Rubrica – Osservatorio Coesione Sociale https://osservatoriocoesionesociale.eu Sito Osservatorio Coesione Sociale Fri, 08 Nov 2024 08:58:54 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.3.18 Superare i falsi miti sul sistema pensionistico https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/superare-i-falsi-miti-sul-sistema-pensionistico/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/superare-i-falsi-miti-sul-sistema-pensionistico/#respond Fri, 08 Nov 2024 08:54:09 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8667 Ae n.275, novembre 2024

Superare i falsi miti sul sistema pensionistico.

Si replicano diagnosi e terapie degli anni Novanta, ma i dati raccontano una storia diversa. Per riscrivere le regole bisogna partire da basi radicalmente nuove

Il dibattito sulle pensioni rimane schizofrenico tra promesse elettorali e nuovi vincoli di bilancio che preannunciano tagli. A sostegno di questi ultimi, alcuni contributi della stampa replicano diagnosi e terapie degli anni Novanta: se il processo di invecchiamento demografico mette a rischio la sostenibilità dei sistemi a ripartizione, le principali criticità sarebbero il carattere “assistenzialistico” di quello italiano e il limitato versamento contributivo da parte dei lavoratori per via di condizioni di accesso al pensionamento troppo “morbide”. La nuova terapia prevede: riduzione della quota di spesa pensionistica assistenziale; innalzamento dell’età pensionabile ed estensione del periodo contributivo minimo per le pensioni di vecchiaia. Ma davvero l’assistenzialismo è il grande vizio del sistema pensionistico italiano e andiamo ancora in pensione troppo presto? I dati raccontano una storia diversa. Primo, la componente assistenziale
(pensioni di vecchiaia means-tested) del sistema pensionistico è in realtà più limitata in Italia rispetto agli altri Paesi europei, fermandosi allo 0,4% del Pil contro una media Ue dello 0,5%. La seconda narrazione da superare è che andiamo in pensione troppo presto. La situazione è infatti mutata rispetto a trent’anni fa quando l’Italia era il “Paese delle baby pensioni”. Se l’aspettativa di vita a 65 anni è aumentata di 2,8 anni dal 1994 (e di soli 1,1 dal 2004) nello stesso periodo l’età pensionabile è aumentata di ben 12 anni per le donne e di sette per gli uomini. Inoltre, l’irrigidimento -con una rapidità che non ha pari nei Paesi Ue- dei canali di accesso al pensionamento con le riforme Sacconi e Monti-Fornero ha portato l’Italia ad avere sia l’età legale di pensionamento più elevata in Europa, sia l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro tra le più elevate: 64,2 anni nel 2023, contro una media Ue di 63,6, in linea con la Germania, poco sotto la Svezia (65) ma sopra ben 19 Paesi Ue. Possiamo aumentare ancora l’età pensionabile? Per rispondere sono necessari altri dati che consentono di valutare l’equità del sistema in ottica intra-generazionale e di coglierne le interazioni con il mercato del lavoro. Primo: le differenze nell’aspettativa di vita a 65 anni vita sono ampie, fino a 3-5 anni a scapito dei gruppi svantaggiati sul piano socioeconomico.

0,4%

La quota del Pil rappresentata dalla componente assistenziale (pensioni di vecchiaia) del sistema italiano

Secondo, a 65 anni gli anni attesi in buona salute (10,1 anni) sono molto inferiori all’aspettativa di vita (20,6). Terzo, mentre l’aspettativa di vita è in graduale aumento, ciò non sembra essere vero per gli anni attesi in buona salute. Per i lavoratori svantaggiati appare dunque arduo e oneroso continuare a lavorare oltre i 65 anni. Infine riguardo all’interazione tra più elevate età di pensionamento e mercato del lavoro: il tasso di occupazione nella fascia 65-69 anni è di fatto in linea con la media europea e in quella 55-64 è raddoppiato dal 2000 raggiungendo il 57,3%. In parallelo si è però drammaticamente ampliato il divario nei tassi di occupazione dei lavoratori adulti (25-49 anni) tra l’Italia e l’Ue: dai cinque punti percentuali del 2003 fino ai quasi dieci punti nel 2022. L’Italia è oggi tra i Paesi europei con la più bassa quota di giovani e la più alta quota di anziani sul totale dell’occupazione: è con questa struttura occupazionale che vogliamo affrontare le transizioni verde e digitale, che richiedono competenze elevate e “fresche”? Riscrivere le regole pensionistiche oggi richiede di superare le analisi che hanno plasmato le “grandi riforme” degli anni Novanta, disegnando una proposta organica di intervento su basi radicalmente diverse che consenta di combinare efficacemente sostenibilità economico-finanziaria, adeguatezza ed equità, quest’ultima non solo in chiave inter-generazionale ma anche (e soprattutto) intra-generazionale.

Questo articolo è stato scritto da Matteo Jessoula per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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La strada verso il salario minimo https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/la-strada-verso-il-salario-minimo/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/la-strada-verso-il-salario-minimo/#respond Wed, 04 Sep 2024 08:53:50 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8647 Ae n.273, settembre 2024

La strada verso il salario minimo.

