dei working poor, al fenomeno persistente dell’alta incidenza della povertà economica, soprattutto tra i minori – 1 bambino su 10 vive in povertà assoluta, 1 su 4 in povertà relativa – ma anche la presenza in allarmante crescita della povertà educativa (si veda su questo il numero monografico della rivista Il Mulino dal titolo ‘L’Italia dei divari, il N. 4/2022).

 

Diventare genitori in un contesto ostile

Per capire come sostenere la fecondità è importante agire innanzitutto sui fattori strutturali, accrescendo – anche attraverso un aumento di migranti e una diminuzione di giovani che vanno all’estero – il numero delle potenziali madri, ma anche sul versante delle scelte individuali sostenendo quelle positive di fecondità. Ma come si configura oggi una decisione cruciale per gli individui e per la società come quella di avere figli? Tre sono i grandi cambiamenti osservabili. Innanzitutto è cambiato il se si diventa genitori (il figlio è il frutto del desiderio), il come (si pensi alle nuove possibilità aperte dagli scenari della procreazione medicalmente assistita) e il quando (sempre più tardi), ma ad essersi trasformata è soprattutto l’essenza della genitorialità: dai padri e dalle madri non ci si attende più solo un’attività di accudimento o di accompagnamento alla crescita, ma qualcosa (molto) di più. Si tratta di un modello di genitorialità ‘intensiva’ che opera forti pressioni sia sulle madri sia sui padri, seppur per ragioni diverse. Sul versante femminile agisce, a livello di definizione della identità femminile, il ‘mito della maternità’. Non poche sono le pressioni sociali a diventare madre, ma poi una volta che lo si diventa lo sforzo richiesto alle donne è enorme, soprattutto sul fronte della conciliazione tra maternità e lavoro. Sul versante maschile, a livello di definizione della propria identità, agisce il ‘mito del lavoro’. Da un lato, gli uomini se lavorano hanno più probabilità di avere figli e, se padri, più probabilità di lavorare di più e più ore; dall’altro, gli uomini fuori dal mercato del lavoro sono svantaggiati anche sul piano personale e difficilmente mettono su famiglia. Il tutto entro un contesto sociale e culturale caratterizzato da scarsa condivisione della cura tra padri e madri e da limitata parità di genere: anche se alcuni segnali di trasformazione verso un modello più coinvolto e accudente di paternità stanno emergendo, meno incoraggianti appaiono i segnali sul fronte della condivisione del lavoro familiare, in primis quello domestico.

Entro questo quadro di mutamento del significato della genitorialità, ma anche di mancati riequilibri di genere, è rilevante capire come per una giovane donna o un giovane uomo la scelta di avere un figlio, o averne un altro, si coniuga con la transizione alla vita adulta e con altre esperienze di vita, dall’autonomia abitativa alle scelte professionali. Avere un figlio, infatti, è una scelta cruciale nella biografia personale e familiare, non solo perché – a differenza di altre transizioni (uscire di casa, iniziare il primo lavoro, andare a convivere, ecc.) – diventare genitore segna una svolta non più reversibile, ma anche perché tale decisione non può essere vista come indipendente da altre scelte, bensì ha bisogno di inserirsi in un processo di autonomia, di realizzazione personale e di benessere articolato. Avere un figlio, o un figlio in più, e la scelta di lavorare, per esempio, devono essere rese compatibili sia attraverso misure di conciliazione, sia tramite una più ampia condivisione tra padri e madri del lavoro di cura e familiare, con congedi genitoriali rivolti soprattutto ai padri.

Nel contesto italiano, invece, più che altrove, alti livelli di disoccupazione giovanile, contratti precari, carriere lente, stipendi con cui è difficile sostenere il costo della vita, scarsi o inesistenti servizi e soprattutto percorsi lavorativi tortuosi – situazioni peraltro ulteriormente deteriorate dalle recenti crisi –  fanno sì che siano i giovani ad essere i più colpiti e a dover sospendere i propri progetti sul futuro. D’altra parte, diverse ricerche mostrano che una volta che il figlio tanto desiderato arriva, il contesto aziendale e lavorativo non si presenta come particolarmente friendly, sicuramente verso le madri (si vedano a titolo di esempio i dati Ispettorato del lavoro sulle ragioni delle dimissioni volontarie delle donne), ma anche verso i padri più ‘innovatori’ (quelli che assumono la cura come parte integrante del loro essere genitore), le cui implicazioni sul lavoro nel caso di utilizzo del congedo genitoriale possono essere ancora più penalizzanti che per le madri.

 

Come invertire la rotta?

A causa della natura strutturale della denatalità nel nostro paese più passa il tempo più diventa difficile invertire la curva negativa. È importante, pertanto, che le politiche se ne occupino. Sul versante delle politiche sociali la situazione italiana si è contraddistinta per una forte debolezza storica (ancorché duramente messa alla prova dalla pandemia prima e dalla contenuta crescita economica ora), sia in termini di politiche a sostegno dell’autonomia economica e abitativa dei giovani, sia per la presenza di un quadro frammentato e poco generoso di politiche a sostegno della famiglia con figli (con una sola recente rottura rappresentata dall’introduzione dell’Assegno unico universale), della conciliazione famiglia-lavoro e del sostegno alle pari opportunità.

Per contrastare problemi strutturali e di lunga durata serve un approccio altrettanto strutturato e di lunga durata. È necessario lavorare sul versante della riduzione delle diseguaglianze di genere e generazionali, predisponendo contesti favorevoli alla buona crescita di bambini e bambine. All’interno di un’economia sempre più basata sulla conoscenza, e a partire da un approccio che vede la spesa sociale non come un costo ma come un “investimento sociale”, è importante introdurre e implementare politiche e soprattutto servizi che vadano nella direzione di “creare, mobilitare e proteggere il capitale umano” (Hemerijck 2020 e Garriztmann et al 2022). Lavorare in vista della ‘creazione’ di capitale umano significa investire sistematicamente nelle giovani generazioni, a partire dai più piccoli e fin dalla nascita (anche con forme di contrasto alla povertà educativa) fino a sostenere la formazione e i percorsi di autonomia economica ed abitativa dei e delle giovani. La questione delle pari opportunità nel processo di crescita (art. 3 della Costituzione) è centrale non solo dal punto di vista dell’equità, ma anche della sostenibilità sociale ed economica. In tale direzione, l’investimento nelle nuove generazioni significa investire in servizi di qualità dalla primissima infanzia, per combattere la povertà educativa fin dalle sue origini, lavorare nella direzione di una maggiore qualificazione dei giovani fino all’università, anche rafforzando il sistema scolastico per contrastare la dispersione, specie dei ragazzi e delle ragazze di origine straniera.

A proposito della ‘mobilitazione’ del capitale umano in primo luogo delle donne e dei giovani, va detto che in una prospettiva di “investimento sociale” sono innanzitutto necessari strumenti che allo stesso tempo favoriscano l’occupazione femminile e la riduzione delle disuguaglianze di genere, attraverso servizi per l’infanzia ed extra-scolastici,  oltre che tramite misure volte a favorire il riequilibrio di genere nella condivisione del lavoro famigliare, ampliando e investendo in congedi di paternità, conciliazione famiglia-lavoro, parità salariale e accesso alle mansioni e alle carriere. Sul versante della mobilitazione dei giovani appaiono prioritarie tutte quelle misure che promuovono la transizione tra scuola e lavoro e gli investimenti volti a ridurre la disoccupazione giovanile, la dispersione scolastica e il fenomeno dei Neet.

Inoltre, rispetto all’obiettivo della ‘protezione’ del capitale umano, va sottolineato come il sistema di protezione del reddito sia un tassello cruciale. Dopo il recente smantellamento del Reddito di Cittadinanza, è necessario un ripensamento complessivo nel senso di investire in una misura universale in grado di tutelare il reddito sia di fronte all’instabilità lavorativa, sia di fronte alla povertà, tenendo presente che nel nostro paese avere un lavoro non protegge dal rischio di povertà, come il fenomeno dei working poor (fortemente in crescita) segnala. La diffusione del lavoro povero non interroga solo l’adeguatezza e l’equità dei sistemi di protezione sociale: interroga anche la sostenibilità economica e sociale di un sistema economico che produce e riproduce lavoratori e lavoratrici marginali.

Da ultimo, non per importanza, in un contesto come quello italiano nel quale il 70% delle famiglie possiede una casa in proprietà e le politiche a lungo l’hanno favorita anche con finalità di welfare, le politiche abitative, se mirate anche a sostenere l’autonomia dei giovani e la formazione della famiglia, non dovrebbero incentrarsi sull’acquisto della casa, ma su misure di facilitazione o calmierazione degli affitti, come avviene in diverse altre città europee

In conclusione, si rimarca la necessità di favorire un clima generale che garantisca, da un lato, il diritto alle pari opportunità ad una buona crescita fin dalla prima infanzia fino al sostegno all’autonomia dei giovani (dalla famiglia di origine) e dall’altro, l’introduzione di nuove forme di sostegno alla formazione delle famiglie. Famiglie tutte, comprese quelle di origine straniera (attraverso politiche favorevoli a saldi migratori stabili e positivi), incluse le ‘nuove’ famiglie come quelle omogenitoriali o separate. Lavorare al contempo alla costruzione di un modello di lavoro che promuova la cultura della parità e della paternità (si veda Nota OCIS di Cannito https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/la-paternita-in-italia-uno-sguardo-alla-situazione-presente-e-alle-politiche-future/), in cui anche i padri prendono il congedo e si occupano di cura, può gettare le basi per sostenere l’occupazione femminile e le scelte di fecondità.

 

Per saperne di più

Filandri, M. e Tucci V. Una casa per i giovani, un problema per tutti, https://www.rivistailmulino.it/a/una-casa-per-i-giovani-un-problema-per-tutti.

Gighi, R. e Naldini, M. (2022), Introduzione, “Un Paese sempre più diseguale”. In: L’Italia dei divari (a cura di R. Ghigi e M. Naldini) La Rivista Il Mulino, n. 520 .

ISTAT, Statistiche report, indicatori di nascite Anno, 2022

Hemerijck, A. (2015), “The Quiet Paradigm Revolution of Social Investment”, in: Social Politics: International Studies in Gender, State & Society, doi: 10.1093/sp/jxv009

Garritzmann, J. L. Häusermann, S, and  Palier, B. (2022) Social investments in the knowledge economy:The politics of inclusive, stratified, and targeted reforms across the globe, in: Social Policy and Administration, Vol 53, Issue 1

Mencarini; L.  e Vignoli, D.  2018, Genitori cercasi. L’Italia nella trappola demografica, UBE.

Naldini, M. (2015) (a cura di), La transizione alla genitorialità. Da coppie moderne a famiglie tradizionali, Bologna, Il Mulino

 

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La Corte di cassazione e il salario minimo adeguato costituzionale https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/la-corte-di-cassazione-e-il-salario-minimo-adeguato-costituzionale/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/la-corte-di-cassazione-e-il-salario-minimo-adeguato-costituzionale/#respond Fri, 27 Oct 2023 13:53:28 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8442 NOTA n.4 – ottobre 2023 – di Orsola Razzolini, Università di Milano

Introduzione: i fatti e il principio affermato dalla Corte di cassazione

Con le sentenze n. 27711, 27713 e 27769 depositate il 2 ottobre 2023, la Corte di cassazione richiama l’attenzione su un punto che nel dibattito politico sul salario minimo era ad oggi rimasto sullo sfondo: non è vero che in Italia non esiste il salario minimo legale; esiste il salario minimo costituzionale e la magistratura ne è il custode.

La portata del principio deve essere calata nella particolarità della vicenda che ne è all’origine e alla quale è utile fare cenno. Alcuni lavoratori dipendenti della società cooperativa Servizi fiduciari, a sua volta appaltatrice di Sicuritalia, chiedono la disapplicazione nei loro confronti del CCNL Vigilanza privata e servizi fiduciari poiché, seppur firmato da Cgil, Cisl e Uil, prevede una retribuzione ritenuta non conforme ai principi di sufficienza e proporzionalità sanciti dall’art. 36 della Costituzione in quanto inferiore persino alla soglia di povertà assoluta calcolata dall’ISTAT (poco più di 4 euro netti all’ora per 687 euro netti mensili).

Nel caso di specie, dunque, non viene in rilievo nessuno dei problemi da tempo denunciati dalla dottrina ed emersi nel dibattito politico[1]. In primo luogo, il CCNL in questione, fermo al 2013 e da tempo oggetto di attenzione pubblica per il livello bassissimo dei salari previsti, non è un contratto “pirata” poiché è stato firmato dalle associazioni sindacali (Filcams Cgil, Fisascat Cisl, Uiltucs) e datoriali (Agci, Anivip, Assiv, Assvigilanza, Confcooperative, Legacoop, Univ, Federlavoro) più rappresentative nell’ambito della categoria. In secondo luogo, la società cooperativa applica un contratto collettivo assolutamente coerente con l’attività esercitata in regime di appalto (attività di portierato, custodia, reception, guardiania non armata), nel pieno rispetto della legge e, in particolare, dell’art. 7, co. 4, d.l. n. 248 del 2007, che per il settore delle cooperative prevede l’applicazione ai lavoratori di un trattamento economico e normativo non inferiore a quello dettato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale della categoria[2], e dell’art. 11 del nuovo Codice dei contratti pubblici (già art. 30, co. 4 d.lgs. n. 50 del 2016), che impone che ai lavoratori sia applicato il contratto collettivo nazionale il cui ambito di applicazione risulti strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto. Addirittura, scrive il TAR Lombardia nella sentenza del 4 settembre 2023[3], il CCNL in questione è preso a riferimento dal Ministero del lavoro nella predisposizione delle tabelle relative alla determinazione del costo orario delle prestazioni da applicare ai fini della verifica della congruità delle offerte presentate in sede di partecipazione agli appalti pubblici.

Nonostante ciò, secondo i lavoratori, la retribuzione non può dirsi né proporzionata al lavoro svolto né sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa come viceversa previsto dall’art. 36 Cost. A venire messa apertamente in discussione è, dunque, la capacità delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative di fungere da «autorità salariale»[4] nei settori drammaticamente colpiti dal fenomeno del lavoro povero come la vigilanza, ma anche le pulizie e il multiservizi, il lavoro agricolo e il lavoro domestico[5].

La Corte di cassazione segue il ragionamento dei lavoratori e si discosta nettamente dalle pronunce rese dalla Corte d’appello di Torino e dal Tar Lombardia, viceversa orientate al rispetto assoluto del ruolo di autorità salariale svolto dalla contrattazione nazionale di categoria qualificata. Per la Suprema corte sia la contrattazione collettiva, sia – ed è questo il punto più significativo – la legge che ad essa espressamente rinvia devono risultare conformi alla nozione di salario minimo costituzionale che si ricava dall’art. 36 Cost., norma immediatamente precettiva di cui il giudice, in virtù dell’art. 2099 c.c., è garante e custode.

 

I parametri per determinare il salario minimo costituzionale

A differenza del salario minimo legale, quantificato anche nell’ultima proposta legislativa d’iniziativa PD e Cinque stelle nella cifra secca di 9 euro lordi all’ora[6], il salario minimo costituzionale è definito attraverso principi di carattere generale, il principio di proporzionalità e quello di sufficienza (art. 36 Cost.), spettando al giudice l’applicazione di tali principi al caso concreto, riempiendoli di contenuto[7].

Nell’interpretazione e applicazione dello standard costituzionale al caso concreto, il giudice si avvale di parametri e criteri che nelle due sentenze sono così identificati: il trattamento retributivo previsto da altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe, indicatori economici e statistici e criteri della Direttiva UE 2022/2041 relativa ai salari minimi adeguati alla quale viene così attribuita una immediata rilevanza giuridica nel nostro ordinamento, che ne precede la trasposizione[8].

Con riferimento agli indicatori economici e statistici, seguendo un’interessante e innovativa giurisprudenza di merito sviluppatasi negli ultimi anni, la Cassazione valorizza la soglia di povertà calcolata dall’ISTAT, l’importo della Naspi o della Cig, l’importo del reddito di cittadinanza con la precisazione che tali parametri funzionano in negativo, non in positivo: possono cioè essere utilizzati per corroborare (come avvenuto nel caso di specie) un giudizio di non sufficienza della retribuzione a garantire al percettore una minima sopravvivenza, ma non invece per sostenere un giudizio di sufficienza e proporzionalità della stessa. A tale fine è utile invece fare riferimento, anche avvalendosi di una consulenza tecnica d’ufficio, alle tariffe previste da altri contratti collettivi nazionali, tenendo conto delle mansioni svolte, delle dimensioni e della localizzazione dell’impresa e di specifiche situazioni locali.

Ma la parte più interessante della decisione è quella in cui la Suprema corte sottolinea la necessità di utilizzare anche i criteri forniti dalla direttiva 2022/2041 invocando, a sostegno di tale tesi, il consolidato orientamento della Corte di giustizia secondo cui, nelle controversie tra privati, il giudice nazionale deve fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme di diritto nazionale, anche prima del suo recepimento, con un limite preciso: il riferimento alla direttiva «non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale»[9].

Tra i criteri della direttiva spicca quello secondo cui il salario minimo adeguato si determina tenendo conto delle necessità materiali ma anche di quelle immateriali, come la partecipazione ad attività culturali, educative, sociali (considerando 28 della direttiva). Inoltre, viene dato risalto al parametro, comunemente impiegato a livello internazionale, costituito dal rapporto tra il salario minimo lordo e il 60% del salario lordo mediano e il rapporto tra il salario minimo lordo e il 50% del salario lordo medio. Il CNEL, nel documento approvato il 12 ottobre 2023, ha ricordato che, stando ai dati ufficiali ISTAT, disponibili solo per il 2019 visto che mancano quelli del 2022 e che il 2020 e 2021 non sono attendibili a causa degli effetti della pandemia, il 50% del salario medio è pari a 7,10 euro mentre il 60% di quello mediano è pari a 6,85 euro. La paga oraria lorda di un lavoratore inquadrato nella categoria D del CCNL Vigilanza e servizi fiduciari si colloca al di sotto di queste soglie, anche facendo riferimento al trattamento economico orario comprensivo di 13° e quota TFR (6,25 euro).

L’utilizzo da parte del giudice dei criteri previsti dalla direttiva desta alcune perplessità. La prima è che, nella prospettiva della direttiva, i criteri citati si rivolgono soltanto agli Stati membri in cui sono previsti salari minimi legali e servono ad orientarne la valutazione di adeguatezza (v. art. 5, dir. 2022/2041). Dunque, non sembrano poter essere immediatamente utilizzati dal giudice nazionale per sindacare l’adeguatezza del salario minimo contrattuale: soluzione che la direttiva, come noto, privilegia e promuove rispetto a quella del salario minimo legale. Si esce dall’impasse se si ritiene che l’argomentazione della Corte prende le mosse dalla considerazione che, nel settore delle cooperative, esiste in fondo un salario minimo legale definito attraverso la tecnica del rinvio legale alla contrattazione “di qualità”: vi è infatti una norma di legge, l’art. 7, co. 4 d.l. n. 248 del 2007, che rinvia al CCNL stipulato organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale della categoria quale parametro per determinare il trattamento economico e normativo dei lavoratori delle cooperative.

La seconda perplessità è che, come dimostra il documento CNEL, i dati ISTAT relativi al salario lordo medio e mediano sono risalenti nel tempo (2019-2021) e mai aggiornati in tempo reale. Il giudice potrà farvi riferimento ma soltanto come un possibile parametro per orientare il proprio giudizio di sufficienza (non di proporzionalità) della retribuzione nel caso concreto.

Infine, nell’interpretare in modo conforme alla direttiva il salario minimo legale – nel caso di specie l’art. 7, co. 4  d.l. n. 248 del 2007 – il giudice nazionale non finisce nei fatti col disapplicarlo così andando oltre il limite tracciato dalla Corte di giustizia con il divieto di interpretazione contra legem?

 

I limiti del sindacato giudiziale e le implicazioni della sentenza

Il salario minimo costituzionale individuato dal giudice prevale su quello stabilito dal contratto collettivo nazionale di categoria ancorché quest’ultimo fosse stato firmato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (Cgil, Cisl, Uil) ovvero ad esso rinviasse espressamente una norma di legge (l’art. 7, co. 4, d.l. n. 248 del 2007).

Secondo la Suprema Corte è senz’altro vero che la contrattazione collettiva rappresenta nel nostro ordinamento la massima autorità salariale così che i salari da essa determinati sono assistiti da una presunzione relativa di adeguatezza (come riconosciuto anche dalla direttiva). Tuttavia, i principi di sufficienza e proporzionalità sanciti dall’art. 36 Cost. sono «gerarchicamente sovraordinati alla legge e alla stessa contrattazione collettiva» e si «impongono dall’esterno nella determinazione del salario».

In giurisprudenza è da tempo acquisito che, in base all’art. 2099 c.c. e all’art. 36 Cost., la retribuzione prevista dai CCNL è il principale parametro che il giudice utilizza per determinare la retribuzione dovuta al lavoratore in caso di contenzioso: parametro da cui tuttavia egli può sempre discostarsi qualora non corrisponda ai principi costituzionali di sufficienza e proporzionalità. Assai meno scontato è che tale verifica giudiziale possa essere compiuta anche quando sia la legge stessa a rinviare alla contrattazione collettiva, sottoscritta dalle associazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative, ai fini della determinazione del trattamento economico dovuto al lavoratore. Il contrasto tra legge e Costituzione non dovrebbe essere in tal caso risolto dalla Corte costituzionale?

Secondo la Suprema Corte no: la necessità di verifica giudiziale dell’adeguatezza della retribuzione si impone anche qualora alla contrattazione rinvii espressamente “in bianco” una norma di legge. Quando la legge, per la determinazione del salario, delega in bianco le associazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative, non è altro se non un mero schermo che si interpone tra il giudice e la contrattazione: schermo che non può valere a rendere quest’ultima immune dal sindacato giudiziale di conformità ai contenuti precettivi dell’art. 36 Cost.

Sul piano tecnico giuridico, questa motivazione non soddisfa appieno, né appare condivisa dalla giurisprudenza amministrativa che si muove su diversi binari. Il richiamo all’interpretazione costituzionalmente orientata non fuga ogni dubbio sul fatto che, nel caso di specie, il sottile confine tra interpretazione e integrazione/creazione del diritto sia stato superato. Ma le sue implicazioni sono di grande interesse e contribuiscono ad offrire una soluzione (pur parziale) al problema dei bassi salari contrattuali e del lavoro povero.

L’implicazione più evidente, subito riconosciuta dalla stessa Corte di cassazione, è che anche un’eventuale futura legge sul salario minimo legale che si limitasse a generalizzare il meccanismo previsto per il settore delle cooperative, operando un rinvio “in bianco” alla contrattazione collettiva di qualità (v., ad esempio, l’art. 2 della Proposta di legge del 4 luglio 2023), non sarebbe immune dal sindacato del giudice condotto sulla base dei principi di sufficienza e proporzionalità. La Suprema corte sembra persino utilizzare tale argomento per stimolare il legislatore ad adottare soluzioni più incisive, come l’individuazione di una soglia oraria minima invalicabile uguale per tutti[10].

L’affermazione in apparenza radicale si stempera se letta alla luce del monito di fondo contenuto nella sentenza: la contrattazione collettiva rimane la principale autorità salariale nel nostro paese e da essa il giudice si può discostare in casi eccezionali e limitati, «con grande prudenza e rispetto» e con l’obbligo di motivare tale scelta. In questo contesto, il legislatore potrà in futuro decidere di definire il salario minimo legale attraverso il meccanismo sperimentato per le cooperative, rinviando “in bianco” alla contrattazione qualificata senza indicare una soglia minima oraria invalicabile. Ma in quei settori (per fortuna limitati) in cui la contrattazione non riesce più a svolgere il ruolo di autorità salariale[11], il lavoratore potrà invocare il salario minimo costituzionale di garanzia, un generale ombrello protettivo di applicazione giudiziale che contribuirà a rafforzare, pur indirettamente, il potere negoziale dei sindacati.

A differenza del salario minimo legale, quello costituzionale, essendo costruito sulla base di uno standard e non di una rule, non è fisso e uguale per tutti; attraverso il medium della discrezionalità del giudice, potrà variare e tenere conto, a scapito della certezza del diritto, delle diverse esigenze di giustizia sociale che emergono nelle pieghe del caso concreto. D’altra parte, per come è costruito, il salario costituzionale non è il salario minimo uguale per tutti ma è il salario giusto (o adeguato) in un determinato rapporto di lavoro.

Che questo possa essere uno scenario possibile, che deve indurre a grande cautela ma non deve procurare allarme eccessivo, lo dimostra quanto avvenuto all’indomani della pubblicazione della sentenza: Sicuritalia ha deciso di mettere fine agli appalti “al ribasso” e ha (re-)internalizzato il servizio, acquisendo l’azienda gestita dalla cooperativa Servizi fiduciari e sottoscrivendo un accordo con i sindacati per un piano di incremento delle retribuzioni del 38% per i lavoratori addetti a servizi di sicurezza non armata, con un investimento complessivo nel lavoro di 100 milioni nell’arco del prossimo quinquennio.

Per giungere a tale risultato, il lavoratore ha dovuto tuttavia rivolgersi ad un avvocato e ad un giudice. E, come ricordava Mauro Cappelletti, la giustizia è difficilmente accessibile per il povero se viene lasciato da solo.

 

Note

[1] Per una rassegna si veda Razzolini (2023) in OCIS Social Cohesion Paper n.1 – Febbraio 2023 curato da Matteo Jessoula.

[2] La Corte costituzionale ha giudicato questo meccanismo legislativo compatibile con l’art. 39 Cost. (v. sent. n. 51/2015). L’art. 2 della Proposta di legge PD e Cinque stelle n. 1275 del 4 luglio 2023 lo riprende e lo generalizza a tutti i settori, integrandolo con quanto previsto dall’art. 30, co. 4, del d.lgs. n. 50 del 2016, oggi art. 11, d.lgs. 31 marzo 2023, n.36 (Codice dei contratti pubblici).

[3] La sentenza, emessa in un parallelo giudizio amministrativo, annulla il verbale dell’Ispettorato del lavoro che rideterminava secondo il CCNL pulizie e multiservizi le retribuzioni corrisposte ai soci-lavoratori dipendenti della Cooperativa Servizi fiduciari.

[4] L’espressione è utilizzata da Tiziano Treu (2022), Salario minimo: estensione selettiva dei minimi contrattuali, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 456/2022.

[5] Sul punto v. anche il documento CNEL, Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia, 7 ottobre 2023 (approvato in Assemblea il 12 ottobre 2023), 19.

[6] Da ultimo v. l’art. 2 della Proposta di legge n. 1275 del 4 luglio 2023.

[7] Si potrebbe utilizzare in proposito la dicotomia statunitense rules-standards per distinguere le prescrizioni normative il cui contenuto è definito interamente ex ante dal legislatore, a tutela di esigenze di certezza, da quelle il cui contenuto è definito in termini solo generali, rinviandone la precisa declinazione alla discrezionalità giudiziaria, che opera ex post. Sulla distinzione rules-standards v. Kaplow (1992), Rules vs standards: an economic analysis, in Duke Law Journal, vol. 42, 557 ss.

[8] In generale si veda Natili e Ronchi (2023) in OCIS Social Cohesion Paper n.1 – Febbraio 2023 curato da Matteo Jessoula.

[9] Nella sentenza viene richiamata la giurisprudenza della Corte di giustizia di cui si segnala la sentenza Cgue, 24 giugno 2010, C-98/09, Sorge, par. 52. Da ultimo, Cgue, 12 ottobre 2023, C-326/22, Z., par. 35.

[10] Afferma la Corte: «Risulta pertanto che nel nostro ordinamento una legge sul “salario legale”, come quella in materia di cooperative, non possa realizzarsi attraverso un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva; posto che il rinvio va inteso nel quadro costituzionale che impone un minimum invalicabile nel caso concreto» (par. 49).

[11] Si veda, in generale, Razzolini (2023) in OCIS Social Cohesion Paper n.1 – Febbraio 2023 curato da Matteo Jessoula.

 

Per saperne di più:

CNEL (2023), Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia, Parte I e II, approvato nell’Assemblea del 12 ottobre 2023.

Jessoula, M. (2023), Una questione politica (e di relazioni industriali): il salario minimo in Italia e in Europa, OCIS Social Cohesion Papers, n. 1- Febbraio 2023.

Pascucci, P. (2018), Giusta retribuzione e contratti di lavoro. Verso un salario minimo legale?, Franco Angeli.

Ranci Ortigosa, E. (2018), Contro la povertà. Analisi economica e politiche a confronto, Francesco Brioschi Editore.

 

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La paternità in Italia: uno sguardo alla situazione presente e alle politiche future https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/la-paternita-in-italia-uno-sguardo-alla-situazione-presente-e-alle-politiche-future/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/la-paternita-in-italia-uno-sguardo-alla-situazione-presente-e-alle-politiche-future/#respond Wed, 30 Aug 2023 08:55:08 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8335 NOTA n.3 – Luglio 2023 – Di Maddalena Cannito, Scuola Normale Superiore

Come di consueto, anche nel maggio di quest’anno è stato pubblicato il Rapporto di Save the Children “Le equilibriste. La maternità in Italia” (Minello e Cannito 2023). Il Rapporto ha un titolo di per sé già molto evocativo perché ci ricorda che la genitorialità per le donne comporta destreggiarsi tra ostacoli che richiedono vere e proprie forme di equilibrismo per essere aggirati e che, talvolta, sono talmente insormontabili da determinare una rinuncia o al lavoro o alla maternità o a entrambe le cose.

Questa edizione del Rapporto, però, segnala anche un piccolo cambiamento culturale perché per la prima volta contiene una sezione dedicata alla paternità. Questa aggiunta è importante non tanto o non solo perché mette a tema le possibili difficoltà incontrate anche dagli uomini quando diventano genitori, ma soprattutto perché molti degli ostacoli sperimentati dalle madri e lo stallo in cui si trova il nostro Paese, in termini di fecondità e occupazione femminile, dipendono anche dalla mancata tematizzazione, nelle politiche come nelle pratiche, del ruolo dei padri.

Vediamo, allora, a che punto siamo in Italia sia sul fronte della divisione della cura dei figli e dell’impegno nel lavoro retribuito, sia sul fronte delle politiche che si rivolgono esplicitamente ai padri, per poi dare uno sguardo a possibili strumenti di policy futuri per invertire l’attuale rotta.

Pochi figli e poco lavoro (retribuito): la solitudine delle donne italiane

Nel 2022, in Italia, si è raggiunto il minimo storico delle nascite che sono state 392.598 (-1,9% rispetto al 2021, -26,5% in 10 anni) frutto non solo della rinuncia a fare figli o a farne più di uno, ma anche del posponimento della genitorialità (Istat 2023). L’età media al primo figlio, infatti, è ormai prossima ai 32 anni per le donne (oltre i 35 per gli uomini) (Ibidem) e il nostro paese si contraddistingue per un record di parti over 40 che nel 2021 hanno raggiunto il 10,2% (Boldrini et al. 2022).

L’aspetto interessante è che l’Italia si caratterizza anche per una bassissima occupazione femminile e, tuttavia, il dato non stupisce perché è ormai ben noto come l’impegno delle donne nel mercato del lavoro, lungi dall’essere un ostacolo, sia in realtà un elemento di sostegno alla fecondità. O meglio, l’occupazione è un fattore incentivante laddove il lavoro, soprattutto la sua qualità, permetta di fare figli. È vero, infatti, che la disoccupazione femminile non fa aumentare la fecondità – sono emblematiche in questo senso le regioni del Meridione dove, nel 2022, l’occupazione femminile era al 34,4%[1] e la diminuzione delle nascite è stata più marcata che nel resto d’Italia – ma è altrettanto vero che non tutti i lavori sono egualmente incoraggianti.

Nel primo semestre del 2022, infatti, nel nostro Paese, tra i contratti attivati per le donne solo il 15% era a tempo indeterminato e il 38,7% a termine, mentre il restante 46,3% si componeva di contratti variamente precari e discontinui (apprendistato, lavori stagionali, a somministrazione, lavoro intermittente), con una quota di contratti part-time che superava il 70% (Esposito 2022).

Inoltre, in Italia, il rinforzo occupazione-fecondità è unidirezionale perché avere figli continua ad un impatto negativo sul lavoro retribuito femminile. I tassi di inattività oltre che quelli di disoccupazione aumentano alla presenza di figli e all’aumentare del loro numero tanto che, anche laddove l’inattività femminile diminuisca, aumenta l’incidenza delle ragioni legate alla cura, indicando che l’uscita dal mercato del lavoro in presenza di responsabilità familiari si configura come un cul de sac da cui le donne non riescono ad uscire (Ibidem). Disoccupazione e inattività femminili, infatti, sono anche il risultato degli squilibri nella cura, come dimostra annualmente il rapporto sulle dimissioni volontarie (Ispettorato nazionale del lavoro 2021) che, nel 2021, ha visto le donne non solo rappresentare il 71% del totale dei lavoratori dimissionari, ma anche il 97,6% e il 93,8% di coloro che si sono dimessi per difficoltà a conciliare il lavoro con la cura per ragioni legate ai servizi di cura e per ragioni legate all’azienda

In questo quadro, dove sono i padri italiani? Nel nostro paese, in effetti, non solo siamo lontani dal modello di coppia a doppio reddito, ma ancora di più lo siamo dal cosiddetto universal caregiver model. Questo non è certo il modello prevalente in Europa (Martínez-Pastor et al. 2022), ma lo è ancora meno in Italia. Intanto, la genitorialità nel caso degli uomini ha un effetto estremamente incentivante sull’impegno nel lavoro retribuito: il tasso di occupazione nella fascia di età 25-54, nel 2022, schizza dal 71% degli uomini senza figli al 90% di quelli con figli, aumentando tra l’altro al crescere del numero di bambini minorenni presenti in famiglia (Minello e Cannito 2022).

Inoltre, seppure alcuni timidi miglioramenti non si possano sottovalutare, come il crescente coinvolgimento emotivo e pratico degli uomini più giovani con i propri figli, la divisione del lavoro di cura nelle coppie eterosessuali rimane molto sbilanciato. Questo è certamente dovuto al minor impegno nel mercato del lavoro femminile e dalla sua maggiore precarietà,

intermittenza e forma a tempo parziale. Tuttavia, come si diceva poco sopra, i modelli di lavoro sono anche il risultato del gap nella cura dei figli dato che solo il 30,6% degli uomini vi si dedica abitualmente (Bergamante e Mandrone 2022) e che si registra un divario di 20 ore settimanali tra uomini e donne (Ferraz Ignacio et al. 2020).

Le ragioni di questi squilibri sono numerose e complesse[2], ma tra queste spicca certamente il ruolo delle politiche sia nella possibilità di contrastarle sia nella loro riproduzione.

 

Le politiche per i padri in Italia in prospettiva comparata

Il quadro appena descritto chiama in causa la questione della divisione della cura dei/delle figli/e e delle possibilità offerte dalle politiche per conciliare famiglia e lavoro. Ovviamente, la cura può essere supportata in vari modi: economicamente; tramite servizi, attraverso ad esempio gli asili nido; fornendo tempo per la cura, attraverso i congedi. Le criticità sui primi due fronti sono ben note e in parte superate nel primo caso, attraverso l’istituzione dell’Assegno Unico Universale, mentre restano ancora gravi sul fronte degli asili nido con un tasso di copertura, per l’anno educativo 2020/2021, fermo al 27,2% e un’offerta pubblica solo del 49% (Istat 2022). Ciò che manca nelle politiche italiane, invece, è una piena consapevolezza dell’importanza del tempo per la cura che passa soprattutto dalla promozione dell’impegno maschile coi figli e che è un elemento centrale nella riduzione degli squilibri di genere e nel rilancio dell’occupazione femminile.

In questo senso il congedo di paternità e parentale – sui quali si tornerà a breve – si configurano come due strumenti essenziali proprio alla luce dell’alto investimento, anche in termini di tempo, che gli uomini italiani continuano a fare nel lavoro retribuito. Queste misure, infatti, sono pensate per dare tempo per la cura ai genitori che lavorano e, dunque, per permettere loro di conciliare partecipazione al mercato del lavoro e presenza con i figli.

Proprio alla luce delle caratteristiche del contesto italiano descritte nel precedente paragrafo sarebbe particolarmente urgente – e probabilmente efficace – combinare investimenti che promuovano l’occupazione femminile e, soprattutto, delle donne madri con altri che incoraggino la cura da parte dei padri lavoratori.

Tuttavia, l’Italia rimane un Paese con poca iniziativa su questo fronte: a titolo esemplificativo, nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) la parola paternità è citata una sola volta in relazione al Family Act (legge n. 32 dell’aprile 2022), nonostante la centralità – quantomeno dichiarata – della parità di genere, considerata un obiettivo strategico e trasversale al Piano che viene, però, declinata solo in termini di uguaglianza nel lavoro retribuito. Il nostro Paese, in effetti, generalmente si limita a adeguarsi alle Raccomandazioni e alle Direttive europee.

Il congedo di paternità, che ha compiuto 10 anni proprio l’anno scorso, con il Decreto legislativo 105 del giugno 2022 è stato elevato a 10 giorni obbligatori che è, tuttavia, la durata minima stabilita dall’articolo 4 della Direttiva 1158/2019 di cui il Decreto dava attuazione. Nonostante l’elevata indennità, pari al 100% dello stipendio, la sua durata è incomparabile rispetto ad altri Paesi europei che hanno colto l’occasione del recepimento della Direttiva per dare uno slancio in questa direzione: la Francia ha previsto 4 settimane, mentre la Spagna addirittura 16 di cui 6 obbligatorie, solo per fare alcuni esempi di Paesi a noi vicini (Koslowski e Blum 2022). Inoltre, lo stesso Decreto ha sì finalmente esteso il congedo di paternità anche ai dipendenti pubblici, oltre a quelli privati, ma non ha incluso i lavoratori autonomi e parasubordinati. Questo esclude, di fatto, molti uomini con condizioni lavorative non standard: per dare un ordine di grandezza, nel I semestre del 2022, solo il 50,3% dei contratti attivati per uomini under 29 riguardavano rapporti di lavoro di tipo subordinato di cui, peraltro, solo il 12,3% a tempo indeterminato (Esposito 2022). L’obbligatorietà, infine, è stata sancita con sanzioni amministrative che, si spera, possano renderla effettiva, visto che l’Inps ha stimato che nel 2021 solo il 57,6% dei padri aventi diritto ne avesse fatto uso (De Paola e Moro 2023).

Il traino europeo è stato limitato anche in materia di congedi parentali che sono stati solo parzialmente rivisti. Due sono gli elementi di novità più interessanti. Il primo, introdotto sempre con il D.lgs. 105/2022, è l’apertura del congedo parentale – diversamene da quello di paternità –anche a uomini lavoratori autonomi e parasubordinati e l’estensione del periodo indennizzabile che è passato da 6 a 9 mesi. Questo cambiamento è importante perché ogni genitore ha diritto a massimo 6 mesi di congedo per cui di fatto c’è una quota indennizzata di 3 mesi che non può essere trasferita; l’obiettivo è far sì che il congedo venga condiviso tra madri e padri. La seconda novità è frutto della Legge di Bilancio per il 2023 che ha elevato all’80% la retribuzione del primo mese di congedo, lasciando però invariata l’indennità al 30% per i restanti mesi. Se è tecnicamente possibile anche per il padre farne uso, certo è che l’indennità identica al congedo di maternità sembra piuttosto incoraggiare le donne a prolungare la propria astensione dal lavoro.

Per quanto riguarda il take up, nel 2021 (dati più recenti disponibili), i padri hanno rappresentato il 21% del totale dei fruitori di congedi parentali per una durata media di 25 giorni a fronte dei 62 delle madri. Questo significa che quelle (poche) donne madri che lavorano sono anche quelle che più spesso e più a lungo interrompono l’impegno nel lavoro retribuito per conciliare famiglia e lavoro. Inoltre, se è vero che i padri passano più tempo con i propri figli, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, questo non tende a non interferire con il loro impegno nel lavoro retribuito.

 

Uscire dallo stallo: proposte che guardano al futuro

Da diversi anni ormai, soprattutto a livello europeo, si discute su quali siano le caratteristiche fondamentali per ridisegnare i congedi parentali in modo che siano anche i padri a farne uso. Alcuni studi (ad es. Van Belle 2016) hanno evidenziato che, al netto delle irriducibili differenze fra Paesi, certe dimensioni rimangono fondamentali e in particolare: il livello di compensazione economica, la eligibility e le categorie di lavoratori coperte, la flessibilità, l’obbligatorietà effettiva, l’individualità del diritto, i bonus in denaro o in tempo se entrambi i genitori prendono il congedo.

Va in questa direzione il Disegno di legge 2125 presentato il 9 marzo 2021 dal Senatore Nannicini, in quota Partito Democratico, assegnato alla 11ª Commissione permanente (Lavoro pubblico e privato, previdenza sociale) il 15 ottobre 2021 e ancora in attesa di essere discusso. Le proposte contenute nel Ddl (Tab. 1) sono interessanti non solo perché riconoscono il valore, sia simbolico che economico della genitorialità e della cura prestata, ma anche perché equiparano i diritti e doveri materni e paterni (e di entrambi i genitori in coppie omosessuali). Inoltre, il Ddl annulla i trattamenti differenziati fra categorie di lavoratori e lavoratrici estendendo a tutti gli stessi diritti. Infine, propone modalità di lavoro flessibili che sono fondamentali per la condivisione delle cure (Martínez-Pastor et al. 2022) a condizione che, però, non indeboliscano ulteriormente la posizione lavorativa delle madri.