Solo dieci anni fa non se ne parlava, oggi l’Europa ci obbliga ad affrontare il tema. Le difficoltà di applicazione causate dalla normativa interna non giustificano l’inerzia

Il salario minimo legale -tema inesistente in Italia solo dieci anni fa- è diventato centrale nello scontro politico. Rapido, semplice, trasparente, facile da applicare e controllare rispetto ai complessi minimi contrattuali. Migliorerebbe soprattutto le paghe di donne e stranieri, le categorie più esposte allo sfruttamento (salvo che l’attuale Ddl proposto dalle opposizioni escluda dal salario minimo proprio il lavoro domestico). In altri Paesi il salario minimo non ha spiazzato né danneggiato la contrattazione (anche se neppure l’ha aiutata). Il 70% della popolazione italiana si dichiara ora a favore del salario minimo. Il problema però è che ogni Paese ha istituzioni diverse e quelle italiane sono uniche: gli effetti di un elemento nuovo come il salario minimo variano molto a seconda del contesto nazionale.
L’Italia ha una struttura salariale particolare, con tabelle dai tanti livelli di cui il più basso è usato poco, con voci aggiuntive come tredicesima e indennità varie. Non è chiaro quali voci verrebbero coperte dal salario minimo e quali no: tra la paga oraria e quella complessiva la differenza arriva a toccare il 20% (il Ddl delle opposizioni, per poter tenere insieme Calenda e la sinistra su un numero -i nove euro-, rimane ambiguo). E solo l’Italia ha un “combinato disposto” come gli articoli 36 e 39 della Costituzione. Il primo garantisce “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. I tribunali lo hanno interpretato come diritto ai minimi contrattuali, ma se arrivasse un salario minimo legale, l’orientamento potrebbe cambiare: se il salario minimo venisse a bastare come criterio di “sufficienza”, lavoratori e lavoratrici perderebbero il diritto ai salari stabiliti dai contratti collettivi (per la gran parte a livelli più alti), nonché i vari altri benefici ivi compresi. Guadagnerebbero un diritto nuovo per perderne tanti vecchi, e con poco effetto sulla povertà lavorativa che in gran parte è dovuta alla scarsità di ore lavorate (part-time involontario, lavoro intermittente) più che alla bassa paga oraria. È quindi indispensabile associare il salario minimo a norme che rendano i contratti obbligatori, ma qui si apre il problema dell’articolo 39 sulla libertà sindacale: “ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione, possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.

70%

La quota della popolazione italiana che si dichiara favorevole al salario minimo (Fonte: Istituto demoscopico Noto).

 

Mancando un sistema legale di registrazione e verifica della rappresentanza, la Corte costituzionale già nel 1962 dichiarò incostituzionale l’obbligatorietà per legge dei contratti. Tra i giuristi c’è chi ritiene che lo stesso accadrebbe per le recenti proposte di legge in merito, a meno che non si regoli legislativamente il sistema della rappresentanza sindacale. Le difficoltà non giustificano l’inerzia. La Direttiva Ue sui salari minimi adeguati richiede a tutti i Paesi di rafforzare la contrattazione e la qualità dei dati sulla sua copertura. L’Italia ha quindi l’obbligo di guardare in faccia il problema: la copertura contrattuale teoricamente al 100% o quasi nasconde malamente una realtà dove in alcuni settori esistono dumping salariale e paghe da fame. Si dovrà fare qualcosa. In Germania la strada per il salario minimo nazionale fu preparata dall’introduzione, anni prima, di salari obbligatori nei settori critici con molti lavoratori stranieri distaccati. Misure focalizzate sono più giustificabili costituzionalmente, e inizierebbero a smuovere l’Italia dal circolo vizioso di bassi salari e bassa produttività.

Questo articolo è stato scritto da Guglielmo Meardi per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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L’Europa a destra e il destino della transizione https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/leuropa-a-destra-e-il-destino-della-transizione/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/leuropa-a-destra-e-il-destino-della-transizione/#respond Wed, 17 Jul 2024 09:46:12 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8635 Ae n.272, luglio-agosto 2024

L’Europa a destra e il destino della transizione.

Gli equilibri a Bruxelles sono cambiati. Il nuovo Parlamento e la nuova Commissione saranno più tiepidi su clima e ambiente. La dimensione sociale è centrale