Tab. 1 Comparazione normativa attuale e Disegno di legge c.d. Nannicini

 

Normativa attuale Ddl Nannicini
CONGEDO DI MATERNITÀ
Durata 5 mesi obbligatori (obbligatorietà sancita con sanzioni penali) Invariata
Periodo di fruizione Da 2 mesi prima del parto a 5 successivi Invariato
Modalità di fruizione Non frazionabile Invariata
Indennità 80% 100%
Beneficiarie Tutte le lavoratrici Tutte le lavoratrici
CONGEDO DI PATERNITÀ
Durata 10 giorni obbligatori + 1 facoltativo (obbligatorietà sancita con sanzioni amministrative) 5 mesi obbligatori (obbligatorietà sancita con sanzioni penali)
Periodo di fruizione dai 2 mesi precedenti la data del parto fino ai 5 mesi successivi Invariato
Modalità di fruizione Su base giornaliera (non oraria) Invariata
Indennità 100% 100%
Beneficiari Solo dipendenti pubblici e privati Tutti i lavoratori
CONGEDO PARENTALE
Durata 10 mesi (elevabili a 11 se il padre ne usa almeno 3) 12 mesi
Periodo di fruizione Entro i 12 anni di vita dei figli Entro i 14 anni di vita dei figli
Modalità di fruizione Anche su base oraria Invariata
Indennità 9 mesi totali di cui il primo all’80% e i restanti al 30% (6 mesi indennizzati per ciascun genitore) 6 mesi retribuiti all’80% e i restanti al 30% (6 mesi indennizzati per ciascun genitore)
Beneficiari/e Coperti anche lavoratori/trici autonomi e a gestione separata ma non equiparati ai dipendenti Tutti i lavoratori e le lavoratrici
Misure aggiuntive correlate Sistema di certificazione della parità di genere alle imprese con esonero dal versamento di una percentuale dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro (Missione 5 PNRR “Inclusione e coesione”) 1) Part-time condiviso per 12 mesi nei primi 6 anni di vita dei figli con indennità a condizione che entrambi i genitori riducano (congiuntamente o in periodi diversi) l’orario di lavoro

2) Lavoro agile con un’indennità di condivisione se adottato (congiuntamente o in periodi diversi) da entrambi i genitori

3) Sostegno alle aziende:

– sollevare le microimprese dall’anticipazione delle indennità di congedo;

– sgravio del 50% sui contributi per personale con contratto a tempo determinato in sostituzione di lavoratrici e lavoratori in congedo e per lavoratrici e lavoratori in part-time condiviso

 

Da segnalare sono anche alcune iniziative dal basso e, in particolare, alcuni progetti europei tra cui “4E-PARENT”[3] che hanno tra i propri obiettivi proprio quello di svolgere un ruolo di advocacy per la riforma dei congedi parentali e di paternità verso proposte sempre più egualitarie. Questo tipo di progetti sono interessanti perché cercano di inserire il discorso sulla paternità in un più ampio quadro che include non solo il benessere delle bambine e dei bambini e degli stessi genitori e il perseguimento della parità di genere, ma anche orizzonti di più vasta portata quali la prevenzione della violenza contro le donne.

La paternità, insomma, ci riguarda tutte e tutti e può configurarsi come una leva di cambiamento dell’intera società.

 

Bibliografia

Bergamante F. e Mandrone E. (a cura di) (2022), Rapporto PLUS 2022. Comprendere la complessità del lavoro, Roma, Inapp, https://oa.inapp.org/jspui/bitstream/20.500.12916/3827/1/Bergamante_Mandrone_Rapporto-Plus-2022.pdf

Boldrini R., Di Cesare M., Basili F., Campo G., Moroni R., Romanelli M., Rizzuto E. e Trevisani V. (2022), Certificato di assistenza al parto (CeDAP). Analisi dell’evento nascita – Anno 2021, Roma, Direzione Generale della Digitalizzazione del Sistema Informativo Sanitario e della Statistica.

Cannito M. (2022), Fare spazio alla paternità. Essere padri in Italia tra trasformazioni del welfare, ambienti di lavoro e modelli di maschilità, Il Mulino, Bologna.

De Paola M. e Moro D. (2023), Papà a casa col bebé: quanto contano le norme sociali, https://lavoce.info/archives/100260/papa-a-casa-col-bebe-quanto-contano-le-norme-sociali/.

Esposito M. (a cura di) (2022), Gender Policies Report 2022, Roma, Inapp.

Ispettorato Nazionale del Lavoro, 2021, Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, ai sensi dell’art. 55 del Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151 – Anno 2021, https://www.ispettorato.gov.it/files/2022/12/INL-RELAZIONE-CONVALIDE-DIMISSIONI-RISOLUZIONI-CONSENSUALI-2021.pdf.

Ferraz Ignacio C., Rafael Mosquera Ruiz E., Da Cunha A., Cerdeira L. e Moura T. (2020), State of Europe’s Fathers: Men’s Caregiving in the European Union, Bruxelles, European Parliament.

Istat (2022), Offerta di nidi e servizi integrativi per la prima infanzia. Anno educativo 2020/2021, Roma, Istat.

Istat (2023), Dinamica demografica. Anno 2022, Roma, Istat.

Martínez-Pastor J., Teresa J. Fernández-Lozano I. e Castellanos-Serrano C. (2022), Caring Fathers in Europe: Toward Universal Caregiver Families?, in «Gender, Work & Organization», OnlineFirst, pp. 1-23.

Minello A. e Cannito M. (2023), Le equilibriste. La maternità in Italia, Roma, Save the Children,  https://www.savethechildren.it/cosa-facciamo/pubblicazioni/le-equilibriste-la-maternita-in-italia-2023

Van Belle J. (2016), Paternity and parental leave policies across the European Union, RAND Europe, Bruxelles.

__________

[1] Dati I.stat in Lavoro e retribuzioni.

[2] Per un approfondimento sullo “stato dell’arte” della paternità in Italia si rimanda a Cannito (2022).

[3] Per approfondimenti si rimanda a https://4e-parentproject.eu/ e a https://www.secondowelfare.it/primo-welfare/famiglia/sostenere-un-nuovo-modo-di-essere-padri-il-progetto-europeo-4e-parent/.

 

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Hubris, nemesis (tanta), e catharsis (poca). L’economia greca ha davvero voltato pagina? https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/hubris-nemesis-tanta-e-catharsis-poca-leconomia-greca-ha-davvero-voltato-pagina/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/hubris-nemesis-tanta-e-catharsis-poca-leconomia-greca-ha-davvero-voltato-pagina/#respond Thu, 15 Jun 2023 16:02:24 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8248 NOTA n.2 – Giugno 2023 – Di Manos Matsaganis, Politecnico di Milano

Le elezioni politiche dello scorso 21 maggio hanno confermato che la Grecia viaggia in un’altra dimensione rispetto agli anni terribili della crisi (2010-2018) – quando l’economia è diminuita di un quarto del Pil, la famiglia media ha perso quasi un terzo del suo potere d’acquisto, e la disoccupazione è salita alle stelle (arrivando al 28.7% della forza lavoro nel novembre 2013). Ora l’economia corre più veloce della media europea, le esportazioni registrano un vero e proprio boom, e la disoccupazione è scesa al 11,2%.
Rinascita economica, crescita vigorosa e prosperità ritrovata: questi sono i temi enfatizzati dal discorso del governo di Kyriakos Mitsotakis, il più liberale di tutti i leader del partito conservatore fin dalla sua fondazione nel 1974. Il suo successo alle urne (40,8%, rispetto al 39,9% del 2019), superiore perfino alle sue aspettative, fa pensare che gli elettori abbiano premiato i risultati economici, la cultura liberale rispetto ai temi sociali (si pensi alla valorizzazione della comunità Lgbtq+), e la competenza (mostrata nella gestione della pandemia). Al contrario, la batosta elettorale del partito di Alexis Tsipras (20,1%, contro il 31,5% di quattro anni fa) sembra dimostrare che gli elettori si siano stancati definitivamente della retorica demagogica che aveva fatto la fortuna elettorale del partito di sinistra radicale (e dei suoi alleati della destra nazionalista) negli anni più bui della crisi.
Quel che rende il successo elettorale del centrodestra così sorprendente è che si sia verificato nonostante i numerosi momenti di grossa difficoltà per il governo in carica negli ultimi anni. Lo scandalo delle intercettazioni ha rivelato una gestione della cosa pubblica tutt’altro che trasparente. L’incidente ferroviario dello scorso marzo costato la vita a 57 persone ha dimostrato che, sotto la patina della digitalizzazione, le aziende partecipate (come quasi tutta l’amministrazione pubblica) sono ancora rimaste all’età del bronzo. Al contrario, la gestione miope e disumana dei flussi migratori non è materia di dibattito politico, giustificata dalla maggioranza dell’opinione pubblica dalla minaccia crescente della Turchia di Erdogan (“Verremo di notte”), e il suo utilizzo della migrazione come arma contro la Grecia e l’Europa. Ma a destare preoccupazione a chi scrive è anche il punto forte della narrazione del governo uscente, con buona possibilità di riconferma dopo le nuove elezioni del 25 giugno (dettate dall’impossibilità di formare un governo): la ripresa economica.

Luci …

La narrazione ottimista sull’andamento dell’economia non è priva di fondamento. La pandemia ha penalizzato l’economia greca più di altre meno dipendenti al turismo, ma la ripresa dopo le misure di confinamento è stata davvero vigorosa. Le buone notizie abbondano. Le ultime due stagioni turistiche sono state da record in termini di numero di visitatori e di incassi. Microsoft e Google hanno avviato investimenti in cloud computing (erogazione tramite internet di servizi di archiviazione, elaborazione e trasmissione dati). Il gigante farmaceutico Pfizer, forte del successo del suo vaccino anti-Covid, ha inaugurato un centro di ricerca a Salonicco, dove è nato e cresciuto il suo amministratore delegato Albert Bourla. Sorprendentemente, il paese sta emergendo come centro di produzione televisiva e cinematografica, come visto in Teheran, la serie israeliana creata da Moshe Zonder e distribuita da Apple TV+, girata largamente ad Atene, oppure in Triangle of Sadness, il film di Ruben Östlund, girato nel Mar Ionio e sulle spiagge di Eubèa. Dopo anni di miseria, sono notizie importanti, che offrono occasioni preziose di stabilire contatti, acquisire nuove competenze, creare posti di lavoro di alta qualificazione.
Per quanto riguarda gli indicatori che avevano tanto spaventato i mercati nel 2010, la situazione è oggi nettamente migliorata. Il disavanzo pubblico (2,3% del Pil nel 2022) è sotto la media della zona euro (3,6%), e molto più basso di quello italiano (8,0%). Il debito pubblico, pur enorme (171,3% del Pil nel 2022), è in calo (era al 206,3% nel 2020), e soprattutto soggetto a tassi d’interesse agevolati fino al 2030.
Inizialmente la crisi dell’Euro è stata raccontata come una storia di irresponsabilità fiscale, narrazione che ha privilegiato l’austerità come soluzione inoppugnabile. Nel giro di pochi anni, economisti di diverse scuole di pensiero hanno raggiunto la conclusione che per la verità quello che accomunava i paesi che sono finiti nel vortice della crisi non erano i disequilibri del bilancio pubblico ma quelli del bilancio esterno – esportazioni meno importazioni. Su questo fronte, la trasformazione dell’economia greca è stata davvero impressionante: il valore delle esportazioni di beni e servizi sul Pil è decollato dal 39,6% nel 2019 al 48,6% nel 2022, anni luce lontano dal 18,9% del 2009.
Tutto bene quindi? Non esattamente.

… ombre

In primis, la crescita verticale delle esportazioni è significativamente distorta da due voci molto particolari. La prima riguarda i trasporti marittimi internazionali: secondo la Lloyd’s List, la flotta marittima commerciale di proprietà di armatori greci è la più grande del mondo, ma viaggia spesso sotto bandiere di convenienza, ed è largamente oltre la portata del fisco. La seconda concerne le raffinerie, che importano carburante grezzo per poi riesportarlo appunto raffinato, creando profitti per le aziende ma pochi posti di lavoro. Al netto di queste due voci, l’aumento del tasso delle esportazioni sul Pil è meno spettacolare: dal 22,2% nel 2019 al 29,5% nel 2022 (rispetto al 16,2% del 2009).
Il peso del turismo nell’economia nazionale resta fondamentale: un quinto del Pil, un quarto dell’occupazione, quasi la metà di tutte le esportazioni. Ma la dipendenza dal turismo – “la nostra industria pesante”, come amano dire gli imprenditori del settore, ed i ministri di tutti i governi – è piuttosto problematica: nel breve termine, perché genera profitti facili, ma poche entrate fiscali e troppi posti di lavoro instabili, a bassa qualifica e bassa retribuzione; nel lungo termine, perché è vulnerabile a rischi sia geopolitici che climatici. Nel frattempo, prosegue indisturbata la cementificazione delle isole, minandone la sostenibilità ambientale ed economica.
Ancora peggio, di pari passo con la ripresa economica sono tornate a crescere anche le importazioni, in misura anche più robusta della crescita delle esportazioni. Risultato: il disavanzo commerciale con il resto del mondo è passato dallo 0,9% del Pil nel 2019 al 9,4% nel 2022. Non siamo ancora arrivati ai livelli raggiunti prima della crisi (11,9% del Pil nel 2007 e nel 2008), ma poco ci manca.
Se l’incubo di un ritorno agli squilibri che hanno portato a quella crisi disturba il sonno di alcuni economisti – per la verità una minoranza, mentre la maggioranza canta le lodi del governo – molte famiglie hanno altre preoccupazioni: i salari sono fermi, oppure crescono meno dell’inflazione. Secondo i dati del ministero del lavoro, lo stipendio mensile lordo medio è passato dai 1.118 euro nel 2021 ai 1.176 euro nel 2022, un aumento del 5,2%. Troppo poco per compensare l’aumento dei prezzi (9,3% nel 2022). Alla perdita di potere d’acquisto si aggiunge il fatto che l’inflazione colpisce i poveri più dei ricchi, per il semplice motivo che per i primi le spese per abitazione, energia, e alimentari rappresentano una quota maggiore del reddito rispetto ai secondi.

Sulla bassa via

In un certo modo, le radici di tutte le recenti notizie, sia positive che negative, attorno all’economia greca vanno cercate nella gestione di quella crisi, a colpi di austerità e svalutazione interna (dei salari). Col senno del poi, il problema principale dei tre “programmi di salvataggio”, imposti dalla Troika dei creditori (Ue-Bce-Fmi) nel 2010, 2012 e nel 2015, non era l’austerità in sé. Di fronte ad un deficit pubblico oltre il 15% del Pil, quale altra opzione restava? Il vero problema è che l’approccio della Troika si fondava sull’ipotesi inconfessata che l’economia greca fosse poco efficiente, e che i greci avrebbero dovuto smetterla di comportarsi come se non lo fosse. La distanza fra bassa produttività e consumismo sfrenato esisteva davvero. Solo che per colmarla la Troika ha puntato troppo sulla riduzione dei consumi, e troppo poco sull’aumento della capacità produttiva. Perciò, l’eccesso di austerità e le “riforme strutturali” hanno condannato la Grecia a rimanere veramente un’economia poco dinamica negli anni a venire.
L’indebolimento dei sindacati è stato uno dei perni nella strategia di svalutazione interna. La strategia ha funzionato davvero: in termini reali, i salari medi sono di circa il 25% più bassi rispetto al 2009, mentre il tasso di copertura dei contratti collettivi è sceso dal 100% del 2010 al 22% nel 2014 (per poi risalire al 25% nel 2016). I sindacati non sono certo senza colpe per le distorsioni che hanno fatto deragliare l’economia greca nella seconda metà degli anni Duemila. Però la vera questione oggi è se “l’alta via allo sviluppo” apparentemente auspicata da (quasi) tutti è compatibile con relazioni industriali squilibrate, in un contesto istituzionale che concede molta flessibilità alle aziende, ma offre poche garanzie ai lavoratori.
Il livello degli investimenti produttivi è meno della metà rispetto ai primi anni Duemila. Le competenze degli adulti sono incredibilmente basse, specialmente se giudicate secondo quello che le persone sanno fare, nonostante la proliferazione dei titoli di studio. L’amministrazione pubblica è stata digitalizzata, ma al suo interno rimane inefficiente, e con meno personale di prima. La giustizia è lenta e molto meno indipendente dal governo, e da interessi privati, di quanto possa essere tollerabile in una democrazia liberale. Le infrastrutture, largamente finanziate da fondi europei, presentano una peculiare combinazione di estremamente moderno e pericolosamente antiquato, come ha tra l’altro dimostrato il disastro ferroviario di marzo 2023. In sostanza, mancano quasi tutti gli ingredienti per una crescita sostenibile.
Questa lettura (tranne la parte che riguarda i sindacati e le relazioni industriali) non è tanto lontana da quella della Commissione Pissarides, presieduta da Sir Christopher, professore della London School of Economics, e Premio Nobel per l’economia nel 2010. Le raccomandazioni per un rafforzamento di ampia portata del modello produttivo greco sono state formalmente accolte dal Primo Ministro, che ha voluto la commissione subito dopo la sua vittoria alle elezioni politiche del 2019. Ma i passi avanti verso l’obiettivo sono stati deludenti e l’economia greca sembra intrappolata in un circolo vizioso di bassa produttività, basse qualifiche, e basse retribuzioni.

 

Per saperne di più:

Baldwin, R., Beck, T., Bénassy-Quéré, A., Blanchard, O., Corsetti, G., de Grauwe, P., den Haan, W., Giavazzi F., Gros D., Kalemli-Ozcan S., Micossi S., Papaioannou E., Pesenti P., Pissarides C., Tabellini G. and Weder di Mauro B. (2015) Rebooting the eurozone: step I – agreeing a crisis narrative. CEPR Policy Insight no. 85. London: Centre for Economic Policy Research.
Matsaganis M. (2018) Making sense of the Greek crisis, 2010-2016. In: Europe’s crises (edited by M. Castells et al.) Cambridge: Polity.
Palaiologos Y. (2016) The 13th labour of Hercules: Inside the Greek crisis. London: Granta Books.

 

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Perché la destra radicale oggi parla al femminile? Uno sguardo all’Italia e all’Europa https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/perche-la-destra-radicale-oggi-parla-al-femminile-uno-sguardo-allitalia-e-alleuropa/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/perche-la-destra-radicale-oggi-parla-al-femminile-uno-sguardo-allitalia-e-alleuropa/#respond Tue, 28 Mar 2023 11:49:47 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8117 NOTA n.1 – Marzo 2023 – Di Federico Stefanutto Rosa e Manuela Caiani, Scuola Normale Superiore

L’ascesa di Meloni ha sorpreso numerosi osservatori che si sono chiesti come mai la prima donna ad assumere il timone del governo italiano provenga da una famiglia politica forgiatasi nel culto dell’esibizione della virilità e del fascino dell’uomo forte.
Per trovare le ragioni di questo apparente paradosso è opportuno analizzare il tema della leadership femminile a destra su due piani distinti. Il primo, quello italiano, ci aiuta a capire come il progressivo sdoganamento e le ambizioni di normalizzazione della destra postfascista abbiano cambiato la struttura delle opportunità politiche per le donne all’interno di queste organizzazioni. Il secondo, quello internazionale, è utile a comprendere come l’ascesa di Meloni sia parte di un cambiamento più ampio che investe la destra radicale su sfera globale.

L’ascesa delle donne nella destra radicale italiana
Da Giorgio a Giorgia, accompagnata da questo slogan nel 2018 Meloni emulava un celebre manifesto di Almirante del 1987, sovrapponendo la sua immagine a quella dello storico leader del Movimento Sociale Italiano (MSI)[1]. Un abile gioco linguistico che traccia la linea di successione tra il padre fondatore e la nuova madre della destra radicale italiana. Le radici e l’orizzonte “della fiamma” legati da una quasi omonimia che li distingue per una sola vocale. Ed è proprio questo cambio di desinenza che consente a Giorgia Meloni di incarnare il nuovo, mettendo in risalto la discontinuità tra la tradizione rappresentata dalla leadership maschile e la novità del volto femminile al comando. Così, in bilico tra continuità e rottura, Meloni si erge ad erede legittima della destra missina ma parallelamente, attraverso la sua identità di genere, mette in evidenza che si è aperta una stagione nuova rappresentata plasticamente dalla presenza di una donna al vertice.
Nel suo celebre e pionieristico studio sul Movimento Sociale Italiano, Piero Ignazi definisce le mansioni affidate alle donne del partito come “parassistenziali”, limitate ad attività di volontariato sociale e mutualistico (Ignazi, 1989). Questa connotazione contraddistingue soprattutto gli inizi del MSI quando le donne sono relegate al ruolo di madri e mogli a cui è affidato il compito di custodire con devozione la memoria degli uomini caduti al fronte. Nel 1950, durante il primo raduno nazionale della sezione femminile delle dirigenti del partito, il segretario Augusto De Marsanich attribuisce alle militanti la funzione mitigatrice di “temperare le passioni con la loro femminilità, recando nei contrasti la loro parola d’amore” (Terranova, 2009). L’MSI associa così alle donne qualità tradizionali come l’accudimento, la protezione e la moderazione mentre agli uomini spetta il primato della militanza eroica incentrata su virtù militari quali la fermezza, il comando e la forza fisica. Anche la rappresentanza femminile nei gruppi parlamentari del MSI appare alquanto marginale. La prima donna missina arriva in Parlamento solo nel 1963: si tratta dell’insegnante di filosofia Jole Giugni Lattari eletta alla Camera dei Deputati in un collegio della Calabria.
Per scorgere qualche elemento di modernizzazione bisogna attendere fino seconda metà degli anni Settanta. Le novità provengono però da ambienti limitrofi al partito. Una nuova interpretazione della questione femminile a destra si materializza sulle pagine di Éowyn, rivista che prende il nome dall’eroina guerriera de Il Signore degli Anelli di Tolkien, saga che ancora oggi è un punto di riferimento per Giorgia Meloni e i suoi Fratelli d’Italia. Il periodico, fondato da donne militanti nell’ambito della cosiddetta Nuova Destra italiana e dei suoi Campi Hobbit (Tarchi, 2010), elaborava una visione “differenzialista” del rapporto tra i sessi nel tentativo di proporre un’alternativa al femminismo progressista e al contempo di superare la concezione vetusta del Movimento Sociale Italiano. Ma si tratta di spinte movimentiste che trovano spazio soltanto nell’organizzazione giovanile del MSI, il Fronte della Gioventù, e che si scontrano con la linea ufficiale del partito che invece prosegue nel solco del conservatorismo (come dimostra la campagna a favore dell’abrogazione della legge sul divorzio nel referendum del 1974).
La svolta per le donne della destra radicale italiana arriva negli anni Novanta. Una prima novità è rappresentata dalle elezioni amministrative del 1993, quando la trentenne Alessandra Mussolini, grazie ad una comunicazione che oscilla tra il peso del suo cognome e la novità della sua immagine pop, conquista un inaspettato ballottaggio per la corsa a sindaco di Napoli (dal quale poi però uscirà sconfitta).
Con la dissoluzione del MSI, l’abiura del nostalgismo neofascista al Congresso di Fiuggi del 1995 e la nascita di Alleanza Nazionale (AN), per le militanti si aprono inedite opportunità al vertice. Il nuovo leader Gianfranco Fini è consapevole che, per uscire dall’isolamento politico e ambire al governo, è opportuno allontanarsi da un modello di mascolinità violenta e belligerante che è stato tipicamente associato alle frange più estreme della destra. Nasce da qui l’esigenza di cercare nuovi volti femminili in grado di interpretare il nuovo corso della destra radicale italiana. Ed è in questa stagione di profondo cambiamento che Giorgia Meloni scala i ranghi di AN, prima come consigliere della provincia di Roma nel 1998 e poi come Presidente dell’organizzazione giovanile del partito (Azione Giovani) nel 2004.
In particolare, sono le elezioni politiche del 2006 a segnare un’importante crescita della rappresentanza femminile a destra. In quest’occasione, Fini sceglie di rafforzare la quota di donne nelle liste elettorali. Sono tredici le parlamentari di AN che conquistano un seggio, tra loro le più in vista sono: Giulia Bongiorno, avvocato salita alle luci della ribalta per aver difeso l’ex premier Giulio Andreotti nel processo per mafia, Daniela Santanché, imprenditrice celebre per la sua battaglia contro il velo islamico, Flavia Perina, direttrice del Secolo d’Italia e per l’appunto Giorgia Meloni che in quella legislatura verrà eletta vicepresidente della Camera dei Deputati.
Ecco allora che la recente affermazione della leadership carismatica di Giorgia Meloni e del suo partito Fratelli d’Italia, fondato nel 2012 per raccogliere l’eredità di AN, non nasce dal nulla. Rientra bensì in un percorso più ampio che ha portato all’apertura delle opportunità politiche per le donne nella destra radicale. Un’apertura dettata dalla necessità di lanciare un segnale di discontinuità per ingentilire la propria percezione e accreditarsi come destra di governo.

La nuova leadership femminile delle destre radicali in Europa
Al contempo, l’ascesa di Giorgia Meloni non è un unicum italiano. Si inserisce bensì in un fenomeno più ampio di “femminilizzazione” della destra radicale populista in Occidente che sempre più frequentemente è rappresentata da donne in posizioni apicali di comando.
Una parte consistente della letteratura accademica definisce i partiti della destra radicale populista come Männerparteien (Amesberger e Halbmayr 2002, Decker 2004; Geden 2004), ossia organizzazioni politiche dominate dagli uomini in cui la rappresentanza delle donne è marginale sia nella base del partito che nei quadri dirigenziali. La natura “maschile” della destra radicale populista è ritenuta particolarmente rilevante quando si guarda alla dimensione della leadership. Il carisma dei leader populisti è infatti tradizionalmente associato alla costruzione di una mascolinità eroica. Un esempio primario di questo modello è rappresentato dal leader della Lega Matteo Salvini che si presenta ai suoi sostenitori con il soprannome di “il Capitano”, enfatizzando l’immagine epica della sua figura e la missione salvifica della sua leadership. Il mito della virilità si riflette anche sul linguaggio adottato dai leader. Lo scienziato politico Pierre Ostiguy (Ostiguy 2020) descrive uno stile performativo “basso” che caratterizza la retorica dei capi populisti e che ha tra i suoi motivi ricorrenti quello di descriversi come politici “con le palle” per sottolineare la propria attitudine al comando e alla risolutezza Tuttavia, raffigurare i partiti della destra radicale populista come club per soli uomini appare semplicistico. Le donne, soprattutto a partire dai primi anni Duemila, hanno infatti assunto un protagonismo sempre maggiore arrivando, in alcuni casi, fino al vertice dell’organizzazione. Il quadro teorico assume maggior chiarezza di dettaglio se si guarda ai diversi casi di leadership carismatica femminile nella destra radicale populista a livello internazionale. Si tratta di esempi importanti che aiutano a comprendere, più in profondità e con una prospettiva più ampia, le ragioni del successo di Giorgia Meloni. Con questo intento, la tabella 1 racchiude una mappatura delle donne alla guida dei partiti della destra radical populista che in Europa occidentale a partire dal 2000 hanno ottenuto rappresentanza politica in almeno un’elezione generale (camera bassa) oppure in un’elezione europea.

Tabella 1: Donne di destra radicale in posizioni partitiche apicali in Europa

Paese  Leader Partito (abbrieviazione)
AUSTRIA  Susanne Riess (2000 – 2002) Partito della Libertà Austriaco

(FPÖ)

Ursula Haubner (2004 – 2005) Partito della Libertà Austriaco

(FPÖ)

Johanna Trodt Limpl (2015 – 2017) Alleanza per il Futuro dell’Austria (BZÖ)
DANIMARCA Pia Kjærsgaard (1985 – 1995)

(1995 -2012)

Partito del Progresso (FrP)

Partito del Popolo Danese (DF)

Pernille Vermund (2015 – oggi) Nuovi Borghesi (Nye)
FRANCIA  Marine Le Pen (2011 – 2018)

(2018 – oggi)

 Fronte Nazionale (FN)

Raggruppamento Nazionale (RN)

FINLANDIA Riikka Purra (2021 – oggi) Veri Finlandesi (PS)
GERMANIA Frauke Petry (2015 – 2017) Alternativa per la Germania (AfD)
Alice Weidel (2022 – oggi) Alternativa per la Germania (AfD)
 ITALIA Giorgia Meloni (2012 – oggi) Fratelli d’Italia (FdI)
NORVEGIA

 

 

Siv Jensen (2006 – 2021) Partito del Progresso (FrP)
Sylvi Listhaug (2021 – oggi) Partito del Progresso (FrP)
SVIZZERA  Ana Roch (2016 – 2019) Movimento dei Cittadini Ginevrini (MCG)
UK Catherine Blaiklock (gennaio 2019 – marzo 2019) Partito della Brexit (BP)

Fonte: Elaborazione degli autori

Si tratta di casi importanti di donne al vertice delle organizzazioni della destra radicale che, spesso, con la loro immagine sono riuscite ad ammorbidire la percezione di questi partiti. L’esempio più noto è senz’altro rappresentato dalla leader del Raggruppamento Nazionale (RN) Marine Le Pen. L’affermazione di Le Pen ha segnato l’inizio del percorso di dédiabolisation (de-demonizzazione) che ha favorito lo sdoganamento della destra radicale populista in Francia. Una strategia incentrata sulla personalizzazione esasperata che fa del volto e del corpo di Le Pen il principale strumento per rendere più accettabile la percezione del partito.
Riflettendo sono piaciuta per il fatto di aver ribaltato la caricatura del Fronte Nazionale. Una donna disinvolta in un movimento descritto come un raggruppamento di individui maschilisti e violenti” (Le Pen 2011, p.158).
La funzione mitigatrice della leadership femminile emerge plasticamente nelle rare occasioni in cui la destra radicale populista europea ha ricoperto ruoli di governo.
Nel 2000, quando il Partito della Libertà Austriaco (FPÖ) è entrato a far parte di un governo di coalizione di centrodestra ha infatti scelto come vicecancelliere e nuovo capo del partito l’europarlamentare Susanne Riess – e lo storico leader George Haider è stato costretto a dimettersi in favore di Riess per facilitare il tentativo dell’organizzazione di guadagnare legittimazione istituzionale. In Norvegia, il Partito del Progresso (FrP) ha fatto parte della coalizione di governo per sette ininterrotti anni dal 2013 al 2020, diventando una delle più longeve forze politiche della destra radicale populista al potere. Anche in questo caso, a favorire l’ingresso nell’esecutivo è stata la leadership femminile carismatica di Siv Jensen, che per l’intero periodo ha ricoperto la prestigiosa carica di ministro delle finanze. Nel presentarsi all’elettorato, Jensen si è allontanata dai modelli più tradizionali di femminilità, coltivando la sua immagine grintosa di business woman single e senza figli. A raccogliere la sua eredita è un’altra donna: Sylvi Listhaug che nel 2021 ha assunto la leadership del partito.
In maniera similare, in Danimarca la destra radicale populista si è forgiata nel segno di Pia Kjærsgaard, che ha svolto un ruolo da pioniera nella costruzione di un modello di leadership femminile, prima al comando del Partito del Progresso (FrP) dal 1985 al 1995 e in seguito fondatrice del Partito del Popolo Danese (DF), che ha guidato fino al 2012 (Meret 2015). Prima di intraprendere la carriera politica Kjærsgaard aveva lavorato a lungo come assistente domiciliare per anziani: un mestiere che è stato un elemento chiave per la sua popolarità, poiché il contatto costante con gli strati sociali più popolari e l’estraneità alla politica come professione hanno rafforzato la credibilità dei suoi messaggi. Kjærsgaard è diventata così espressione di un potere materno che combina carità e intransigenza, premurosità e controllo, costruendo un’analogia tra la sua dedizione di assistente domiciliare e il suo impegno politico. Nel 2015, nel Paese scandinavo è emersa un’altra leadership femminile nella destra radicale populista, quella di Pernille Vermund, fondatrice e leader dei Nuovi Borghesi (Nye). Nella sua comunicazione Vermund segue logiche più simili a quelle di una influencer che di un politico, rappresentandosi come un’icona pop. Sul suo popolare profilo Instagram i contenuti a tema politico sono infatti quasi del tutto assenti, mentre prevalgono immagini che propongono un vero e proprio lifestyle danese: la cucina, le vacanze, la famiglia, lo sport e l’arredamento di casa.
Le donne hanno un ruolo di rilievo anche in Germania dove Frauke Petry, chimica e imprenditrice prestata alla politica, è riuscita a infrangere un tabù portando la destra radicale populista di Alternativa per la Germania (AfD) a diventare la terza forza politica del Paese, prima di abbandonare il partito nel 2017. Divorziata e risposata, con quattro figli dal primo matrimonio e due dal secondo, Petry si discosta dal modello di famiglia tradizionale difeso dall’AfD. Eppure questa contraddizione non è sembrata scalfire il suo consenso. Lo stesso vale per un’altra influente donna dell’AfD: Alice Weidel, co-leader del partito dal 2022. La biografia di Weidel riassume tutto quello che la destra populista vede come il fumo negli occhi: una carriera sfavillante nei più importanti colossi mondiali della finanza (Goldman Sachs e Allianz Global Investors), dichiaratamente lesbica, si è unita civilmente con una produttrice cinematografica di origini srilankesi insieme alla quale ha adottato due bambini. Tutto questo ha fatto sì che, agli occhi di molti, l’adesione di Alice Weidel all’AfD risultasse alquanto singolare, per non dire incomprensibile. Tuttavia, Weidel è riuscita a divincolarsi dalla trappola dell’incoerenza presentando la sua adesione al partito come la prova che l’AfD, a differenza di quanto emerge dal racconto mediatico, non sarebbe una forza politica intollerante. Nella sua narrazione trovano così ampio spazio strategie retoriche femonazionaliste (Farris 2019) e omonazionaliste (Puar 2013) attraverso cui la difesa dei diritti delle donne e della comunità LGBT viene associata alla necessità di fermare l’immigrazione dai paesi arabo-musulmani. “Ora le associazioni omosessuali dominate dalla sinistra verde trascurano il proverbiale ‘elefante nella stanza’, cioè l’unico grande pericolo che ci minaccia davvero. E questo è islamizzazione…gli attacchi contro gli omosessuali non solo mostrano l’odio di alcuni gruppi di migranti, ma mostrano anche il loro disprezzo per il nostro Stato di diritto e la nostra cultura.” (Weidel, intervista sul blog Philosophia Perennis del settembre 2017)

Conclusioni
L’ascesa della leadership carismatica di Giorgia Meloni si colloca all’interno di una trasformazione più profonda del ruolo delle donne nelle organizzazioni della destra radicale. In Italia, la necessità di assumere un profilo più istituzionale e la volontà di allontanarsi da un’immagine obsoleta, legata alla fascinazione per l’uomo forte e per un attivismo tutto al maschile, ha permesso che si creassero nuovi spazi e opportunità per la rappresentanza femminile a destra. La crescita della rilevanza delle donne e gli inizi della carriera politica di Giorgia Meloni si ineriscono, non a caso, in un periodo di riformulazione identitaria che, a partire dagli anni Novanta, spinge la destra radicale italiana a cercare una legittimazione istituzionale anche attraverso nuove protagoniste femminili. Allo stesso modo, questa trasformazione coinvolge le organizzazioni della destra radicale in tutto l’Occidente. In maniera crescente questi partiti scelgono infatti di puntare su donne leader per apparire più moderati e per dimostrare per “normalizzare” la loro identità. Le front women della destra radicale in Europa hanno dimostrato di favorire lo sdoganamento dei messaggi e delle politiche dei propri partiti e di contribuire anche alla loro istituzionalizzazione. Al contempo queste leader incarnano spesso, nel loro privato, modelli e ruoli che sono in contrasto con le piattaforme iper-conservatrici dei propri partiti. Questa contraddizione non sembra però essere percepita come un’incoerenza dal loro elettorato ma anzi si trasforma in un elemento a proprio favore, per dimostrare che la destra radicale è oggi entrata in una fase nuova.

Per saperne di più:
Anita Nissen, 2022, Europeanisation of the Contemporary Far Right Generation Identity and Fortress Europe, Routledge.
Manuela Caiani and Federico Stefanutto, 2022, Giorgia e le altre, Il Mulino, https://www.rivistailmulino.it/a/giorgia-e-le-altre
De Giorgi, E., Cavalieri, A., Feo, F. , 2023, From opposition leader to prime minister: Giorgia Meloni and women’s issues in the Italian radical right, Politics and Governance, https://www.cogitatiopress.com/politicsandgovernance/article/view/6042.

[1] Grafica social realizzata da Fratelli d’Italia nel febbraio 2018 riprendendo lo slogan elettorale del MSI alle elezioni del 1987.

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Donne e pensioni: il “gender gap” falso mito della previdenza in Italia? https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/donne-e-pensioni-il-gender-gap-falso-mito-della-previdenza-in-italia/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/donne-e-pensioni-il-gender-gap-falso-mito-della-previdenza-in-italia/#respond Thu, 15 Dec 2022 14:23:04 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8005 NOTA n.8 – Dicembre 2022 – Di Matteo Jessoula, Università degli Studi di Milano

Nel 2020 le donne hanno rappresentato il 51,8% dei pensionati in Italia, percependo complessivamente solo il 43,8% della somma lorda complessivamente erogata per pensioni (Itinerariprevidenziali 2021a) e l’importo medio della pensione di vecchiaia per le donne è del 37% inferiore a quello degli uomini (European Commission 2021a).

Vero è che, rispetto agli uomini, le donne sono più spesso beneficiarie di più trattamenti pensionistici, ma il divario di genere rimane significativo anche considerando questo fattore: il reddito pensionistico medio annuo si attesta, infatti, per le donne a 16.233 euro contro i 22.351 euro degli uomini, con un rapporto appena sopra il 70%.

Ciò è in linea con quanto emerge da alcuni indicatori sintetici elaborati a livello europeo, in primis il cosiddetto “gender gap in pension income[1] (calcolato per la fascia d’età 65-79 anni) rispetto al quale nel 2019 l’Italia presentava un valore sensibilmente più elevato della media europea: 35,6% contro 29,5 % – anche in relazione a una più modesta riduzione dello stesso in Italia (-0,1 punti percentuali) rispetto all’UE (-5.8 p.p.) dal 2010.

Benché cristallino nei dati appena presentati, per molti commentatori, tra cui Itinerariprevidenziali (2021a, 2021b), il “gender gap” sarebbe un “falso mito” della previdenza italiana.

Gender gap e pensioni: “falso mito” o problema da risolvere?

Come sinteticamente illustrato sopra, il divario di genere in campo pensionistico è scritto nei dati; considerarlo un “falso mito” è dunque fuorviante in punta di fatto. Altra cosa è stabilire se, e fino a che punto, tale divario rappresenti un problema da risolvere, una criticità da affrontare dai decisori politici. Al riguardo, la premessa necessaria è che nei welfare state maturi i sistemi pensionistici per la tutela della vecchiaia perseguono due obiettivi fondamentali:

  1. contrastare o prevenire la povertà nella cosiddetta terza età;
  2. mantenere il reddito dei lavoratori e delle lavoratrici pensionati/e.

Entrambi questi obiettivi dovrebbero inoltre essere raggiunti a un’età di pensionamento che sia sostenibile sul piano economico, sociale e politico (Jessoula 2014; Jessoula e Raitano 2020)[2]. Con riferimento ai due obiettivi principali, alcuni indicatori di outcome ci aiutano a catturare la situazione italiana, con particolare attenzione alle donne, in confronto agli altri paesi europei. Il primo indicatore riguarda il “rischio di povertà ed esclusione sociale”, così come definito da Eurostat, per gli individui sopra i 65 anni. Mentre per gli uomini tale rischio è allo stesso livello in Italia e nell’UE (16%), esso è invece più elevato per le donne sia rispetto agli uomini in Italia (23% contro 16%, appunto) sia rispetto al dato medio per le donne in Europa, per le quali il rischio si ferma al 21% (Figura 1).

Figura 1. Individui a rischio di povertà o esclusione sociale nella vecchiaia (AROPE, 65+), 2019, per sesso, %

. Individui a rischio di povertà o esclusione sociale nella vecchiaia

Fonte: European Commission (2021a)

 

Risultati analoghi emergono considerando il rischio di povertà relativa calcolata al 60% del reddito mediano (Figura 2), che mostra come in Italia le donne over-65 siano non solo maggiormente a rischio di povertà monetaria rispetto agli uomini (19% vs 13%) ma anche più esposte a tale rischio rispetto alle donne in Europa (19% vs 18%)

Figura 2. Individui a rischio di povertà nella vecchiaia (AROP, 65+), 2019, per sesso, %

Individui a rischio di povertà nella vecchiaia (AROP, 65+), 2019

Fonte: European Commission (2021a)

 

Infine, i dati sulla cosiddetta “deprivazione materiale severa”, che cattura le condizioni di povertà più acuta, ci dicono tre cose in linea con quanto appena osservato: le donne over-65 in Italia sono più esposte al rischio di deprivazione materiale severa in confronto agli uomini (7.9% vs 5.2%); esse sono sensibilmente più esposte rispetto alle donne nell’UE (7.9% vs 5.5%); soprattutto, tale indicatore è peggiorato per le donne in Italia dalla Grande Recessione (era infatti al 6.4% nel 2009) a fronte invece di un robusto miglioramento nell’UE (-2 p.p.)

Il paradosso è che tale condizione di svantaggio delle donne non soltanto rispetto agli uomini nel nostro paese, ma anche rispetto alla media delle donne nell’UE, si determina nonostante la spesa per pensioni sia in Italia significativamente più elevata della media europea. In altre parole, l’Italia spende ben più degli altri paesi in pensioni, ma è meno efficace nel proteggere le donne da povertà ed esclusione sociale nella vecchiaia.