Il nuovo Parlamento europeo ha virato a destra. Tra i vincitori delle elezioni vi sono, infatti, molti dei partiti che compongono i due gruppi collocati alla destra dell’emiciclo: i Conservatori e riformisti europei (Ecr), la cui delegazione più numerosa è quella di Fratelli d’Italia, e Identità e democrazia (Id), guidata dal Rassemblement National di Marine Le Pen. Sommando i loro voti a quelli del gruppo del Partito popolare europeo (Ppe), con l’aggiunta di altri partiti “di area” -almeno temporaneamente relegati tra i “non-allineati” o senza una collocazione- circa la metà del Parlamento è rappresentata da gruppi o partiti di (centro)destra. Quali implicazioni possono avere i nuovi equilibri parlamentari sulle politiche relative alla transizione ecologica? La Commissione guidata da Ursula von der Leyen aveva assunto un forte impegno per politiche europee a contrasto del cambiamento climatico, descritto come “il compito che definisce la nostra generazione”. A partire dall’adozione del Green Deal europeo si sono susseguite importanti iniziative per realizzare la transizione verde, perseguita attraverso un mix di interventi legislativi, incentivi fiscali e investimenti.
Nel suo programma elettorale, però, von der Leyen ha parzialmente cambiato linea, sottolineando come la lotta al cambiamento climatico non possa diventare “una nuova ideologia”. Inoltre, nei dibattiti pre-elettorali, pur avendo fissato paletti imprescindibili come la posizione europeista, la salvaguardia dello stato di diritto e il sostegno all’Ucraina, la spitzenkandidat non ha escluso la possibilità di alleanze con alcuni partiti della destra radicale. Sulla transizione verde la posizione di questi ultimi è chiara: per Ecr deve essere fondamentalmente rivisitata, mentre l’opposizione di Id è netta. Quale futuro, dunque, per la transizione verde?
Una prima risposta a questa domanda arriva dall’analisi del comportamento di voto nella precedente legislatura. A partire dal Green Deal sino al voto sul Fondo sociale per il clima, si osserva l’occorrenza di varie coalizioni. Una coalizione ristretta ai gruppi che hanno sostenuto sin da principio von der Leyen (Ppe con S&D e Renew Europe) si riscontra solo in riferimento al voto sulla legge europea sul clima. La stessa maggioranza, allargata ai Verdi, ha caratterizzato il voto sul Green Deal. Una coalizione tendente a sinistra, in cui la maggioranza del gruppo Ppe si è astenuta, si è formata nel voto sulla comunicazione “Un’Europa sociale forte per la transizione ecologica”. Il voto sul Fondo sociale per il clima ha avuto invece un’ampia maggioranza, con l’opposizione di Id e l’astensione di Ecr (ma il voto favorevole di Fratelli d’Italia). Infine, il fondo per una transizione giusta ha registrato consensi quasi unanimi. Questi ultimi casi meritano un breve approfondimento. Il Fondo per una transizione giusta fornisce un supporto concreto -circa 50 miliardi di euro in sette anni- ai territori più vulnerabili agli impatti della transizione, in particolare quelli caratterizzati da un’economia fortemente basata sui combustibili fossili. Il Fondo sociale per il clima destina invece 65 miliardi di euro per finanziare interventi di compensazione per i consumatori a basso reddito e per le piccole aziende. Entrambi hanno quindi finalità eminentemente redistributive, a favore di quei territori e attori che sostengono i maggiori costi economici e sociali della transizione ecologica. Le politiche per la transizione verde hanno dunque avuto il sostegno di maggioranze mutevoli, ora più spostate a sinistra, ora ricomprendenti anche la destra radicale. I diversi equilibri nel nuovo Parlamento -oltre che, forse, una diversa maggioranza a sostegno della Commissione- potrebbero portare a posizioni più tiepide e/o a coalizioni più ristrette a favore della transizione verde. Tuttavia la dimensione sociale appare dirimente: quando vi sono risorse per compensare i “perdenti”, allora il consenso ricomprende anche i partiti di destra.

 

Questo articolo è stato scritto da Edoardo Bressanelli, Ivan Galligani e David Natali per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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Il ritorno della questione salariale https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/il-ritorno-della-questione-salariale/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/il-ritorno-della-questione-salariale/#respond Wed, 17 Jul 2024 09:03:37 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8628 Ae n.271, giugno 2024

Il ritorno della questione salariale.

In Italia gli stipendi e la produttività sono rimasti stagnanti negli ultimi trent’anni. Un circolo vizioso da cui uscire anche grazie a una ricerca di qualità e un dibattito meno polarizzato

C’è voluto il ritorno impetuoso dell’inflazione nel 2022 per risvegliare la politica e l’accademia da quasi tre decenni di torpore, in cui sul tema del lavoro le questioni “qualitative” (organizzazione, flessibilità, partecipazione, identità, etc.) sembravano aver soppiantato, anziché rimodellato, la vecchia questione salariale, il “bread and butter” delle relazioni sindacali. Si torna quindi ora alle basi, accorgendosi però che una generazione di politici, commentatori e funzionari di salari sa ormai pochissimo, intende “scala mobile” in senso letterale e non distingue le voci salariali nelle buste paga.
In un dibattito spesso polarizzato su posizioni unilaterali e poco difendibili tra chi pensa che il salario sia una variabile indipendente e chi pensa che lo sia la produttività, la ricerca seria mostra che le due siano interrelate e co-costitutive: il compito della ricerca è capire come questo avvenga e con quali possibilità di intervento (se ne è discusso molto in una vivace giornata organizzata dalla Società italiana di economia il 5 aprile scorso a Torino). L’approccio, di recente attualità, dei “modelli di crescita” suggerisce che la domanda interna e quindi i salari siano importanti soprattutto per Paesi come l’Italia, troppo variegati per poter specializzarsi su pochi settori di esportazione che facciano da traino per tutta l’economia. E il fatto che in Italia i salari e la produttività siano rimasti stagnanti negli ultimi trent’anni appare come un circolo vizioso da cui uscire.
Uscirne però è particolarmente laborioso in un Paese in cui la regolamentazione del salario è lasciata all’autonomia delle parti, tramite la contrattazione collettiva. Che però da trent’anni funziona su un modello (quello del Protocollo Ciampi del 1993) che non permette né di far fronte efficacemente al caro vita (l’Italia è uno dei Paesi europei con la maggior perdita di potere d’acquisto dei salari dal 2022), né di convincere la grandissima maggioranza di aziende, soprattutto piccole e medie, a trattare seriamente (e nella maggior parte dei casi, del tutto) con la controparte sindacale. Negli ultimi anni è poi emerso il problema dei cosiddetti “contratti pirata”, firmati da sindacati non rappresentativi, a volte di comodo e con salari più bassi. Anche se dai dati Cnel e Inps coprono non più del 3% delle forze lavoro, la semplice possibilità anche ipotetica che i datori di lavoro possano aggirare i contratti di settore aderendo a quelli “pirata” non può che indebolire i sindacati.