Al contempo, se consideriamo il secondo obiettivo di mantenimento del reddito di lavoratrici e lavoratori, la situazione italiana migliora in prospettiva comparata. Nel 2019, infatti, il cosiddetto Tasso di sostituzione aggregato – che misura il rapporto tra reddito individuale mediano tra la popolazione, tipicamente pensionata, nella fascia 65-74 anni e il reddito individuale mediano della popolazione 50-59 anni – era superiore in Italia rispetto alla media UE sia per gli uomini che per le donne (77% in Italia rispetto al 59% della media UE  per gli uomini; 65% in Italia rispetto al 54% della media UE per le donne), segno di una maggiore generosità delle pensioni medie in Italia. Tuttavia, e il punto è importante in una prospettiva di genere, il gap nello stesso indicatore tra uomini e donne è più elevato in Italia – pari a 12 punti percentuali – rispetto all’UE, dove il divario è di soli 5 p.p.

Per concludere: nonostante il livello delle pensioni mediamente più elevato in Italia rispetto alla maggior parte dei paesi dell’Unione Europea, tutti gli indicatori fotografano una condizione di sistematico svantaggio delle donne anziane non soltanto rispetto agli uomini in Italia ma anche, per quanto concerne la protezione contro povertà ed esclusione sociale, rispetto alle donne (in media) nell’Unione Europea.

 

Oltre i “falsi miti”, le cause del problema

L’interpretazione più diffusa (ISTAT 2020; Itinerariprevidenziali 2021a, 2021b) riconduce il divario svantaggio previdenziale alla condizione svantaggiata delle stesse sul mercato del lavoro: il tasso di occupazione femminile è infatti sensibilmente inferiore a quello maschile – 49% contro 67,2% nel 2020 – con il divario che si amplia fortemente dopo il primo e ancor più dopo il secondo figlio: la differenza nei tassi di occupazione sale infatti da circa 10 punti percentuali. in assenza di figli a 40 punti percentuali con due figli.

Inoltre, le donne sono penalizzate dal differenziale retributivo, dovuto alla maggiore presenza delle donne nell’occupazione sia a tempo determinato che part-time, oltre che a carriere contributive più brevi e frammentate: la durata mediana della carriera lavorativa è infatti di circa 25 anni per una donna, contro i 40 degli uomini, e per circa il 30% delle donne la durata della carriera è inferiore ai 14 anni (Tinios e altri, 2015).

Questi dati consentono anche di spiegare il dato italiano relativo al “gender gap in the rate of non-coverage” – che cattura il divario di genere nella quota di individui che non hanno accesso a prestazioni pensionistiche (Tinios e altri, 2015; European Commission 2021b) – molto più elevato (17,7 p.p.) che nell’UE (6,4 p.p.) oltre che in crescita di ben 7 p.p. tra il 2010 e il 2019, in contrasto con una lieve riduzione a livello UE (0,7 p.p.).

L’interpretazione sopra proposta è certamente efficace, ma coglie solo alcune determinanti del problema, specie se consideriamo la più elevata spesa pensionistica italiana in prospettiva comparata, rispetto alla quale, come già ricordato, appaiono paradossali i tassi elevati di povertà ed esclusione sociale tra le donne.

Le altre determinanti risiedono infatti nel disegno del sistema pensionistico italiano, caratterizzato da regole che hanno consentito, e consentono, l’erogazione di prestazioni pensionistiche in media più generose rispetto alla maggior parte dei paesi europei – in passato anche a un’età generalmente più bassa – e che tuttavia si connotano, in chiave comparata, per una ridottissima efficacia redistributiva a favore dei soggetti più svantaggiati dentro e fuori dal mercato del lavoro: da qui il paradosso per cui un’elevata spesa pensionistica si combina con tassi di povertà e deprivazione materiale tra le donne anziane più elevati rispetto alla media UE.

In questo senso, le donne in quanto gruppo relativamente svantaggiato sul mercato del lavoro sono penalizzate da un sistema pensionistico tanto costoso e relativamente più generoso, in media, rispetto agli altri paesi europei, quanto iniquo sul piano sostanziale. In altri termini, a relativamente poche pensioni d’oro e molte più pensioni d’argento, si accompagna nel nostro paese una quota rilevante di “pensioni di rame”, specie per le donne.

 

Che fare?

Alla luce di quanto appena detto, è necessario agire su due diversi versanti. Il primo è noto e riguarda le azioni volte a migliorare la condizione delle donne sul mercato del lavoro. Anche le ricette sono ben conosciute: investimento in servizi inclusivi per bambini e anziani non-autosufficienti; irrobustimento dei congedi, soprattutto quelli parentali e di paternità; sviluppo delle politiche attive del lavoro. Sono tutte misure che possono contribuire a migliorare l’adeguatezza delle pensioni per le donne in Italia in un quadro caratterizzato da bassi tassi di occupazione, determinati dalla prolungata stagnazione economica, la persistente debole performance del mercato del lavoro nonché da importanti criticità nella conciliazione vita-lavoro.

Puntare esclusivamente su queste misure per aggredire il gender gap pensionistico in Italia è però altamente rischioso perché le azioni appena delineate non sono immediatamente efficaci, sia per ostacoli di natura strettamente politica, che ne comprimono sistematicamente lo sviluppo, sia perché, ad esempio, le politiche attive/di attivazione lavorativa funzionano soltanto in presenza di una robusta domanda di lavoro: come sostenere tale domanda è però il grande, e irrisolto, problema italiano da circa un trentennio – così come da un trentennio l’Italia arranca nello sviluppo di servizi per l’infanzia e la non-autosufficienza che operino come efficaci misure di conciliazione vita-lavoro “gender neutral”. Troppo rischioso, dunque, lasciare che i problemi previdenziali delle donne vengano risolti, “a monte”, intervenendo solo sul mercato del lavoro: i tempi sono necessariamente (troppo) lunghi e l’esito è incerto.

Il secondo versante richiede perciò di intervenire “a valle”, cioè sulle regole pensionistiche, con l’obiettivo a superare l’attuale iniquità – non solo in una prospettiva di genere – nella distribuzione delle risorse destinate alla tutela della vecchiaia in Italia – considerando, peraltro, che la piena transizione al metodo contributivo nel prossimo decennio potrebbe generare condizioni di svantaggio anche più marcate a sfavore delle donne (Jessoula e Raitano, 2015, 2019, 2020).

Presupposto di tali interventi è riconoscere che l’armonizzazione delle regole previdenziali perseguita negli ultimi tre decenni – caso emblematico l’introduzione del sistema contributivo – può tradursi in rilevanti condizioni di iniquità sostanziale nella tutela della vecchiaia tra soggetti più e meno avvantaggiati sul mercato del lavoro, dunque anche tra uomini e donne – oltre che tra diverse categorie professionali, tra individui con differenti profili di carriera e aspettativa di vita, ecc..

Si suggeriscono perciò tre linee di intervento.

Primo, incrementare la capacità solidaristica e redistributiva del sistema pensionistico pubblico, sganciando almeno parzialmente la tutela della vecchiaia da una concezione rigidamente “lavoristica”, che penalizza fortemente le donne con carriere brevi e frammentate per effetto della quota rilevante di lavoro informale non retribuito all’interno della famiglia;

Secondo, reintrodurre flessibilità strutturale nell’età di pensionamento – non, quindi, tramite lo stillicidio di riforme annuali come quota 100 (governo gialloverde 2019), quota 102 (governo Draghi 2021), quota 103 (governo Meloni 2022) – al fine di ristabilire tanto la sostenibilità sociale e politica del sistema quanto, almeno nel breve-medio periodo, stabilità e certezza delle regole di pensionamento.

Recuperare flessibilità strutturale nell’accesso al pensionamento può implicare soluzioni di policy differenti, tra cui la reintroduzione di un’età pensionabile flessibile – ad esempio sul modello svedese, che prevede un periodo di uscita tra i 62 e i 68 anni: è però importante che questa linea di intervento si accompagni alla prima indicata sopra (rafforzamento dell’efficacia solidaristica e redistributiva del sistema pensionistico pubblico) affinché età di pensionamento più basse non si traducano automaticamente in prestazioni pensionistiche inadeguate[3].

Infine, terzo, può essere opportuno rivedere i meccanismi di accesso alle forme di previdenza integrativa, che oggi coprono soltanto i lavoratori con contratti più robusti sul mercato del lavoro. Corollario è che i primi due punti richiederanno, verosimilmente, un incremento della quota di spesa pensionistica finanziata dalla fiscalità generale, come già sta avvenendo in altri paesi europei e in parte, benché in maniera nascosta, anche in Italia.

 

[1] Il Gender gap in pension income esprime la differenza, in termini percentuali, nel reddito pensionistico lordo percepito dagli uomini e dalle donne in un dato anno (European Commission 2021).

[2] È il cosiddetto “trilemma” delle pensioni (Jessoula 2016), tanto cruciale quanto di non facile soluzione.

[3] In questo senso si sostiene il necessario superamento, con finalità ovviamente equitative, delle soglie di importo pensionistico (1,5 e 2,8 volte l’assegno sociale) per accedere al pensionamento. Tali soglie mirano infatti a risolvere il problema dell’inadeguatezza delle prestazioni pensionistiche con un approccio del tutto differente, che produce effetti sensibilmente regressivi a danno dei lavoratori e delle lavoratrici più svantaggiati.

 

Bibliografia

European Commission (2021a), The Pension Adequacy Report 2021. Volume 1, Brussels.

European Commission (2021b), The Pension Adequacy Report 2021. Volume 2, Brussels.

Itinerariprevidenziali (2021a), I falsi miti sulla previdenza italiana: pensioni da mille euro e gender gap 

Itinerariprevidenziali (2021b), Il mito del gender gap pensionistico

Jessoula, M. (2014), L’equilibrio imperfetto. Le pensioni italiane tra sostenibilità, adeguatezza, equità, in «Italianieuropei», 3/2014.

Jessoula, M. (2016), L’equità necessaria e il “trilemma” delle pensioni, OCIS Policy Memo, n. 3/2016,

Jessoula, M. e M. Raitano M. (a cura di) (2015), La Riforma Dini vent’anni dopo: promesse, miti, prospettive di policy, Numero speciale di «Politiche Sociali/Social policies», 3/2015.

Jessoula, M. e M. Raitano (a cura di) (2019), Le pensioni in Italia, oggi e domani?, Numero speciale de «La Rivista delle Politiche Sociali», 3/2019.

Jessoula, M. e M. Raitano (2020), Pensioni e disuguaglianze: una sfida complessa, l’equità necessaria, in “Politiche Sociali”, 1/2020.

Tinios, P, Bettio, F. e Betti (2015), Men, women and pensions, European Commission.

 

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I chiaroscuri dell’accoglienza delle persone ucraine in Italia https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/i-chiaroscuri-dellaccoglienza-delle-persone-ucraine-in-italia/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/i-chiaroscuri-dellaccoglienza-delle-persone-ucraine-in-italia/#respond Thu, 15 Dec 2022 13:40:07 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=7999 NOTA n.7 – Dicembre 2022 – Di Matteo Bassoli, Università di Padova, e Francesca Campomori, Università Ca’ Foscari Venezia

Introduzione

La scelta dell’Unione Europea di accordare la protezione temporanea alle persone in fuga dall’Ucraina – in prevalenza donne e bambini – ha segnato una vera e propria svolta nelle politiche europee di asilo, rendendo possibili percorsi di accoglienza più fluidi e meno esposti a strumentalizzazioni politiche. Il dispositivo della protezione temporanea è nato più di vent’anni fa (direttiva 2001/55/CE) raccogliendo la lezione dei conflitti in ex-Jugoslavia e in Kosovo del decennio precedente. La guerra nei Balcani aveva infatti provocato in pochi mesi un consistente afflusso di persone costrette alla fuga e palesato la necessità di un intervento comune degli Stati membri, finalizzato a garantire una protezione immediata. La protezione temporanea, tuttavia, non è mai stata applicata prima della crisi ucraina, nonostante le molteplici circostanze in cui si sono verificate situazioni che rispondevano alle previsioni della norma, ovvero “l’afflusso o imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da Paesi terzi che non possono rientrare nel loro paese di origine”. Ne sono esempi la crisi siriana del 2015 e quella afghana del 2021, ma anche i più recenti flussi lungo la rotta mediterranea centrale.

A questo riguardo è opportuno sottolineare che tale protezione è altro dal riconoscimento dello status di rifugiato, creando ex-lege una nuova categoria di migranti solo in parte assimilabile ai rifugiati, ai richiedenti asilo e a coloro che godono della protezione “speciale” (ex umanitaria). Infatti, in virtù dell’applicazione di questo dispositivo, gli ucraini hanno potuto scegliere il paese in cui chiedere protezione, insediandosi nei territori in cui vi erano già dei parenti, o nei quali si intravedeva un maggiore potenziale di inserimento. Tutto ciò in totale e, soprattutto, consensuale sovvertimento delle restrittive regole di Dublino relative alle politiche europee di asilo, per anni oggetto di tensione tra gli stati membri. Inoltre, a differenza dei tortuosi e incerti percorsi ordinari di richiesta di protezione internazionale, l’istituto della protezione temporanea ha consentito alle persone ucraine di diventare da subito residenti regolari e dunque di poter esercitare qualsiasi attività lavorativa, di beneficiare di assistenza socio-sanitaria e dei servizi educativi e di istruzione nonché di essere sostenuti nell’accesso all’abitazione. Non da ultimo, la protezione temporanea ha durata di un anno, ma può essere prorogata fino ad un massimo di 3 anni, garantendo quindi una certa tranquillità rispetto alla stabilità della residenza (si veda la Figura 1 che mette a confronto la procedura di protezione temporanea con quella di richiesta di protezione internazionale a cui sono sottoposti i richiedenti asilo).

 

Figura 1: Protezione temporanea vs procedura di richiesta asilo

Protezione temporanea vs procedura di richiesta asilo

Fonte: grafico pubblicato su Corriere della Sera on line (11 marzo 2022).

 

La bontà di queste misure straordinarie di accoglienza è stata provata innanzitutto dal fatto che hanno disinnescato i consolidati meccanismi del sospetto e della paura, lasciando invece spazio a esplosioni di generosità sia da parte di singole persone (migliaia di offerte di denaro e di spazi per l’accoglienza), sia di imprese che hanno offerto posti di lavoro. La deroga alle norme ordinarie è stata inoltre conveniente anche per gli Stati, poiché li ha sgravati di una parte considerevole dei doveri di una prima accoglienza che, considerata l’entità dei flussi, avrebbe messo in ginocchio il sistema. Tra la fine di febbraio e la metà di aprile, infatti, le persone in fuga dall’Ucraina hanno raggiunto le centomila presenze, un numero superiore al totale dei richiedenti asilo e rifugiati in accoglienza in Italia all’inizio del 2022 (poco più di 80 mila). Tra l’altro, un numero così consistente di arrivi si è registrato solo negli anni tra il 2015 e il 2018 (e lo raggiungeremo con ogni probabilità nel 2022); si trattava tuttavia di sbarchi distribuiti nell’arco di 12 mesi e non concentrati in un arco temporale così breve. A fronte di arrivi tanto consistenti, aver consentito alle persone arrivate nel nostro paese di decidere dove insediarsi ha portato a una distribuzione nelle regioni italiane nelle quali la comunità ucraina – composta in totale da 235.000 persone, in prevalenza donne impiegate nell’assistenza di persone anziane – è più numerosa. In larghissima parte l’accoglienza è stata pertanto sostenuta da parenti o conoscenti presso le proprie abitazioni e dall’attivazione spontanea di associazioni di volontariato e di privati cittadini, tanto che le persone ucraine in accoglienza istituzionale a inizio settembre erano meno di 15.000, ovvero il 9% di chi è arrivato in Italia dall’inizio della guerra.

 

L’attuazione della direttiva sulla Protezione Temporanea in Italia

La direttiva 55/2001/CE impone agli stati un dovere di assistenza nei confronti delle persone in fuga, definiti “sfollati”. Il governo italiano ha risposto a questo dovere proclamando lo stato di emergenza nazionale e affidando alla Protezione Civile l’incarico di mettere a punto un piano nazionale per l’accoglienza e l’assistenza. Il piano ha previsto che le Regioni dovessero: coordinare le azioni sui propri territori con le prefetture e i comuni; attivare un raccordo con il Terzo Settore e, in caso si ritenesse opportuno, anche con i rappresentanti istituzionali della comunità ucraina eventualmente presenti nel territorio. Inoltre, è stato previsto un contributo di sostentamento di 300 euro mensili (a cui si aggiungono 150 euro per ogni minore) per un massimo di 3 mesi (e comunque non oltre il 31 dicembre) rivolto a chi, avendo fatto richiesta di protezione temporanea, abbia poi trovato autonomamente alloggio presso privati.

Come evidenziato sopra, la principale forma di accoglienza si è realizzata presso privati, in maggioranza parenti o amici ucraini, in parte famiglie o singole persone italiane che hanno reso disponibili le proprie abitazioni, soprattutto nelle prime concitate settimane del conflitto. Per quanto riguarda l’attivazione di canali di accoglienza istituzionali, sempre nelle prime settimane degli arrivi la Protezione Civile ha predisposto un’accoglienza temporanea in strutture alberghiere (a settembre 2022 circa 8.500 persone si trovavano ancora in tali strutture). Sono poi stati resi accessibili sia i Centri Straordinari di accoglienza (CAS), sia le strutture del sistema di accoglienza e integrazione (SAI)[1], predisponendo un ampliamento dei posti – peraltro cronicamente insufficienti, a causa di una cattiva programmazione – che sono via via aumentati fino a 9.000. Tuttavia, a metà ottobre, solo meno della metà dei posti finanziati risultavano attivi, per via dei lunghi tempi burocratici necessari per l’affidamento della gestione dei progetti.

Consapevole dei possibili ritardi nell’effettiva messa a disposizione dei posti aggiuntivi di SAI e CAS, la Protezione Civile ha previsto un’ulteriore modalità di “accoglienza diffusa” sullo stile del SAI, di cui ha ripreso la terminologia. Facendo seguito all’Ordinanza 881 del 29 marzo 2022 la Protezione Civile ha emanato un avviso di manifestazione di interesse rivolto agli Enti del Terzo Settore per la messa a disposizione di 15.000 posti che garantissero i servizi tipici dei progetti SAI. La novità positiva nel disegnare questa forma di accoglienza si è configurata nella modalità di co-progettazione del bando, che ha visto protagonisti gli enti del Terzo Settore che compongono il Tavolo Asilo e Immigrazione e il Forum del Terzo Settore. Il mondo del privato sociale ha generosamente risposto all’appello, facendo registrare 48 proposte nel tempo record dei 12 giorni in cui il bando è rimasto aperto (11-22 aprile). La commissione di valutazione ne ha poi valutate positivamente 29 per un totale di 17.012 posti immediatamente disponibili, tra appartamenti indipendenti (57%), accoglienza in famiglia (23%) e altre tipologie, tra cui appartamenti in condivisione e spazi messi a disposizione da enti religiosi (17%). A metà maggio, dunque, dopo uno sforzo organizzativo ingente per gli Enti del Terzo Settore (che hanno dovuto trovare spazi, famiglie disponibili e ottenere una lettera di adesione formale da parte dei Comuni di riferimento in meno di due settimane) tutto era sostanzialmente pronto per firmare le convenzioni e avviare le accoglienze.

Giunti a questo punto del processo di attuazione dell’intervento qualcosa si è però inceppato, causando un sostanziale scostamento tra risultati attesi e obiettivi raggiunti. Per poter firmare le convenzioni è stata infatti richiesta una corposa documentazione, non solo agli enti capofila ma anche ai singoli partner. Inoltre, su forte sollecitazione di ANCI – che ha rivendicato la necessità di un ruolo di primo piano per i comuni in questa forma di accoglienza –  si è resa necessaria la firma di accordi di partenariato con tutti i comuni su cui insistevano le accoglienze. Se la macchina organizzativa degli enti pubblici non brilla per fluidità in situazioni ordinarie, le elezioni amministrative di giugno hanno ulteriormente allungato i tempi, complice anche lo scarso coinvolgimento dei Comuni nella prima fase. Le prime convenzioni sono state così firmate solo il 4 agosto, alle porte delle chiusure generalizzate di Ferragosto e con molte delle famiglie accoglienti in ferie. A fine novembre sono così state attivate soltanto 12 delle 29 convenzioni previste, per un totale di 5.332 posti, ma solo una minima parte di queste accoglienze è effettivamente cominciata; 5 enti hanno ritirato la propria disponibilità e 4 non hanno potuto attivare la convenzione perché avevano messo a disposizione sistemazioni in Basilicata, Calabria e Sicilia, regioni in cui, secondo Protezione civile, “non sussiste una specifica necessità perché non ospitano persone in alberghi o strutture ricettive”.

È probabile che pochi dei posti offerti si trasformino in accoglienze reali per tre diversi motivi: le accoglienze del bando terminano il 31 dicembre; diverse famiglie accolte in albergo sono restie a trasferirsi dopo 5 mesi in altra sistemazione lontana dalla struttura dove hanno vissuto fino a questo momento; infine, gli Enti del Terzo Settore faticano a trovare famiglie disponibili per l’accoglienza domestica, ora che l’emotività dell’inizio del conflitto sta scemando (una parte delle disponibilità date in aprile non è infatti stata confermata in autunno, quando le famiglie sono state nuovamente interpellate dopo mesi di silenzio). Un’altra ragione del “fallimento” nell’attuazione di questa forma di accoglienza sta nel fatto che, nonostante ripetuti appelli e sollecitazioni, non è stato permesso agli Enti del Terzo settore di far rientrare, nei posti finanziabili dal bando, le accoglienze informali già cominciate ben prima che si mettesse in moto il sistema istituzionale. Un sostegno economico e di servizi avrebbe senza dubbio favorito la tenuta di accoglienze domestiche complesse (donne e bambini appena arrivati, che non conoscono l’italiano e non hanno nessuna conoscenza del sistema di servizi del nostro paese). Solo nelle ultime settimane, essendosi ormai profilata l’impossibilità di far partire tutte le accoglienze messe a bando, la Protezione Civile ha aperto a questa possibilità almeno per alcune convenzioni.  In definitiva, la procedura messa in campo sicuramente tutelava la trasparenza dei processi, ma – come ha sottolineato Oliviero Forti di Caritas Italia – in emergenza si deve rispondere con strumenti flessibili per rendere fluidi i processi.

Alla luce dell’evidente flop della modalità del bando, a inizio settembre i 15mila ulteriori posti che avrebbero dovuto essere assegnati con un nuovo bando della Protezione Civile sono invece stati assegnati come posti SAI aggiuntivi. Si pone comunque nuovamente il tema dei lunghi tempi di attivazione.

 

Gli ucraini e gli altri rifugiati: ancora graduatorie di merito?

Un ulteriore importante nodo critico che segna la vicenda, per altri aspetti virtuosa, dell’accoglienza ai profughi ucraini, è l’evidente disparità di trattamento con gli altri migranti forzati. Una disparità che si è palesata fin dal perimetro di attivazione della direttiva sulla protezione temporanea, che è riservata in via esclusiva ai cittadini ucraini (solo quelli usciti dal paese dopo lo scoppio della guerra) e alle persone –sempre fuggite dall’Ucraina dopo il 24 febbraio 2022- che, pur non avendo la cittadinanza ucraina, sono in possesso di permessi di soggiorno permanente o titolari di protezione internazionale. Risultano pertanto esclusi i cittadini di paesi terzi che vivevano in Ucraina con un permesso di soggiorno temporaneo, tra cui lavoratori con contratti a tempo determinato, studenti e richiedenti asilo. L’Unione Europea ha lasciato che fossero i governi nazionali a scegliere se applicare anche a queste categorie di persone l’istituto giuridico della protezione temporanea invece di sottoporli alle procedure ordinarie (complicate e incerte come si è detto) di richiesta di asilo. L’Italia ha scelto l’interpretazione più restrittiva, avallando di fatto l’idea di una diversa meritorietà anche per chi è fuggito dallo stesso conflitto.

Questa visione miope del riconoscimento di protezione ha generato sul confine polacco la paradossale situazione per cui i profughi che arrivano dall’Ucraina vengono accolti mentre i richiedenti asilo che tentano di entrare dalla Bielorussia (soprattutto iracheni e afghani) sono respinti brutalmente. La disparità si manifesta poi all’interno degli stessi sistemi di accoglienza, con un evidente trattamento di favore verso i profughi ucraini; si pensi, ad esempio, all’ampliamento dei posti SAI che è stato riservato a ucraini e afghani – quasi una distribuzione di posti su base etnica – o al riconoscimento di spesa per i minori stranieri non accompagnati, che nel caso di bambini ucraini è molto superiore. Emerge da tutto ciò, plasticamente, un poco edificante scenario di profughi di serie A e di serie B.

 

Conclusioni

La crisi umanitaria generata dal conflitto in Ucraina ha creato un afflusso di profughi di ampie dimensioni che supera la crisi dei rifugiati del 2015-2017. La risposta europea è stata tempestiva e solidale ed è culminata nell’attivazione della procedura di protezione temporanea che ha favorito una diaspora dei profughi verso i paesi dell’Ue in cui essi avevano parenti che potessero sostenerli.  In Italia questa crisi ha innescato un processo di relativa innovazione del sistema, che sarebbe auspicabile potesse trasformarsi in un nuovo modello di accoglienza a beneficio di tutti i migranti che fuggono da conflitti simili a quello ucraino e che raggiungono il nostro paese a volte dopo anni di violenze subite nei paesi in cui sono transitati. Un modello più rispettoso dei diritti dei migranti forzati e sostanzialmente più efficiente, efficace e parsimonioso, soprattutto guardando alla sostenibilità di lungo periodo.

I pilastri fondanti di un’innovazione complessiva, ispirata a quanto messo in campo per l’accoglienza degli ucraini, dovrebbero comprendere almeno tre aspetti: la valorizzazione dell’agency delle persone, la semplificazione delle procedure, un approccio che mira all’inclusione del lungo periodo. Per quanto riguarda l’agency dei migranti è importante dare la possibilità ai profughi di avere voce in capitolo rispetto ai territori in cui stabilirsi, invece di essere smistati come pacchi da una regione all’altra senza tenere in considerazione le possibili reti parentali o amicali, reti che permetterebbero tra l’altro di velocizzare i percorsi di autonomia. Una drastica semplificazione delle procedure burocratiche per il rilascio di documenti e per l’accesso ai servizi permetterebbe invece, da un lato, di alleggerire l’onere burocratico in capo agli enti pubblici, dall’altro di garantire l’esercizio dei diritti. Terzo, l’abbandono definitivo dei centri collettivi sul modello dei CAS (che dovrebbero essere utilizzati esclusivamente per eventuali primissime fasi di emergenza), a favore di un investimento strutturale in un sistema di accoglienza diffuso, con un adeguato numero di posti e con alti standard qualitativi in termini di accompagnamento verso percorsi di integrazione e di autonomia. Svuotare i CAS significa però triplicare le dimensioni del SAI. I bandi della Protezione Civile hanno rafforzato una partnership virtuosa tra pubblico e privato valorizzando le competenze e l’esperienza del terzo settore. Purtroppo, come abbiamo visto l’attuazione ha messo a nudo i limiti della formulazione degli interventi, rendendoli ostaggio della burocrazia. Una lezione che si può trarre da questa vicenda è che “a regime”, in un sistema d’accoglienza capace di superare la logica dell’emergenza permanente la Protezione Civile non dovrebbe essere coinvolta: le Regioni e i Comuni dovrebbero invece recuperare il loro ruolo centrale rispettivamente nel coordinamento e nell’implementazione di quelle che a tutti gli effetti sono misure di welfare locale.

 

[1] CAS e SAI sono le due principali tipologie di centri di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. Per un approfondimento si rimanda al Social Cohesion Paper  2/2016 e alle note 4/2020 e 3/2021.

 

Bibliografia

Bassoli M. 2022 La politica dell’accoglienza domestica in Italia, in Dossier Statistico Idos 2022, pp. 141-144

Campomori F. 2022 La crisi ucraina e la (ri)organizzazione del sistema di accoglienza: tra lodevoli aperture e preoccupanti disparità di trattamento, in Politiche Sociali/Social Policies, n.2/2022, pp. 325-332

Schiavone G. 2022 L’esperienza italiana dell’accoglienza per gli sfollati dell’Ucraina: un approccio utile a una riforma del sistema di accoglienza? in Dossier Statistico Idos 2022, pp.135-140

 

Per saperne di più:

Situazione dei rifugiati Ucraini https://data.unhcr.org/en/situations/ukraine

Emergenza Ucraina: dati e ordinanze della Protezione Civile https://emergenze.protezionecivile.gov.it/it/umanitarie

Alfonso L. 2022 Profughi ucraini: le norme frenano l’accoglienza di famiglie e Terzo Settore, in Vita, 24 agosto 2022

https://www.vita.it/it/article/2022/08/24/profughi-ucraini-le-norme-frenano-laccoglienza-di-famiglie-e-terzo-set/163834/

 

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Uno “scudo sociale” contro le crisi: la sinistra spagnola alla prova del governo https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/uno-scudo-sociale-contro-le-crisi-la-sinistra-spagnola-alla-prova-del-governo/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/uno-scudo-sociale-contro-le-crisi-la-sinistra-spagnola-alla-prova-del-governo/#respond Wed, 23 Nov 2022 16:26:23 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=7961 NOTA n.6 – Novembre 2022 – Di Pablo Bustinduy e Matteo Jessoula, Università degli Studi di Milano

In Spagna, il primo governo di coalizione della storia democratica post-franchista ha dovuto affrontare una serie di sfide economiche e sociali senza precedenti. La ferita inferta dalla crisi del 2008 è stata infatti profonda: attualmente, la Spagna presenta il più elevato tasso di disoccupazione dell’intera zona euro (12,4%), e il governo ha ereditato uno dei livelli di debito pubblico più alti d’Europa, un mercato del lavoro condizionato da contratti di breve durata, elevata segmentazione e precarietà, nonché tassi allarmanti di povertà ed esclusione sociale.

A queste difficoltà strutturali si sono aggiunti la debolezza parlamentare del governo, sostenuto da una maggioranza composta soltanto da 155 deputati su 350 e, solo due mesi dopo la sua entrata in carica, lo shock generato dalla pandemia su un’economia fortemente dipendente dal turismo e dalla domanda interna.

Dopo i durissimi anni dell’austerità e una fase di profonda instabilità politica nel paese, il governo di minoranza formato da Partito Socialista (PSOE) e Unidas Podemos[1] ha perciò fatto di una svolta radicale rispetto alle politiche del decennio precedente la propria bandiera.

In particolare, l’agenda di governo è stata plasmata dalla volontà di sviluppare uno “scudo sociale” in grado di proteggere il tessuto produttivo del paese e le condizioni di vita dei ceti meno abbienti. Gli schemi di tutela dei lavoratori in caso di riduzione dell’orario (gli ERTE, simili alla cassa integrazione italiana, che hanno coperto oltre il 20% dei lavoratori del paese nell’anno 2020) sono stati accompagnati di una serie di misure sociali innovative finalizzate a colmare le lacune storiche del sistema di protezione sociale spagnolo. Tra queste si contano la creazione del Reddito Minimo Vitale –  Ingreso Minimo Vital, IMV, cioè un reddito minimo nazionale contro la povertà, che va ad aggiungersi ai redditi minimi esistenti a livello regionale – il divieto di licenziamento per ragioni di salute, il blocco provvisorio degli sfratti per coloro che non hanno un alloggio alternativo, la garanzia della fornitura di energia in caso di morosità, un “raffreddamento” della dinamica degli affitti con la definizione di un limite anno pari al 2%.

Per il loro carattere emergenziale molte di queste misure hanno incontrato importanti difficoltà tecniche e limiti di applicazione, per cui una migliore messa a punto delle stesse resta una delle principali sfide per il governo. L’attuazione dell’IMV, ad esempio, è stata lenta anche a causa di una procedura d’accesso complessa e farraginosa che ha dovuto essere oggetto di modifiche. Oggi, in virtù di questi miglioramenti, si stima che la nuova prestazione assistenziale sia stata erogata a più di 1,4 milioni di beneficiari.

Queste misure di emergenza hanno alterato lo sviluppo dell’agenda socioeconomica del governo, che è andata strutturandosi attorno a tre grandi assi. Il primo asse ha riguardato il mercato del lavoro e la distribuzione dei redditi. Sotto la pressione della crisi pandemica, il governo ha rilanciato convintamente il dialogo sociale, che ha portato a 13 grandi accordi tripartiti tra il 2019 e il 2021. Il risultato più importante della nuova stagione di concertazione sociale è stata la riforma del mercato del lavoro, approvata per un solo voto grazie all’errore di un deputato della destra in una drammatica sessione parlamentare. I risultati della riforma sono stati spettacolari: i contratti di lavoro a tempo indeterminato sono passati in soli sei mesi dal 10% al 50% dei nuovi contratti, mentre la disoccupazione ha raggiunto il livello più basso degli ultimi 14 anni, riducendosi di oltre 1.100.000 persone negli ultimi 16 mesi e scendendo sotto i 3 milioni per la prima volta dal 2008. Il tasso di disoccupazione è sceso dal 16,3% nel dicembre 2020 all’attuale 12,4%, mentre l’occupazione è in crescita, dal 65.7% (2020) al 67.7% (2021).

La forte ripresa dell’occupazione ha anche reso possibile un’ambiziosa politica di protezione del potere di acquisto delle pensioni, con una rivalutazione straordinaria del 15% per le pensioni non contributive e un incremento della pensione media dai 995 euro/mese di dicembre 2019 ai 1.091 euro/mese nell’agosto 2022. Sostenibilità e finanziamento del sistema pensionistico, insieme a bassi salari medi e difficoltà di accesso per i giovani, restano però sfide ancora aperte associate al mercato del lavoro in Spagna.

L’altra iniziativa centrale in materia di politiche del lavoro e dei redditi ha riguardato il salario minimo, diventato cavallo di battaglia nella politica di distribuzione dei redditi del governo di coalizione. Il salario minimo è salito da 735 euro al mese nel 2018 (in 14 mensilità annue) a 1.000 euro al mese nel 2022 con un incremento del 35,8%. Gli aumenti sono in linea con l’obiettivo di raggiungere il 60% del salario netto medio alla fine della legislatura nel 2023. Oltre 2 milioni di lavoratori e lavoratrici hanno visto i loro redditi aumentare per effetto di queste misure: la percentuale delle famiglie con redditi inferiori a 1.000 euro/mese è passata dal 19,7% nel 2018 al 14,8% nel 2021, mentre il divario di genere si è ridotto di quasi tre punti. Importante al riguardo, come detto sopra, il fatto che sul mercato del lavoro non si siano registrati effetti negativi rispetto alle dinamiche occupazionali.

Forte di quest’esperienza, il governo spagnolo ha adottato altre misure innovative in materia di protezione del diritto al lavoro. Fra di esse la cosiddetta Legge Rider, che per la prima volta regola in modo specifico i rapporti di lavoro nell’economia delle grandi piattaforme digitali, stabilendo un diritto specifico di informazione sugli algoritmi che regolano le attività lavorative, e creando una Commissione ad hoc con l’obiettivo di regolare l’impatto sul mondo del lavoro dell’Intelligenza Artificiale.

Il secondo asse nell’agenda di governo riguarda il rafforzamento dei diritti civili e sociali con un’intensa attività legislativa d’ispirazione femminista. In questo senso, la recente approvazione della Legge Soltanto sì è sì sviluppa un’ambiziosa strategia per la protezione della libertà sessuale delle donne e tutela contro la violenza. Il congedo lavorativo di 3 giorni nel caso di dolori incapacitanti per le donne, la garanzia del diritto all’aborto nel sistema sanitario pubblico, la Legge Trans e per i diritti LGTBI, l’estensione a 16 settimane (di cui le prime 6 obbligatorie) dei congedi di maternità e paternità (paritari, retribuiti al 100% e non trasferibili tra i genitori),  il riconoscimento dei contributi previdenziali per le donne che svolgono attività non professionali di cura, nonché il finanziamento delle iniziative racchiuse in un nuovo patto contro la violenza di genere, rappresentano le misure principali di un’azione di governo volta a trasformare in profondità l’azione politica e sociale dello Stato[2].

A queste misure si aggiungono altre iniziative in materia di istruzione, come l’incremento del 22% dell’importo delle borse di studio, l’estensione della rete pubblica per l’istruzione 0-3 anni, la riduzione delle tasse universitarie, la creazione di un bonus cultura di 400 euro una tantum per le 500.000 persone che diventeranno maggiorenni nel corso del 2022, e la nuova legge di protezione dell’infanzia e la gioventù, che stabilisce nuove garanzie dei diritti fondamentali dei bambini proteggendone il libero sviluppo della loro personalità contro ogni tipo di violenza fisica e piscologica.

Il terzo asse di politica sociale riguarda, infine, la lotta contro l’inflazione e la mitigazione delle conseguenze del ritorno della guerra in Europa. Tra le misure adottate dal governo, alcune hanno suscitato un acceso dibattito, come lo sconto universale di 20 centesimi/litro sul prezzo della benzina alla pompa – misura molto criticata per il suo carattere indiretto ed universale oltre che dai gruppi ecologisti per essere in contraddizione con gli obiettivi di transizione energetica fissati dalla nuova legge di cambiamento climatico. Il governo inoltre anche disposto la gratuità dei trasporti ferroviari urbani e regionali fino alla fine dell’anno, un bonus una tantum di 200 euro alle famiglie con redditi inferiori a 14.000 euro annui, e un bonus di 100 euro mensili aggiuntivi per i beneficiari di borse di studio. Queste misure dovranno essere finanziate tramite prelievi fiscali straordinari sui windfall gains delle grandi aziende elettriche e finanziarie – ad oggi ancora oggetto di discussione parlamentare. Nonostante ciò, le conseguenze del conflitto in Ucraina restano una potenziale fonte di ulteriori sfide sociali. Nell’estate 2022, l’inflazione annua è salita oltre il 10% a fronte di un incremento medio dei salari pari a solo 2,56% fino a luglio 2022. In assenza di interventi più ambiziosi sulla distribuzione dei redditi e sul sistema di fissazione dei prezzi dell’energia – anche a livello europeo – la capacità di compensazione delle misure adottate dal governo spagnolo rischia perciò di essere fortemente ridotta.

Alle sfide dovute al contesto geopolitico si aggiungono, tra l’altro, fattori di natura domestica che minacciano di rafforzare l’immagine di un esecutivo incapace di controllare il ritmo della propria azione politica. L’instabilità del sistema partitico spagnolo – ancora in fase di ri-strutturazione dopo un decennio di trasformazioni assai profonde – ha infatti registrato una robusta polarizzazione del quadro politico, con i partiti della destra (forti di una serie di ampie vittorie elettorali nei comizi regionali di Madrid, Castiglia Leon, e Andalusia) che si sono impegnati in una campagna di mobilitazione contro il governo. Alla stabilità politica non giovano poi, ovviamente, le tensioni tra i partiti della coalizione di centrosinistra, divenute esplicite su alcuni temi fondamentali come il salario minimo, la riforma del lavoro, e due questioni non risolte che nei prossimi mesi risulteranno centrali per il governo: la protezione del potere di acquisto dei cittadini e un’ambiziosa riforma del sistema fiscale.

Come partner principale della coalizione, il PSOE controlla infatti il Ministero dell’Economia, che presenta posizioni più ortodosse in materia fiscale e macroeconomica, mentre il Ministero del Lavoro – responsabile del dialogo sociale, delle politiche del lavoro e sociali, oltre che della politica dei redditi – è in mano a Yolanda Diaz, di Unidas Podemos, che ha disegnato proposte decisamente più robuste in senso redistributivo. In questo quadro, entrambi i partiti della coalizione mirano ad attribuirsi il merito per i risultati raggiunti sul terreno della coesione e dell’inclusione sociale, in una competizione per il sostegno degli elettori di centrosinistra che però suscita – nel contesto di tensioni e disaccordi pubblici appena delineato – una percezione generale di divisione e conflitto.

Un sondaggio realizzato nel mese di gennaio 2022 dalla società 40db per il giornale El Pais mostra infatti una realtà paradossale. Le principali misure del governo di coalizione in materia di politica socioeconomica hanno suscitato il sostegno di ampie maggioranze sociali, con livelli di gradimento che oscillano dal 62% per il salario minimo, al 60% per gli ERTE, 54% per l’IMV, fino al 39% per la riforma del lavoro, ma l’immagine generale resta quella di un governo debole e diviso, la cui azione favorisce principalmente le grandi imprese (per oltre il 60% degli intervistati) rispetti ai lavoratori (25% delle risposte). Questa contraddizione rappresenta una sfida difficile da affrontare, che rischia di nuocere ad entrambi i partner di governo in prospettiva elettorale. La svolta socialdemocratica che informa il programma del governo di coalizione richiede infatti la creazione di uno spazio ideologico e di un orizzonte politico condiviso che finora non si sono delineati con chiarezza, nonostante le importanti misure adottate.