15/11/2024

Il termine dato agli Stati dall’Unione europea per conformarsi alla direttiva 2022/2041 del Parlamento europeo e del Consiglio sui salari minimi

La via giudiziale al diritto ai salari minimi contrattuali è opaca e richiede di andare in giudizio, cosa per lo più impraticabile per i più vulnerabili. A questo punto non solo i sindacati ma, per certi versi ancor di più, le associazioni datoriali vedono il loro ruolo in discussione e dovrebbero sentire il bisogno di ritoccare regole del gioco pensate per un’era diversa, prima dell’euro, prima della crisi energetica, prima dell’esplosione di settori (logistica, lavoro di cura, servizi di sicurezza, consegne) caratterizzati da concorrenza selvaggia tra le aziende e nuove, ancora deboli e frammentate identità lavorative. La Direttiva europea sui salari minimi adeguati del 2023 (di cui si è discusso in un convegno internazionale alla Scuola Normale Superiore a Firenze il 22 marzo di quest’anno) rivela un interessante rovesciamento rispetto alle sue politiche di dieci anni fa, che predicavano flessibilità e decentralizzazione della regolazione dei salari. Nonostante non comporti un obbligo di introdurre un salario minimo, costringerà anche la politica a occuparsi della questione, riferendo a Bruxelles ogni due anni sui minimi salariali e la loro copertura, e impegnandosi a migliorare i dati a proposito (articoli 4 e 10).

Questo articolo è stato scritto da Guglielmo Meardi per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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In Italia le politiche per l’abitare aumentano le diseguaglianze https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/in-italia-le-politiche-per-labitare-aumentano-le-diseguaglianze/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/in-italia-le-politiche-per-labitare-aumentano-le-diseguaglianze/#respond Wed, 17 Jul 2024 08:49:29 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8621 Ae n.270, maggio 2024

In Italia le politiche per l’abitare aumentano le diseguaglianze.

Pochi investimenti in edilizia residenziale mentre gli interventi fiscali a favore dei proprietari favoriscono le fasce più abbienti e danneggiano i giovani

Mentre infuriano le polemiche sul cosiddetto Superbonus, in Italia perdura l’assenza di un serio dibattito sulle politiche abitative. In verità, gli esperti hanno spesso cercato di stimolare la discussione pubblica, denunciando la mancanza di una politica per la casa nel nostro Paese. È davvero così? Non proprio, vediamo perché.
Da un lato i dati sono eloquenti nel mostrare lo scarso investimento pubblico volto a garantire una risposta ai bisogni abitativi, specie quelli delle fasce più deboli della popolazione. Eurostat certifica come nel 2021 in Italia la spesa pro-capite per le politiche sociali in questo settore fosse pari ad appena 11,50 euro, quasi dieci volte inferiore rispetto alla media europea (104,5 euro) e circa venti volte più bassa rispetto a Germania (199 euro) e Francia (210 euro).
Secondo una ricerca dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse, oecd.org) pubblicata nel 2023 a fronte di una media europea in cui otto case su cento sono in mano pubblica (mentre in Austria, Danimarca e Olanda sono venti su cento) in Italia sono poco più di due su cento: il divario tra domanda e offerta di edilizia residenziale pubblica è enorme. Inoltre il Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione è stato tradizionalmente sotto-finanziato e il Governo Meloni non ha perso l’occasione per depotenziarlo ulteriormente con l’ultima Legge di bilancio (la numero 213 del 2023). Una sorte simile ha avuto il Fondo morosità incolpevole -che sostiene i nuclei destinatari di sfratto perché non riescono a pagare il canone di locazione- le cui risorse sono state azzerate.
Siamo dunque fanalino di coda in Europa, non solo in quanto a (ir)rilevanza dell’edilizia pubblica, ma anche per ciò che concerne generosità e diffusione degli interventi diretti a sostenere le spese abitative di chi vive in affitto.
Vi è però anche l’altro lato della medaglia. Quegli interventi che utilizzano la leva fiscale nel campo delle politiche abitative: detrazione degli interessi sui mutui e per interventi di recupero del patrimonio edilizio (ristrutturazioni) ed esenzione dall’imposta sulla prima casa (Imu). Infatti, come riportato nel volume “La mano invisibile dello stato sociale” (Il Mulino, 2022) curato da Matteo Jessoula ed Emmanuele Pavolini, “quasi tutta la spesa in politiche abitative (98%) è veicolata tramite misure di welfare fiscale”, che sono rilevanti, costose (circa 13 miliardi di mancate entrate ogni anno) e, soprattutto, vanno a vantaggio dei proprietari di case (84%) e delle fasce più abbienti della popolazione.
Sostenere chi possiede case, erogare poco o nulla chi è in affitto e non finanziare l’edilizia pubblica ha drammatici effetti regressivi: sebbene la maggioranza degli italiani abbia un’abitazione di proprietà, l’affitto è infatti il titolo di godimento più diffuso tra le famiglie più povere e in questa situazione i bisogni abitativi sono sempre più diffusi.
Questo modello di politica della casa contribuisce a rendere l’Italia uno dei Paesi più diseguali in Europa e ha conseguenze specifiche per i “giovani”, che hanno maggiori difficoltà ad accedere all’edilizia pubblica e le cui condizioni abitative dipendono in gran parte dal nucleo di origine. Secondo un’indagine della Banca d’Italia (2016) il 16% delle famiglie ha ereditato la casa in cui vive, il 4% l’ha ricevuta in “dono” e l’8% vive gratuitamente in un alloggio di famiglia. A ciò va aggiunto il ruolo chiave di genitori e parenti nell’acquisto della prima casa o a sostegno dei costi d’affitto.
Fino a quando l’intervento pubblico si limiterà a sostenere i “proprietari” sarà difficile porre un freno alla riproduzione e alla trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze. Altrettanto complesso sarà favorire processi di emancipazione individuale nel Paese europeo in cui è più alto (dopo Croazia e Grecia) il numero dei giovani tra i 25 e i 29 anni che vivono con i genitori: il 71% contro una media del 42% nell’Unione europea.

 

Questo articolo è stato scritto da Marcello Natili e Matteo Jessoula per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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La mancata riforma delle Rsa, nonostante la pandemia https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/la-mancata-riforma-delle-rsa-nonostante-la-pandemia/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/la-mancata-riforma-delle-rsa-nonostante-la-pandemia/#respond Wed, 10 Apr 2024 15:39:54 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8572 Ae n.269, aprile 2024

La mancata riforma delle Rsa, nonostante la pandemia.

Tra marzo e aprile 2020 il Covid-19 ha causato più di 15mila morti nelle strutture. Anche se le condizioni restano difficili, chiuderle non è la soluzione

Inserita nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per rinnovare un sistema messo a dura prova dal Covid-19, la riforma della non autosufficienza è stata finalmente adottata nel 2023. Nello studio “Cronaca di una strage nascosta. La pandemia nelle case di riposo” (Mimesis, 2023) ho messo a fuoco i problemi che hanno avviato il processo di riforma, ricostruendo “la strage nascosta” nelle residenze sanitarie per anziani (Rsa) nei primi mesi della crisi sanitaria globale. Tra marzo e aprile 2020 le “morti in eccesso” registrate in queste strutture furono 15.600: un terzo dell’intera mortalità da Covid-19 in quel periodo. Colpisce che la contabilità di quei decessi fosse completamente sfuggita alle statistiche ufficiali, sulla cui base le autorità di governo presero le misure emergenziali durante le prime ondate pandemiche. Senza dati, quale politica fu possibile adottare? Come illustrato nel volume, in quei due mesi terribili il virus che si diffuse silenziosamente nelle case di riposo aggredì moltissimi residenti causando un numero estremamente elevato di decessi non registrati nelle statistiche ufficiali, provocando la protesta di parenti e lavoratori delle Rsa nonché, infine, l’apertura di varie inchieste giudiziarie (alcune delle quali ancora in corso). Solo il 5 aprile 2020, la “strage nascosta” irruppe sui media a seguito di un’inchiesta giudiziaria sul Pio Albergo Trivulzio, la più importante istituzione assistenziale di Milano. Come poté accadere? Non fu solo fatalità: in altri Paesi, in condizioni molto simili, i decessi furono molto meno. E colpisce
inoltre l’assenza di informazioni e conoscenze sulle Rsa prima e durante la pandemia. In questo quadro non stupisce che la regolamentazione emergenziale si sia dimostrata molto lacunosa: mentre in Italia chiudevano scuole e stadi, le residenze per anziani restavano aperte alle visite dei parenti; il turn-over degli operatori aumentava invece di ridursi; le mascherine non furono rese disponibili così come i test diagnostici, utili a curare i malati e proteggere i sani. La pandemia ha dunque messo a nudo la marginalità di queste strutture all’interno del Servizio sanitario nazionale,
nei rapporti di potere sbilanciati all’interno della governance delle decisioni pubbliche, a cui corrispondono inevitabilmente standard di qualità inadeguati, ridotti finanziamenti pubblici, assenza di controlli. Se oggi le vaccinazioni di massa hanno sventato il pericolo di nuove stragi, le condizioni di lavoro e di vita in queste strutture sono rimaste invariate, con livelli molto bassi di sicurezza e di qualità delle prestazioni. Né si è più parlato di una riforma delle case di riposo. Il Pnrr, la successiva Legge Delega sugli anziani e il decreto delegato approvato l’11 marzo 2024 sono state occasioni perse. L’idea oggi dominante è che sia stata proprio un’eccessiva “istituzionalizzazione” degli anziani ad aver contribuito alla strage e che la soluzione, dunque, stia nel chiudere
le case di riposo. In realtà, un ridimensionamento del sistema delle Rsa sarebbe un rimedio peggiore del male che si intende abolire. Per gran parte delle persone che vi risiedono (anziani over
85 afflitti da multi-morbilità o da disagio cognitivo) non esistono alternative reali perché la loro disabilità è troppo grave, i familiari non ci sono e altre soluzioni (inclusa la badante) non sono più possibili. Chi sostiene la necessità di chiudere queste strutture condanna molti anziani non autosufficienti a un ricovero improprio oppure obbliga le famiglie, quando presenti, a un surplus di cura e di sofferenza. Soprattutto, aumenta l’insicurezza dei più fragili, esposti alla mancanza di un’adeguata tutela sanitaria. Se qualcosa possiamo imparare dalla pandemia, per il nostro futuro e non solo per risarcire gli oltre 15mila morti, è di ridare valore al sistema delle residenze, fissando una responsabilità nazionale conseguente all’identificazione delle Rsa come Livello essenziale di assistenza.

 

Questo articolo è stato scritto da Costanzo Ranci per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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Non autosufficienza: la riforma (per ora) non si farà https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/non-autosufficienza-la-riforma-per-ora-non-si-fara/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/non-autosufficienza-la-riforma-per-ora-non-si-fara/#respond Wed, 10 Apr 2024 15:30:46 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8565 Ae n.268, marzo 2024

Non autosufficienza: la riforma (per ora) non si farà.