Esistono però ancora grandi opportunità in materia di politica sociale. Nel quadro del Next Generation Fund, ad esempio, il governo ha recentemente presentato un nuovo Piano Strategico di Economia Sociale con una dote di 800 milioni di euro, insieme alla Strategia Spagnola di Economia Sociale 2021-2027, che mira a rafforzare un settore che rappresenta ormai quasi il 10% del PIL e stabilisce la cura delle persone come obiettivo strategico fondamentale per l’azione di governo. Nei prossimi anni, resta dunque aperta la possibilità di consolidare trasformazioni strutturali della politica sociale spagnola, finalizzate ad una maggiore equità e coesione sociale. Per riuscirci servirà la messa in campo di una chiara volontà e strategia politica in un tempo segnato dalle crisi e da una radicale incertezza rispetto al futuro. Il destino del governo e della coalizione di centrosinistra resta connesso a doppio filo alla capacità di cooperazione tra i due partner, non solo per definire un nuovo spazio ideologico nella mappa politica europea, ma anche per metterne in atto i principali provvedimenti con efficacia e determinazione.

 

Bibliografia

‘Un nuevo acuerdo para España’, programma del governo di coalizione, 2019.

Analisi dello sviluppo di 100 misure del patto di governo, 2022.

Chequeo al gobierno: las leyes estrella siguen pendientes a un año de las generales

Progetto di Legge Bilancio 2023

 

Los ERTE en la crisis del Covid19: un primer análisis de la reincorporación al empleo de los trabajadores afectados, Banco de España, Boletín Económico 2/2021

Sondaggio 40DB sulle misure del governo contro l’inflazione, Ottobre 2022

Sondaggio 40DB sulle principali misure economiche e social del governo, Gennaio 2022

 

 

Per saperne di più:

Jessoula, M. e P. Bustinduy, La sinistra e la lotta alla precarietà, che cosa insegna il caso spagnolo, Altreconomia, 09/2022

Spagna, corrono ancora i contratti stabili, La Repubblica, 3/06/2022

Dati sulla disoccupazione in Spagna

Le pensioni in Spagna

 

[1] Unidas Podemos (trasformazione, nel 2019, della precedente alleanza del 2016 Unidos Podemos) è un’alleanza elettorale tra Podemos, creato nel 2014, e le forze della sinistra storica concentrate attorno al partito federale Izquierda Unida.

[2] Recentemente, a quest’agenda si è aggiunta la ratifica della convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro n. 189 sui diritti delle lavoratrici e dei lavoratori domestici.

 

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Genere e accademia https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/genere-e-accademia/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/genere-e-accademia/#respond Mon, 07 Nov 2022 15:31:02 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=7950 NOTA n.5 – Ottobre 2022 – Di Emanuela Lombardo, Universidad Complutense de Madrid, e Manuela Naldini, Università di Torino

Introduzione

Nonostante i progressi compiuti negli ultimi decenni, il raggiungimento della parità di genere in vari luoghi di lavoro e professioni, compresi il mondo accademico e la ricerca, rimane una sfida importante. Sia a livello europeo, sia a livello nazionale si notano politiche pubbliche che mostrano una crescente attenzione al tema dell’uguaglianza nell’accademia e nella ricerca. Ad esempio, si pensi al ruolo avuto dall’Agenda di Lisbona che, con la creazione della European Research Area nel 2000, ha incoraggiato lo sviluppo di una knowledge-based economy nella quale l’uguaglianza di genere deve giocare un ruolo fondamentale. La Commissione europea, con il Programma H2020, ha assunto l’impegno di garantire nei paesi membri dell’Unione europea la promozione effettiva dell’uguaglianza tra donne e uomini e della dimensione di genere nel contenuto della ricerca e dell’innovazione. Parimenti importante è stata la decisione di rendere obbligatorio a partire dal 2022 nei programmi ERC come criterio di eleggibilità per le Università e gli Enti di ricerca la presenza di Gender Equality Plans (GEPs) o Piani di Uguaglianza di Genere per tutti i programmi di ricerca di Horizon Europe. In Italia, per esempio, i GEPs sono individuati come un requisito per l’accesso anche ai programmi di ricerca finanziati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). In Spagna la legge obbliga dal 2007 le istituzioni pubbliche e private, Università, istituti di ricerca e agenzie che finanziano la ricerca compresi, a creare una struttura competente per l’integrazione di un approccio di genere (gender mainstreaming) -denominata Unità di Uguaglianza-, e a adottare GEPs e protocolli contro le molestie sessuali. Nonostante queste politiche e la rinnovata attenzione verso l’intreccio tra genere e ricerca, il divario nelle carriere di uomini e donne continua ad essere presente in tutti i Paesi membri. Il diagramma a forbice (Figura 1) fotografa bene la disparità di genere nelle varie fasi della carriera universitaria. Il numero di studentesse ha superato quello degli studenti nell’EU-27 e EU-28 (ISCED 6&7[1]). La situazione cambia a partire dai primi gradini della carriera accademica (ISCED 8[2]) soprattutto a partire dal primo gradino di ingresso nella carriera accademica, cioè ricercatore/ricercatrice (Grade C), corrispondente in Italia alla posizione di ricercatore/ricercatrice, per allargarsi ulteriormente nei successivi avanzamenti di carriera. Secondo il rapporto “She Figures”, ancora nel 2020 le donne costituivano il 42,3% del personale accademico, ma occupavano solo il 26% delle posizioni come docente ordinario/a (Grade A, cfr. Figura 1) e solo il 23,6% delle posizioni di governo (European Commission, 2021).

 

Figura 1. Proporzione (%) di uomini e donne nella carriera accademica, studenti-tesse e personale accademico, UE27. 2015-2018


Fonte: She figures, European Commission, 2021.

Accanto al fenomeno della segregazione verticale, continua a essere presente quello della segregazione orizzontale: le donne risultano infatti significativamente meno presenti nell’ambito delle discipline STEMM (Science, Technology, Engineering, Mathematics and Medicine).

Comprendere il fenomeno della disuguaglianza di genere nell’accademia

Il fenomeno della disuguaglianza di genere nell’Università e nella ricerca può essere rappresentato attraverso tre metafore che sintetizzano bene alcuni dei dati contenuti nel grafico. Il ‘rubinetto che perde’ è la prima metafora che indica il processo per cui le donne continuano ad avere più probabilità dei loro colleghi uomini di abbandonare la carriera (questo avviene in forma più accentuata nelle discipline di area STEMM). La seconda è quella della ‘porta di cristallo’, per cui le donne hanno meno probabilità degli uomini di accedere a posizioni stabili. Infine, la terza metafora è quella del ‘soffitto di cristallo’ per descrivere quella barriera invisibile che rende più difficile alle donne raggiungere gli stadi più alti della carriera (diventare professore/ssa ordinario/a) e in generale scalare le posizioni apicali. Gli studi hanno altresì rilevato che la valutazione della ricerca e i processi di selezione del personale accademico non sono immuni da stereotipi di genere impliciti, che tendono a favorire i ricercatori piuttosto che le ricercatrici. Anche in linea con la svolta neo-liberista che ha investito le Università e la ricerca, nei sistemi nazionali sono aumentate le richieste di individualizzazione, competizione e si sono generate crescenti pressioni a pubblicare (publish or perish). La divisione sessuale dei ruoli di docenza e ricerca nell’ambito universitario, conosciuta come academic housekeeping o lavoro domestico accademico – in cui gli uomini tendono a dedicare più tempo alla ricerca e alle pubblicazioni mentre le donne alla docenza e alle attività amministrative e di servizio, comunque ad attività meno prestigiose e utili per la carriera accademica – contribuisce ad accrescere il divario di genere. Infine, la violenza di genere e in particolare il sessismo e le molestie sessuali sono un ostacolo importante nella carriera accademica delle donne.
In questo contesto caratterizzato da competizione e individualizzazione e da crescente necessità di introdurre politiche pubbliche per ridurre le disparità di genere, è utile presentare i risultati di due progetti di ricerca esemplificativi delle molteplici sfide che rimangono aperte, nonostante la presenza a molteplici livelli (europeo, nazionale e a livello di singolo Ateneo o centro di ricerca) di politiche pubbliche nel campo della ricerca e dell’Università. Prima di far ciò, ci sembra utile offrire qualche dato di sfondo sulle disparità di genere nei due Paesi in cui i progetti sono stati condotti nel quadro europeo: Italia e Spagna. I dati mostrano infatti che Italia e Spagna, pur appartenendo alla stessa ‘famiglia di paesi’ per alcune dimensioni socio-economiche, anche in termini di tardiva partecipazione delle donne al mercato del lavoro e in termini di servizi e politiche soprattutto di welfare, oggi risultano lontani in termini di posizionamento per la riduzione del divario di genere. Per monitorare e confrontare i progressi e i rallentamenti nella riduzione dei divari di genere, l’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE) ha introdotto un indice sull’uguaglianza di genere (Gender Equality Index – GEI). Ogni anno l’indice assegna ai Paesi della UE un punteggio che va da 0 a 100. Il punteggio 100 significa che un paese ha raggiunto la piena parità tra uomini e donne. L’indice è composto da una batteria di indicatori sui traguardi raggiunti in domini chiave: lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute, nonché nei loro sotto domini. La Figura 2 offre un quadro sintetico delle differenze tra alcuni Paesi della EU. Come si può osservare la Spagna nel 2020 aveva raggiunto il traguardo per tutti i campi chiave indicati di 72 punti su 100, un valore 4 punti superiore alla media dei paesi membri e si collocava al 7 posto in Europa. Sotto tale profilo, l’Italia presentava un punteggio più basso non solo della Spagna, bensì anche della media europea, collocandosi al 14° posto in Europa.

Figura 2. Il Gender Equality Index (GEI) in alcuni paesi europei, 2020


Fonte: EIGE (European Institute for Gender Equality)

Con questo quadro di sfondo generale, che ci consente anche di avere un’idea di come si collochino i due Paesi in oggetto rispetto al gender gap, ci pare utile presentare i due progetti di ricerca esemplificativi delle sfide ancora aperte nella ricerca e nell’accademia in general. Il primo si focalizza sulle trasformazioni del mondo accademico entro un quadro di asimmetrie di genere nell’Università italiana. Il secondo progetto è invece focalizzato sul versante implementazione delle politiche pubbliche per ridurre le disuguaglianze di genere nelle università spagnole.

Il progetto italiano Gendering Academia

Il primo progetto è un PRIN, finanziato dal MIUR, dal titolo GeA (Gendering Academia), volto ad indagare le carriere accademiche e le condizioni di lavoro di giovani ricercatori/trici e professori/esse all’interno sia delle Scienze Umane e Sociali (SSH – Social Sciences and Humanities) che nelle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) con un’attenzione alla dimensione di genere (maggiori informazioni sul progetto e sulle pubblicazioni https://www.pringea.it/). Il lavoro di ricerca si propone di esplorare in quattro Atenei italiani di diverse dimensioni e posizioni geografiche i processi di reclutamento e di promozione in ottica di genere, con particolare attenzione alle recenti trasformazioni dell’Università. L’obiettivo è quello di comprendere se e in che modo le differenze e le disuguaglianze di genere sono (ri)prodotte nei vari stadi delle carriere accademiche e come i livelli micro (individuale), meso (delle culture organizzative e della governance) e macro (norme e politiche) interagiscono nel sostenere od ostacolare il successo nella carriera accademica, dal reclutamento, alla stabilizzazione, agli avanzamenti di carriera. La questione della persistenza delle disuguaglianze di genere nell’Università italiana e le sue trasformazioni negli ultimi 20 anni sono studiate utilizzando sia dati quantitativi (analisi statistica di dati secondari Istat e MIUR, sondaggi somministrati allo staff accademico), sia dati qualitativi (123 interviste semi-strutturate a ricercatori/trici precari/ e a professori/esse associate, 52 interviste a testimoni privilegiati della governance dei quattro Atenei coinvolti, 46 interviste semi-strutturate al personale scientifico di otto Dipartimenti nelle aree STEM e SSH), per un totale di 225 interviste. Il progetto parte dall’idea che le disparità di genere siano il risultato di processi che si cumulano nel corso della vita, nelle diverse fasi della carriera lavorativa e famigliare. A partire dalle interviste condotte con ricercatori/trici, professori/resse e con testimoni privilegiati la ricerca mostra l’importanza di fattori da ricondurre a processi che operano a diversi livelli. Tali processi mettono in evidenza anche come i cambiamenti del sistema universitario italiano non abbiano ad oggi contribuito a ridurre i divari di genere. Dallo studio emerge come primo elemento di trasformazione del sistema: l’intensificazione dei tempi e dei ritmi di lavoro. Fare ricerca è sempre più spesso una ‘vocazione’, ma entro una cultura di ‘devozione totale’ al lavoro, sostenuta da un modello di lavoratore ‘incondizionato’ (senza responsabilità di cura e senza altro tempo oltre al lavoro). L’accelerazione dei tempi di lavoro è in gran parte dovuta alla richiesta di maggiore produttività (scientifica), “è una tragedia […]” dice Anita, una ricercatrice precaria di 34 anni, “uno lavora continuamente, non, non ci sono orari… non ci sono weekend non… […] tu dai che devi produrre, devi produrre, quindi cerchi sempre di produrre”. Sul fronte dei percorsi lavorativi, le donne, sia in ingresso che nelle fasi più avanzate della carriera, presentano percorsi più lenti e meno lineari. Inoltre, le donne in accademia, ‘percepiscono’ più spesso dei loro colleghi maschi di non essere state sostenute nel loro percorso professionale e di ricerca (da un o una mentore) e manifestano più spesso il rifiuto verso le posizioni apicali. Sono all’opera anche alcuni meccanismi di auto-selezione da parte delle donne stesse ‘penso che siamo ancora noi in alcuni aspetti la barriera di noi stesse’, dice Pia, 48 anni, professoressa associata. Sul fronte della conciliazione famiglia e lavoro, ancora una volta, le penalizzazioni legate alla maternità, strategie di rinvio o la rinuncia alla maternità e paternità, per non compromettere la carriera, rappresentano le ordinarie storie di vita delle ricercatrici e dei ricercatori dell’Università italiana. La pandemia, d’altro canto, con la chiusura di scuole e servizi per l’infanzia, ha contribuito ad esacerbare le diseguaglianze di genere preesistenti. Inoltre, dalla ricerca emerge che i cambiamenti che hanno investito il mondo accademico negli ultimi anni hanno generato degli effetti anche sulle culture organizzative (di genere) dei Dipartimenti. Sebbene alcuni ritengano che questa svolta abbia determinato un’aderenza maggiore ai principi dell’uguaglianza fra uomini e donne e del gender mainstreaming, i modelli organizzativi emergenti – che costruiscono modelli di lavoro e di cittadinanza accademica in linea con le richieste di individualizzazione, competizione e completa dedizione al lavoro imposte dalla nuova agenda – continuano a perpetuare le disuguaglianze di genere. Inoltre, la pandemia ha contribuito ad esacerbare le diseguaglianze di genere preesistenti, specialmente per coloro che si trovano nelle prime fasi della carriera, in posizioni di ricerca temporanee e condizioni di lavoro precarie.

Il progetto spagnolo UNiGUAL

Il progetto di ricerca spagnolo UNIGUAL, finanziato dall’Agenzia Statale della Ricerca del Ministero spagnolo della Scienza e Innovazione, studia l’attuazione delle politiche di uguaglianza (piani di uguaglianza GEPs, protocolli contro le molestie sessuali e sessiste, misure per conciliare lavoro e vita familiare) nelle università spagnole. Il progetto ha mostrato che il principale ostacolo all’attuazione delle politiche di uguaglianza nelle università consiste nella resistenza all’applicazione delle politiche di uguaglianza da parte dell’istituzione stessa e di attori che non riconoscono, normalizzano o rendono invisibili le disuguaglianze nel tentativo di mantenere lo status quo relativo alla disuguaglianza. La ricerca, basata in una metodologia qualitativa di interviste, focus groups e analisi documentale, ha contribuito ad identificare le forme di resistenza, tra cui il rifiuto di assumersi responsabilità nell’attuazione delle politiche di uguaglianza e la negazione della necessità di un cambiamento verso l’uguaglianza. Sono state inoltre identificate le norme di genere informali che alimentano la resistenza, come per esempio la considerazione dell’uguaglianza come una questione di seconda classe anziché una priorità, il miraggio dell’uguaglianza (cioè pensare che l’uguaglianza sia già stata raggiunta) e la sopravvalutazione del lavoro accademico maschile e la sottovalutazione del lavoro accademico femminile. I risultati contribuiscono anche all’identificazione dei principali fattori che favoriscono la resistenza all’attuazione delle politiche di uguaglianza nelle università, che comprendono sia la mancanza di meccanismi di controllo esterni ed interni per monitorare e valutare l’implementazione dei piani di uguaglianza, protocolli contro le molestie sessuali e sessiste e altre misure per raggiungere l’uguaglianza nell’università, sia la cultura e la gerarchia di genere dell’università e il conservatorismo del contesto istituzionale che oppone resistenza al cambiamento promosso dalle politiche di uguaglianza. UNiGUAL consente anche di conoscere quali sono i fattori che facilitano l’attuazione delle politiche di uguaglianza nelle università, che includono il tipo di istituzionalizzazione dell’organismo competente in materia di uguaglianza di genere dell’università (in Spagna denominato Unità di Uguaglianza), le norme di genere formali (scritte, adottate dall’università, come i piani di uguaglianza) e informali (non scritte ma in uso, come la preferenza tacita per il candidato maschile nei processi di selezione del personale), le idee relative all’uguaglianza che esistono nel contesto universitario, e le strategie degli attori che si impegnano a promuovere le misure di uguaglianza negli atenei. La ricerca ha individuato sia le contro- resistenze individuali da parte di chi dirige le Unità di Uguaglianza, sia quelle collettive, come le alleanze tra attori che promuovono l’uguaglianza nell’ambito universitario. Tra le contro-resistenze di chi dirige le Unità di Uguaglianza si annoverano, ad esempio, l’uso delle norme di uguaglianza in ambito universitario per legittimare l’attuazione delle politiche, l’allineamento con e la partecipazione alle campagne dei movimenti femministi, la ricerca di appoggio alle misure di uguaglianza da parte del/della Rettore/Rettrice e dei/delle Prorettori/Prorettrici, e la ricerca di legittimità attraverso la firma di accordi con le istituzioni pubbliche che operano per l’uguaglianza di genere. I fattori facilitatori della contro-resistenza individuale includono l’attivismo femminista della Direttrice dell’Unità di Uguaglianza dell’università, il capitale sociale della Direttrice attraverso i legami personali stabiliti dentro e fuori l’università e l’integrazione della Direttrice nei centri decisionali. Le contro-resistenze collettive comprendono, soprattutto, alleanze tra diversi attori che promuovono l’uguaglianza in Ateneo, come personale esperto di genere sia interno che esterno all’università, studenti e studentesse e personale amministrativo. Includono anche la costruzione di spazi e forum interuniversitari per integrare il genere nell’insegnamento e nella ricerca (ad esempio XarxaVives in Catalogna) e l’espansione delle strutture di uguaglianza all’interno delle università (ad esempio, commissioni per l’uguaglianza o reti universitarie). I fattori che facilitano la contro resistenza collettiva sono i valori femministi condivisi, il capitale sociale a disposizione degli attori pro-eguaglianza, il sostegno rettorale e quello dei movimenti femministi. I risultati del Progetto UNiGUAL – sia scientifici (vedi le pubblicazioni del team su https://www.unigual.es/publicaciones-y-recursos/), sia sociali (vedi le raccomandazioni scritte e video su https://interunigual.com/recomendaciones /) – mirano ad avere un impatto sociale affrontando la progettazione, valutazione e impatto delle politiche pubbliche sull’uguaglianza, con l’obiettivo di offrire risorse innovative per attuare efficacemente le politiche di uguaglianza di genere nelle università spagnole.

Conclusioni

Nonostante la crescente attenzione dedicata al tema dei divari di genere nella ricerca e nell’Università a livello dell’Unione europea, Spagna e più recentemente anche in Italia, molti restano gli ostacoli da superare e le sfide da affrontare per eliminare le disuguaglianze di genere nell’accademia. Le politiche pubbliche hanno un ruolo chiave per colmare questo divario. L’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere EIGE raccomanda che, per essere efficaci, i piani di uguaglianza GEPs adottati nelle università, istituti di ricerca e agenzie di valutazione della ricerca devono incidere sui processi organizzativi, grazie all’appoggio dei vertici istituzionali, lo stanziamento di adeguate risorse economiche e umane, la raccolta e monitoraggio di dati sull’evoluzione del divario di genere in accademia, e la formazione di genere di tutto il personale. Ma devono anche incidere sul contenuto delle azioni, introducendo misure che permettano l’equilibrio tra il lavoro e la vita familiare, la parità di genere nel processo decisionale, l’uguaglianza di genere nella contrattazione e promozione di carriera, l’integrazione di un approccio di genere nel contenuto della ricerca e della docenza e misure contro la violenza di genere, comprese le molestie sessuali. A tal fine, sono necessarie strutture competenti dotate di risorse adeguate per la realizzazione e il monitoraggio dell’attuazione effettiva delle politiche adottate e l’impegno da parte di tutta la comunità accademica nell’applicazione delle misure di uguaglianza.