Tre aspetti centrali della legge delega non trovano attuazione adeguata nel nuovo decreto. Una situazione che si somma all’assenza di risorse finanziarie

La “Legge Delega per la non autosufficienza” (numero 33/2023) disponeva alcuni passaggi fondamentali: un sistema integrato (sanità e assistenza) di prestazioni long-term care (Ltc) dotato di una governance unificata e riconoscibile; un sistema di accesso e valutazione del bisogno unificato e standardizzato a livello nazionale; un nuovo servizio di assistenza domiciliare che superasse il dualismo tra servizi sanitari e assistenziali; la riforma dell’indennità di accompagnamento tramite l’introduzione di una “Prestazione universale” che doveva prevedere una graduazione della misura in base al bisogno e una “opzione servizi” in alternativa al semplice trasferimento monetario. Il decreto attuativo sviluppa l’avvio di un sistema nazionale di valutazione della non autosufficienza in grado di superare l’estrema frammentazione dei percorsi attuali di accesso alle prestazioni long-term care. La giungla infinita di procedure amministrative sarà superata da un nuovo sistema che prevede due soli passaggi: una valutazione nazionale sulla base di strumenti standardizzati e una regionale finalizzata alla stesura di un Piano assistenziale individuale. Gli altri tre aspetti centrali della riforma, invece, non trovano un’attuazione adeguata, a partire dalla costruzione di un sistema integrato. La legge di riforma, infatti, prevedeva l’istituzione del Sistema nazionale per la popolazione anziana non autosufficiente (Snaa) e una programmazione integrata di tutti gli interventi a titolarità pubblica. Il decreto ne riduce l’ambito agli interventi socioassistenziali, confermando il dualismo tra assistenza e sanità ereditato dal passato. Per quanto riguarda l’assistenza domiciliare, invece di integrare i servizi esistenti di carattere sanitario e sociale, il decreto si limita a prevederne il coordinamento, evitando di definire aspetti cruciali quali la durata dell’assistenza e le professionalità da coinvolgere. Non c’è stata la riforma dell’indennità di accompagnamento, che resta del medesimo importo, limitandosi ad avviare una sperimentazione biennale della nuova “Prestazione universale”: una misura aggiuntiva, pari a 800 euro mensili, a cui potranno accedere i beneficiari dell’indennità di accompagnamento over 80, in condizioni certificate come “gravissime” e con Isee inferiore a seimila euro annuali.

Il dispositivo fa un importante passo in avanti e due passi indietro. Da un lato, la “Prestazione universale” deve essere obbligatoriamente convertita in servizi di cura, anche forniti da una badante assunta regolarmente: non più cash, ma solo servizi. Dall’altro, nonostante la prestazione sia “universale”, l’accesso è consentito sulla base di una “prova dei mezzi”: un grave arretramento rispetto all’indennità di accompagnamento, che viene erogata indipendentemente dal reddito, riconoscendo il diritto alla cura come un bene primario di cittadinanza. Il secondo passo indietro è che la nuova misura è aggiuntiva dell’indennità e non prevede, come invece è scritto nella legge 33/2023, che questa venga riassorbita nella nuova misura. Prevedendo due opzioni -una cash, solo trasferimento monetario svincolato, come è attualmente, e l’altra cash for care, opzione servizi, con importo aumentato e utilizzabile solo per accedere a servizi di cura- la norma avrebbe creato le premesse per una forte crescita dell’offerta di servizi al posto del sistema attuale, fondato esclusivamente su trasferimenti monetari che lasciano la cura al “fai-da-te” delle famiglie.
Configurandosi invece come un’aggiunta per pochissimi, la “Prestazione universale” non potrà mai essere ampliata all’intera platea dei non autosufficienti, finendo per diventare un intervento di nicchia destinato ad aumentare la complessità del sistema. La legge 33/2023 sugli anziani aveva sollecitato molte aspettative sulla possibilità che trovasse sbocco la tanto attesa riforma del sistema italiano di long-term care. Il decreto attuativo, coniugato con l’assenza di risorse finanziarie allocate sulla non autosufficienza, segnala che la riforma annunciata per ora non si farà.

 

Questo articolo è stato scritto da Costanzo Ranci per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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Il nuovo assegno di inclusione farà crescere la povertà https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/il-nuovo-assegno-di-inclusione-fara-crescere-la-poverta/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/il-nuovo-assegno-di-inclusione-fara-crescere-la-poverta/#respond Wed, 10 Apr 2024 15:25:13 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8557 Ae n.267, febbraio 2024

Il nuovo assegno di inclusione farà crescere la povertà.

La riforma voluta dal Governo Meloni ha reso categoriale l’accesso al “reddito minimo”. Riducendo il numero di famiglie beneficiarie e gli importi medi. Pessima idea

Dal primo gennaio 2024 non esiste più il reddito di cittadinanza (Rdc), sostituito dall’assegno d’inclusione (Adi). Entrambe le misure sono dei “redditi minimi”, cioè prestazioni finalizzate al contrasto della povertà per coloro che soddisfano precisi requisiti relativi al reddito e al patrimonio familiare. Se si eccettua un vincolo di residenza in Italia particolarmente stringente (dieci anni di cui due continuativi), il Rdc era concesso a tutti i nuclei in condizione di bisogno (certificata tramite una “prova dei mezzi”) mentre l’Adi viene erogato solo a quelli in cui è presente almeno un componente nelle seguenti condizioni: minorenne, con disabilità, over 60 o inserito in programmi di assistenza dei servizi territoriali. Le altre famiglie “povere” non sono dunque ritenute meritevoli di sostegno; per loro l’unica prestazione prevista è un assegno mensile da 350 euro (“Supporto per la formazione e il lavoro”) di cui possono beneficiare per un massimo di 12 mesi, non rinnovabili, i membri che partecipino a una politica attiva del lavoro. La riforma voluta dal Governo Meloni ha dunque reso “categoriale” l’accesso al reddito minimo in Italia, al contrario di quanto avviene in altri Paesi dell’Unione europea dove il sostegno monetario ai poveri si basa sul principio dell’universalismo selettivo, in base al quale vengono tutelati tutti coloro che superano la prova dei mezzi, indipendentemente da ogni altra condizione (ad esempio, la composizione della famiglia). Inoltre, altre modifiche hanno reso più complicato soddisfare i requisiti di accesso anche per alcuni nuclei “meritevoli”: la soglia di reddito per chi vive in affitto è stata ridotta da 9.360 a 6.000 euro ed è stata modificata la scala di equivalenza, necessaria per valutare il reddito di nuclei di diversa dimensione, eliminando dal calcolo i componenti in età attiva (oltre il primo) che non hanno responsabilità di cura (ad esempio i figli di età inferiore a tre anni o di almeno tre minori). Ne discende un minor valore della scala, che rende più difficile rispettare il requisito di accesso e, anche quando lo si rispetta, comporta una riduzione della prestazione.
Al contrario, la riforma ha introdotto miglioramenti per le famiglie in cui sono presenti persone con disabilità e prevedendo la piena cumulabilità tra l’Adi e l’assegno unico per i figli, bambini con meno di tre anni o almeno tre minori. Negli altri casi la mancata considerazione dell’adulto nella scala di equivalenza compensa ampiamente il cumulo con l’assegno unico. Infine, il requisito di residenza in Italia è stato ridotto da dieci a cinque anni.
Questi cambiamenti causano una riduzione del numero di nuclei eleggibili al reddito minimo e, in media, una contrazione dell’importo delle prestazioni erogate, facendo così aumentare la povertà. Aspettative di questa natura sono chiaramente confermate dallo studio “La revisione delle misure di contrasto alla povertà in Italia” realizzato da tre ricercatori della Banca d’Italia (Giulia Bovini, Emanuele Dicarlo e Antonella Tomasi) che hanno simulato gli effetti distributivi della riforma.
I risultati sono eloquenti nella loro drammaticità. Il tasso di copertura potenziale del reddito minimo, ovvero il numero di nuclei che rispettano tutti i requisiti, si riduce del 43% e le famiglie eleggibili scendono da 2,1 a 1,2 milioni. Il numero di quelle escluse è elevato sia tra gli italiani (-40%) sia tra gli stranieri (-65%); questi ultimi, a fronte dell’allentamento del requisito di residenza, sono penalizzati dai requisiti categoriali dell’Adi. Infine il reddito del decile più povero diminuirebbe in media dell’11%. Tutto ciò ha chiari effetti sulla povertà: mentre il Rdc contribuiva a ridurre l’incidenza di quella assoluta fra le famiglie (dall’8,9% al 7,5%) la sostituzione con l’Adi dovrebbe far risalire questo valore all’8,3%. La povertà, già in forte crescita in Italia anche a causa dell’impennata inflazionistica, tenderà quindi ad aumentare anche a causa delle scelte dell’attuale governo.

 

Questo articolo è stato scritto da Michele Raitano per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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L’housing first nel Pnrr: tra innovazioni e occasioni mancate https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/lhousing-first-nel-pnrr-tra-innovazioni-e-occasioni-mancate/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/lhousing-first-nel-pnrr-tra-innovazioni-e-occasioni-mancate/#respond Wed, 10 Apr 2024 15:20:24 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8551 Ae n.266, gennaio 2024

L’housing first nel Pnrr: tra innovazioni e occasioni mancate.

Quelli che verranno messi in atto sono progetti di accoglienza temporanea per le persone senza dimora. Una proposta molto lontana dall’approccio originale

Con 450 milioni di euro e un target di 25mila persone in situazione di grave deprivazione materiale a cui offrire soluzione abitative, l’housing first è entrato a pieno titolo nella programmazione della missione 5 (“Inclusione e coesione”) del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). La decisione di inserire nel piano la protezione e il sostegno alle persone senza dimora in un’ottica di inclusione, invece che di mera assistenza, è senz’altro un importante risultato. Secondo l’ultimo censimento Istat, nel 2021 le persone senza tetto e senza dimora in Italia erano 96.197, concentrate soprattutto a Roma (23%), Milano (9%), Napoli (7%) e Torino (4,6%). Una fotografia, tuttavia, solo parziale del fenomeno della grave marginalità, a causa del criterio meramente amministrativo adottato, quello dell’iscrizione anagrafica. Si rimanda alla Federazione italiana organismi per le persone senza dimora (fio.PSD, fiopsd.org) per una spiegazione più approfondita della difficoltà nella raccolta dei dati su questo fenomeno. A lungo la grave marginalità delle persone in età adulta e la condizione dei senza dimora sono state assenti dall’agenda nazionale, affidando di fatto la responsabilità a livello locale. Solo nel 2016 il ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha messo a disposizione i primi 50 milioni di euro. L’approccio housing first (di cui avevamo parlato sul numero di gennaio 2022 di Altreconomia) innova radicalmente la tradizionale modalità operativa dei servizi sociali, offrendo prima di tutto un alloggio e un accompagnamento personalizzato. Risposte emergenziali come gli interventi limitati a mense e dormitori sono insufficienti e il periodo del lockdown ha reso ancora più evidente quanto sia importante avere una casa sicura in cui poter vivere stabilmente. Non è quindi un caso che un piano così ambizioso per le persone senza dimora sia emerso proprio in conseguenza alla crisi pandemica che ha enormemente complicato gli ingressi nei dormitori a causa del rischio contagi. Tutto bene dunque? Non proprio. Dai documenti del Pnrr emerge una commistione che non è solo linguistica: le espressioni housing temporaneo e housing first vengono utilizzate come sinonimi, sebbene rimandino ad approcci non omologabili.