[1] Secondo la classificazione internazionale standard dell’istruzione (ISCED – International Standard Classification of Education), il livello 6 corrisponde alla laurea triennale, mentre il livello ISCED 7 alla laurea Magistrale o equivalente.
[2] Il livello ISCED 8 corrisponde al dottorato o equivalente.

Per saperne di più:

Rossella Bozzon, Annalisa Murgia e Barbara Poggio (2019),“Gender and precarious careers in academia and research: macro, meso and micro perspectives”. In Gender and Precarious Research Careers, Annalisa Murgia e Barbara Poggio (a cura di), pp. 15–49, Londra, Routledge.

Renzo Carriero e Manuela Naldini (2022), “Gender Disparity in Access to Academia in Italy. The barriers to women’s early career stages”, Polis, 1/2022, pp. 5-32.

Cecilia Castaño, Susana Vásquez-Cupeiro e José Luis Martinez-Cantos (2019), ”Gendered management in Spanish universities: Functional segregation among vice-rectors”, Gender and Education, 31(8), pp. 966-985.

European Commission, Directorate-General for Research and Innovation, She figures 2021: Gender in research and innovation: Statistics and indicators, Publications Office, 2021.

Camilla Gaiaschi e Rosy Musumeci (2021), “ «Why so slow?» Un’analisi del reclutamento accademico in Italia dal 2000 al 2020, tra processi di femminilizzazione e (ri-)maschilizzazione. Sociologia Italiana – Italian Journal of Sociology, 18/2021, pp. 97-122.

Emanuela Lombardo e María Bustelo (2021), “Sexual and sexist harassment in Spanish universities: policy implementation and resistances against gender equality measures”, Journal of Gender Studies, 31(1), pp. 8-22.

Emanuela Lombardo, María Bustelo, Alba Alonso, Tània Verge, Arantxa Elizondo, Rebecca Tildesley, Isabel Diz e MariaCaterina La Barbera (2021). Igualdad e interseccionalidad en las Universidades. Recomendaciones, mimeo.

Rebecca Tildesley, Emanuela Lombardo e Tània Verge (2021), “Power Struggles in the Implementation of Gender Equality Policies: The Politics of Resistance and Counter-resistance in Universities”, Politics & Gender, pp. 1-32.

 

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Discorsi d’odio, destre radicali e social media ai tempi della pandemia https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/discorsi-dodio-destre-radicali-e-social-media-ai-tempi-della-pandemia/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/discorsi-dodio-destre-radicali-e-social-media-ai-tempi-della-pandemia/#respond Tue, 26 Jul 2022 15:37:24 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=7901 NOTA n.4 – Luglio 2022 – Di Manuela Caiani, Scuola Normale Superiore e OCIS

A partire dal primo anno di pandemia (2020), uno studio condotto presso la Classe di Scienze Politiche e Sociali della Scuola Normale Superiore ha iniziato a studiare attraverso alcune tecniche di analisi del contenuto automatizzate la presenza e le forme (quali bersagli, quali attori, quali tematiche dell’odio) dei discorsi di incitamento all’odio sui social media della destra radicale (leader e partiti), comparando  Italia e Gran Bretagna – due paesi europei duramente colpiti dalla pandemia[1]. L’ipotesi è che la pandemia Covid-19 abbia creato un terreno ancora più fertile per i discorsi di odio, ampliando le opportunità politiche e discorsive per la destra radicale per introdurre frames e discorsi esclusivi o escludenti (contro minoranze, avversari politici, ecc.) nella sfera pubblica.  Lo studio ha comparato la produzione social del 2020 degli attori di destra radicale con quella di altri partiti presenti nei sistemi politici dei due paesi. È stato analizzato il contenuto di 21.360 tweet, utilizzando varie tecniche manuali e automatizzate di analisi del discorso.

I risultati mostrano come la destra radicale sia riuscita a portare all’ordine del giorno, nella sfera pubblica dei social media, questioni e interpretazioni della pandemia orientate all’incitamento all’odio nei confronti di specifiche categorie, enfatizzando e giustificando, grazie alla relazione col tema dell’emergenza sanitaria, la costruzione di specifici outgroups (nemici) in contrapposizione a specifiche categorie da difendere (ingroups). A tal riguardo, in entrambi i paesi studiati il discorso della destra radicale oscilla tra ciò che possiamo chiamare vero e proprio discorso d’odio (hate speech – in particolare contro le minoranze etniche) e ciò che chiamiamo ‘bullismo politico’ (contro avversari politici e talvolta i governi).

 

Discorso d’odio: una definizione

Nel giugno 2016 la Commissione europea ha emesso un ‘Codice di condotta’ insieme a Facebook, Microsoft, Twitter e YouTube per contrastare la proliferazione dei discorsi di odio online[2]. Essi sono definiti come “l’incitamento pubblico alla violenza o all’odio diretto a gruppi o individui sulla base di determinate caratteristiche, tra cui razza, colore, religione, discendenza e origine nazionale o etnica (Commissione UE 2016)”[3].  Il fenomeno ha acquisito particolare visibilità e diffusione grazie ai social media, e ciò ha alimentato un dibattito giuridico e spinto governi e associazioni a realizzare azioni di contenimento o repressione. Nonostante il Codice di condotta sopra menzionato, ciò che rende la situazione di identificazione di hate speech complessa, sia per la ricerca sociale sia il legislatore è che non esiste una definizione condivisa né a livello europeo, né a livello internazionale. Ad esempio, negli Stati non è neppure un termine legale e non può essere regolato direttamente dal governo a causa del diritto fondamentale alla libertà di parola protetto dalla Costituzione.

Nonostante i problemi definitori, la ricerca sociale sui discorsi d’odio e la radicalizzazione non è nuova; con l’avvento di Internet, essa diventa ancora più cruciale, poiché si ritiene che questo mezzo incoraggi odio e radicalizzazione in quanto favorisce risposte istantanee, reazioni viscerali, giudizi non ponderati, commenti a caldo, ecc. A tal riguardo, lo psicologo sociale americano Suler (2004) parla di ‘disinibizione sociale’[4], un contesto favorevole costituito da tre principali fattori: anonimato; assenza di influenze moderatrici; e ‘bolle virtuali’, dove i partecipanti vedono rafforzate le loro opinioni (spesso estremiste) e si spronano a vicenda.

Una recente ricerca dedicata ai casi di Francia, Germania, Svizzera e Gran Bretagna e basata su analisi del contenuto dei media e sondaggi rappresentativi della popolazione, ha riscontrato che gli atteggiamenti dei cittadini nei confronti degli immigrati e delle questioni multiculturali sono influenzati negativamente dall’esposizione a messaggi provenienti dai social media con contenuti xenofobi[5]. Analogamente, un recente studio condotto sulle pagine Facebook della destra spagnola, ha mostrato come gli strumenti offerti dai social media (come ‘mi piace’, ‘condividi’, ‘commenta’ ecc.) favoriscono l’aumento dei discorsi di odio, dal momento che funzionano come “un algoritmo che riproduce l’omogeneità”[6].

 

I risultati della ricerca

Se guardiamo al discorso politico della destra radicale sui social nel primo anno di pandemia, quali mappe concettuali vengono offerte ai cittadini per interpretare il contesto pandemico (Figura 1)?

Figura 1 Le ‘nuvole di parole (word cloud)

Le ‘nuvole di parole’ generate dai contenuti dei post Twitter dei vari partiti (di destra e non) nei due paesi, illustrano le caratteristiche della comunicazione politica. Possono essere letti come ‘anelli di concetti ricorrenti’: più grandi sono le parole, più frequentemente ricorrono. Le parole possono essere nomi, verbi, avverbi. In Italia emerge una chiara divisione nella comunicazione politica fra partiti di destra e altri partiti. La frattura ruota intorno a 4 grandi cluster, o insiemi di parole, che possono essere intesi come 4 grandi mappe concettuali offerti dai leaders e rispettivi partiti per interpretare la crisi societaria della pandemia (problemi, soluzioni, quali i nemici, quali gli amici, secondo il concetto sociologico di framing, ovvero ‘schemi cognitivi’ offerti ai cittadini per costruire simbolicamente la realtà sociale e politica che li circonda ed agire politicamente in base a questa interpretazione).

Le 4 grandi mappe concettuali costruite nel discorso politico della destra radicale italiana con riferimento alla pandemia sono le seguenti:

  1. rapporto (antagonistico) tra Governo e italiani;
  2. partiti di destra radicale in contrasto con tutti gli altri partiti del sistema partitico e il Primo ministro Conte;
  3. identificazione delle categorie da difendere in temi di crisi (famiglie, lavoratori, italiani/italiani, cittadini/’amici’…);
  4. diffusione dell’ideologia e dei valori fondamentali della destra (anti-immigrazione, nazione, ‘poveri meritevoli’) – di minore rilevanza.

Le due destre radicali (Lega e FdI) non differiscono fra loro rispetto a questi principali 4 grandi macro temi mobilitati. Sorprendentemente, il tema della pandemia (es. parole come ‘pandemia’, ‘virus’, malattia) riguarda solo il 3-5% di tutti i tweet analizzati. Diversa è la configurazione della comunicazione politica dei partiti tradizionali che si articola nei seguenti principali gruppi di concetti (visibili dalla figura 1):

  1. la ‘rinascita’ italiana al tempo del Covid-19;
  2. azioni verso le categorie più colpite;
  3. categorie universali di cittadini da difendere (Italia, cittadini);
  4. linguaggio gioioso/speranza e schemi cognitivi propositivi.

Un quadro diverso emerge dall’analisi dei partiti del Regno Unito (Figura 2). Qui non troviamo una netta distinzione del discorso politico sui social media nel primo anno di pandemia fra le forze della destra radicale e gli altri attori partitici tradizionali. I tweet della destra in particolare si dividono in quattro gruppi principali. Il primo cluster include parole che elaborano un approccio antigovernativo che strumentalizza il Covid-19 (e la strategia del lockdown o confinamento) per mobilitare i sostenitori del partito Brexit e la causa Brexit (la parola ‘Brexit’ ricorre 147 volte nell’account del Brexit Party e 72 volte in quello di Farage). Il secondo è un cluster conservatore/anti-multiculturalista. Il terzo riguarda la pandemia più specificamente e le categorie di persone da difendere (come ‘crisi’ e ‘lavoratori’) giustapposti a ‘scienziati’ e ‘prove’, secondo una retorica anti intellettualista e anti scientifica tipica di parte del Movimento No Vax europeo. Infine, un gruppo di concetti che enfatizzano temi legati alla nazione e nazionalismo (‘Gran Bretagna’, ‘britannico’, ‘paese’, ‘nazionale’, ‘bandiera del Regno Unito’). Oltre a criticare il governo, la destra radicale inglese e i suoi leader twittano spesso su questioni altamente divisive, che somigliano ai valori fondamentali della cosiddetta ‘alt(ernative)-right’ statunitense: conservatorismo, anti-multiculturalismo e anti-migrazione.

 

Contro chi si scaglia il discorso d’odio della destra ai tempi della pandemia? Nemici, amici, temi.

Se nel primo anno di Covid-19 prendiamo in considerazione i soli tweet dei leader relativi alla pandemia (Tabella 1), in entrambi i paesi la presenza di discorsi di odio (rilevati secondo la definizione ufficiale della Commissione Europea)[7] è di un certo rilievo – particolarmente in Italia. Si tratta, di circa il 10% nel Regno Unito e il 18% in Italia, con la leader di Fratelli di Italia che arriva da sola al 24%. Questo significa che un tweet su 4 della leader del partito di destra radicale Italiano, ad oggi in forte crescita nei sondaggi di opinione e possibile futura Presidente del Consiglio, contiene un hate speech. Va notato che dei tweet contenenti incitamento all’odio mostrati in tabella, circa la metà di Salvini e di Farage contenevano

discorsi di odio meno severi, cioè un linguaggio denigratorio nei confronti degli avversari politici e delle loro proposte ma non incitamento alla violenza fisica o verbale. Anche circa un terzo dei tweet di Giorgia Meloni rientrano in questa categoria, definibile come ‘bullismo politico’.

Tabella 1. Presenza di discorso d’odio nei tweet della destra legati alla pandemia (2020).

Paese Presenza di discorsi di odio nei tweet
Nigel Farage 12,8%
Partito Brexit   1,4%
Totale Regno Unito   7,3%
Giorgia Meloni 24,3%
Matteo Salvini   8,4%
Totale Italia 17,7%

Esaminando le dimensioni contestuali e contingenti dell’emergere dell’odio di destra, cioè gli attori e i temi (issues) contro cui e intorno alle quali è più probabile che emerga il discorso di odio nei tweet relativi al Covid-19 (Tabella 2), scopriamo che in entrambi i paesi la maggior parte degli hate speech relativi al Covid-19 sono diretti contro nemici politici (es. sindacati, la ‘sinistra’, gli altri partiti politici, ecc.), e ciò in circa l’87% di tutti i tweet pubblicati nel primo anno di pandemia. Più precisamente, nel Regno Unito il 76% per cento dei tweet di Farage e, in Italia, l’82% di Salvini e il 91% per cento della Meloni. Altri attori ‘nemici’ contro cui si scaglia il discorso d’odio sono: attori socio-culturali (4,7%), immigrati e istituzioni sovranazionali (entrambi 3,9%) nel Regno Unito; istituzioni europee (4,5%) e immigrati (3,3%) in Italia. Salvini, ad esempio, prende di mira il governo, le personalità istituzionali, così come i politici di sinistra quando si parla di Covid-19, che descrive spesso come ‘élite catturate’ (da forze sovranazionali), ‘inutili’, ‘pessimi ministri che oltraggiano le scuole’. In questi attacchi, a volte prende il sopravvento una discriminazione di genere. Ad esempio, un tweet su Azzolina, ministro dell’Istruzione: “il suo problema non è il suo rossetto, [è] la sua inadeguatezza a fare il suo lavoro.” Gli attori socio-culturali presi di mira dalla destra radicale del Regno Unito sono principalmente movimenti sociali progressisti, nella fattispecie il movimento Black Lives Matter.

Tabella 2. Discorsi di odio di destra radicale nei tweet (2020), per tipo di target (‘outgroup’).

Tipo di target Nigel Farage Partito Brexit Destra radicale (Regno Unito) Matteo Salvini (Lega) Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) Destra radicale (Italia)
Attori politici (altri partiti, la Sinistra, centri sociali, ecc.) 76.1% 99.2% 87.0 % 82.4% 91.3% 87.6%
Destra radicale (‘noi’) 0 % 0 % 0 % 0 % 0% 0%
Nazione, nostro paese 0 % 0 % 0 % 0 % 0,4% 0.2%
Attori socio culturali e movimenti sociali 9% 0 % 4.7% 4.0% 0.8% 2.4%
Immigrati 6.7% 0.8% 3.9% 6.9% 0.8% 3.3%
Istituzioni sovranazionali 7.5% 0% 3.9% 2.6% 0.2% 1.2 %
Istituzioni e attori Europee 0.7% 0 % 0.4% 3.3% 5.7% 4.5%
Attori socio economici (Sindacati, categorie economiche, ecc.) 0 % 0 % 0% 0.4% 0.9% 0.7%
Totale tweet legati al Covid-19 100%

(134)

100%

(120)

100%

(254)

100%

(374)

100% (529) 100%

(903)

Nota: percentuali riferite solo ai tweet legati al Covid-19.

Con riferimento alla situazione Covid-19, la destra radicale italiana spesso etichetta l’Unione europea, come una ‘Troika’ (e distante dai cittadini, autocratica), ‘inesistente’, ‘assassina dello Stato (italiano)’. Quanto agli immigrati, nei tweet relativi al Covid-19, essi sono spesso equiparati a ‘terroristi’/’terrorismo’; in Italia, descritti come ‘clandestini’, ‘free riders’, oltre a ‘diffondere il virus’. In termini di temi, in Italia l’incitamento all’odio si verifica in particolare quando il Covid-19 è legato sia a questioni socio-economiche (61%) sia a questioni politiche (23%). Al terzo posto, l’immigrazione. La destra radicale attacca spesso l’Unione europea e la sua gestione socioeconomica della crisi, soprattutto in Italia (es. “…questa non è Unione, questa è una tana di serpenti e sciacalli”), criticando fortemente e delegittimando il meccanismo europeo di stabilità (es. “Parliamo di vita reale!” – ancora Salvini). Infine, l’emergenza Covid-19 sembra dare un’opportunità alla destra radicale per rafforzare gli appelli alla base (cioè il ‘gruppo interno’ o ingroup); infatti, una larga maggioranza di tweet legati al Covid-19 prodotti da essa prodotti contengono riferimenti a un ingroup (85 e 72% nei due paesi), o attori che vengono presentati come bisognosi di difesa e protezione. Essi sono per lo più ‘nazione/nostro paese’ (nel 50% dei casi circa nei due paesi) e secondariamente la stessa destra radicale (‘noi’, 25% dei casi in Italia), che si presenta come “vittima”, “stigmatizzata”, “voce fuori dal coro”. Nei tweet di Salvini ad essi si aggiungono categorie socio-economiche (come “famiglia”, “imprese”, “operatori sanitari”, “genitori”, “dirigenti scolastici”, “insegnanti precari”, “disoccupati”, “lavoratori”, “lavoratori autonomi” e “commercianti”), che “sono preoccupati per la propria salute e il proprio lavoro”, “veri eroi”, “poveri”, “precari”, “operosi” e “che meritano la gratitudine del paese”. A tal riguardo, Salvini mette spesso in evidenza come vuole tutelare i “meritevoli”.

 

Conclusione

All’ombra del Covid-19, un altro virus si sta diffondendo a macchia d’olio. È l’epidemia dell’odio online che si insinua tra le pieghe dell’insicurezza collettiva e alimenta il rancore sociale. Violenza verbale, teorie del complotto e ricerca costante di capri espiatori: così i social media si stanno trasformando in pozzi avvelenati. Il nostro studio dimostra che la pandemia ha dato alla destra radicale un’opportunità politica per diffondere l’incitamento all’odio e attaccare i propri avversari politici in modo più ampio. La destra radicale, sia in Italia sia nel Regno Unito, inserisce una dose massiccia di incitamento all’odio nei suoi tweet e tende a strumentalizzare la pandemia per attaccare i suoi nemici tradizionali. In un’era di relativismo post-verità, le notizie e i discorsi sono sempre più politicizzati e talvolta utilizzati come etichetta per delegittimare oppositori politici e altri gruppi sociali (come ad esempio le minoranze).

 

Per saperne di piu’

Michelle Falkenbach e Manuela Caiani (2021), “Italy’s Response to COVID-19”, in Greer, S. L., King, E.J., Massard da Fanseca, E. e Peralta-Santos, A. (a cura di), Coronavirus Politics, Ann Arbor, University of Michigan Press, 320-338.

Manuela Caiani e Linda Parenti, (2013), Web Nero: Organizzazioni di estrema destra ed Internet, Bologna, Il Mulino.

 

*Si ringraziano Benedetta Carlotti (Libera Università di Bolzano e Scuola Normale Superiore) e Enrico Padoan (Scuola Normale Superiore) per la collaborazione al progetto di ricerca e all’elaborazione dei dati.

[1] Per l’Italia sono stati analizzati i partiti della destra radicale populista: Lega per Salvini Premier (d’ora in poi, Lega), e il suo leader Matteo Salvini, e Fratelli d’Italia, e la sua leader Giorgia Meloni. Per il Regno Unito sono stati analizzati il partito della destra radicale Brexit e il suo leader Nigel Farage. Abbiamo anche analizzato tutti i tweet prodotti nel 2020 dai più importanti partiti tradizionali nei due paesi: il partito laburista (e il suo leader Keir Starmer) e il partito conservatore (e il suo allora leader Boris Johnson) nel Regno Unito e il Partito Democratico (e il suo leader Nicola Zingaretti) in Italia. Nel caso italiano, inoltre, si è analizzato anche il partito allora al governo, il Movimento Cinque Stelle (e il suo allora leader Luigi Di Maio).

[2] https://ec.europa.eu/info/policies/justice-and-fundamental-rights/combatting-discrimination/racism-and-xenophobia/eu-code-conduct-countering-illegal-hate-speech-online_en

[3] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/qanda_20_1135

[4] Suler J. (2004), “The online disinhibition effect”, Cyberpsychol Behav. Jun; 7(3): 321-6.

[5] Wirz, D.S., Wettstein, M., Schulz, A., Müller, P., Schemer, C., Ernst, N., Esser, F. e Werner, W. (2018), “The Effects of Right-Wing Populist Communication on Emotions and Cognitions Toward Immigrants.” The International Journal of Press/Politics 23 (4): 496–516.

[6] Ben-David, A. e Matamoros-Fernández, A. (2016), “Hate Speech and Covert Discrimination on Social Media: Monitoring the Facebook Pages of Extreme-Right Political Parties in Spain.” International Journal of Communication 10: 1167–1193.

[7] Sono stati codificati (cioè ‘misurati’) come ‘discorsi d’odio’ i tweet contenenti un incitamento all’odio fisico o verbale verso particolari categorie individuate in base a etnia, genere, religione, ideologia politica.

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