Il secondo approccio, infatti, per sua natura non prevede un “termine” nell’accompagnamento e nella possibilità di usufruire di un alloggio. Anzi, proprio l’assenza di una scadenza del periodo di supporto ne è diventato l’elemento qualificante. Gli interventi finanziati dal Pnrr sono invece una forma di accoglienza temporanea, che fissa in 24 mesi il tempo massimo di utilizzo degli appartamenti messi a disposizione dai Comuni. La distanza tra i due approcci e la difficoltà per molti ambiti territoriali sociali di elaborare progetti coerenti con la metodologia dell’housing first sono emerse con particolare evidenza in fase di manifestazione di interesse per la presentazione dei progetti da finanziare. Dovendo scegliere tra avviare (o consolidare) progetti housing first oppure adottare soluzioni di housing temporaneo molti territori hanno infatti optato per questa seconda scelta, più vicina alle soluzioni tradizionali, e proprio per questo non comparabile a una metodologia efficace e validata da anni di studi ed esperienza sul campo. Oggi il Pnrr sta rappresentando, per molti territori, una sfida straordinaria per l’incentivo a studiare e mappare il fenomeno, programmare e progettare interventi, costruire alleanze strategiche tra enti pubblici territoriali e Terzo settore. Proprio per questo poteva rappresentare un’occasione preziosa per promuovere l’adozione diffusa dell’approccio housing first coerente con la metodologia originale.

Questo articolo è stato scritto da Francesca Campomori e Giuseppe Dardes per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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Per non rimanere senza casa e senza futuro https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/per-non-rimanere-senza-casa-e-senza-futuro/ https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/per-non-rimanere-senza-casa-e-senza-futuro/#respond Wed, 27 Dec 2023 10:58:57 +0000 https://osservatoriocoesionesociale.eu/?p=8482 Ae n.265, dicembre 2023

Per non rimanere senza casa e senza futuro.

Solo il 20% della popolazione vive in affitto, ma qui si concentrano le fasce più vulnerabili. Manca una politica pubblica e investimenti coerenti sull’abitare

 

Quando parliamo di questione abitativa facciamo riferimento a una molteplicità di istanze e bisogni che si articolano attorno alla casa, che comprendono sia l’adeguatezza dell’alloggio sia la qualità del contesto territoriale in cui è inserito. L’espressione sottolinea inoltre il disagio vissuto da quanti non trovano risposte in termini di sostegno all’accesso alla abitazione. In Italia la questione abitativa era già (ri)emersa negli anni Duemila e si è acuita con la crisi economica e occupazionale innescata dalla pandemia da Covid-19. Alle situazioni di fragilità a cui tradizionalmente erano rivolte le politiche della casa se ne sono aggiunte di nuove e diversificate, che hanno riguardato fasce più ampie di popolazione per le quali le condizioni abitative e gli oneri economici connessi all’abitare rappresentano un fattore di vulnerabilità sempre più rilevante.
Alcune cifre possono essere utili a inquadrare la situazione. In Italia il 70,8% delle famiglie vive in una casa di proprietà, il 20,5% in affitto e l’8,7% dispone di un’abitazione in usufrutto o a titolo gratuito. Questo dato -che apparentemente può risultare neutro o essere letto come un indicatore di benessere- in realtà nasconde una serie di contraddizioni. In primo luogo, perché non dice nulla dei valori immobiliari, profondamente diseguali sul territorio italiano: tra centro e periferia, tra città e aree rurali, tra Nord e Sud del Paese.
Allo stesso tempo fa emergere quanto la proprietà privata sia stata incentivata sia rispetto all’affitto, sia agli investimenti pubblici. Questi ultimi non si traducono solo nella realizzazione di robusti programmi di edilizia residenziale pubblica per le fasce deboli della popolazione, ma un più generale investimento statale nell’abitare utile a controbilanciare il mercato privato delle locazioni.
Analizzando invece i dati sull’affitto, vediamo innanzitutto che è diffuso soprattutto tra i nuclei meno abbienti: il 31,8% nel quintile più povero. Chi paga un canone di locazione sono soprattutto le famiglie di più recente costituzione, il 35,5% di quelle in cui il principale percettore di reddito è disoccupato e il 68,5% di quelle in cui è presente almeno un cittadino di origine straniera. Un dato che sale al 73,8% per le famiglie composte interamente da stranieri, tra le quali poco più di una su dieci vive in una casa di proprietà.

2,5
Milioni di famiglie spendono per le spese relative all’abitare una quota di reddito pari o superiore al 40%.

 

L’incidenza delle spese per l’abitazione è ovviamente più alta per chi vive in affitto, arrivando a quasi un terzo del reddito (27,9%). Le famiglie “in sovraccarico”, quelle per cui questa incidenza è uguale o superiore al 40%, sono quasi 2,5 milioni, pari al 9,9% del totale a livello nazionale.
In questo contesto dobbiamo poi aggiungere il fatto che dalla fine degli anni Settanta si è sostanzialmente chiusa la stagione dell’edilizia residenziale pubblica, che oggi conta un totale di circa 800mila alloggi. Appena il 4% del patrimonio abitativo nazionale, molto al di sotto rispetto ad altri Stati europei: in Francia la quota è del 16%, nel Regno Unito del 17,6% mentre in Paesi come l’Olanda o l’Austria supera il 20%. Al contesto italiano bisogna poi aggiungere il fatto che di tutto il patrimonio pubblico utilizzabile solo l’86% è assegnato (una quota significativa è infatti sfitta o occupata abusivamente) e più di un appartamento su due tra quelli utilizzati richiederebbe interventi di riqualificazione.
Un tale scenario impone l’esigenza di una rinnovata attenzione pubblica e robusti investimenti sull’abitare, in un contesto in cui l’emergenza abitativa tocca nuove fasce, come ci ha ricordato lo slogan del recente movimento degli studenti universitari contro il caro affitto: senza casa, senza futuro.

 

Questo articolo è stato scritto da Sonia Paone per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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