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Ae n.242, novembre 2021

Come riportare equità nel sistema pensionistico italiano.

I severi criteri di accesso al pensionamento hanno colpito le fasce più svantaggiate. Che cosa fare dopo la fine del meccanismo “Quota 100”

Il Governo Draghi, e verosimilmente i successivi, dovrà affrontare un’importante questione in campo previdenziale: come assicurare un equo accesso al pensionamento per i lavoratori prossimi alla quiescenza dopo la fine di “Quota 100”, il 31 dicembre 2021, che riporterebbe le lancette dell’età pensionabile al 2019 e alle severe condizioni dettate dalla riforma Fornero-Monti. L’osservazione dei dati comparati contenuti nel Pension adequacy report 2021 della Commissione europea fa cogliere l’origine del problema. È noto che, per decenni, l’Italia ha mantenuto regole “morbide” e a volte inique -come le “baby pensioni” per i dipendenti pubblici- che hanno consentito il pensionamento ben prima che negli altri Paesi europei. Tutto ciò è ormai un lontano ricordo. Le riforme Sacconi (2009 e 2010) e Fornero-Monti (2011) hanno ristretto severamente le condizioni di accesso alla pensione portando l’età pensionabile italiana al livello più alto d’Europa: 67 anni contro i 65 e 9 mesi in Germania, 66 e 2 mesi in Francia, 65 in Austria, Belgio e Polonia. Inoltre Francia e Germania consentono strutturalmente il pensionamento anticipato rispettivamente a 62 anni e 63 anni e 10 mesi, mentre la Svezia permette il pensionamento “flessibile” nella fascia 62-68 anni. Non solo, anche l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro (tipicamente più bassa dell’età legale di pensionamento per via dei canali di uscita anticipata) è tra le più elevate d’Europa: 65,2 anni per gli uomini, 65,8 anni per le donne nel 2019, in linea con i Paesi scandinavi (Danimarca: 65 anni gli uomini, 64,1 le donne; 65,6 e 64,5 in Svezia) e sensibilmente più alta di Germania (64,7 e 64,5) e Francia (62,3 e 62,2). Requisiti di pensionamento così stringenti pongono almeno tre tipi di problemi. In primo luogo l’incremento dei disoccupati nella fascia d’età 50-64 anni, dalle 128mila unità del 2007 alle 539mila del 2018, con il relativo tasso di disoccupazione che ha raggiunto il 6% nel 2019 mentre è al 2,5% in Germania e al 3,3% in Danimarca. È un fenomeno nuovo e preoccupante per l’Italia per via delle peculiarità di questi lavoratori, spesso capifamiglia e con scarse possibilità di trovare un’occupazione regolarmente retribuita dopo i 55 anni.

65,8 anni

L’età media di uscita dal mercato del lavoro delle donne in Italia.

Secondo: la riduzione della durata media del pensionamento di oltre quattro anni tra il 2008 e il 2018 è avvenuta a fronte di un incremento modesto (un anno) dell’aspettativa di vita a 65 anni nello stesso periodo e soprattutto della stabilità, nell’ultimo quindicennio, del numero di “anni attesi in buona salute” (circa 10) una volta raggiunti i 65 anni: criticità evidenti emergono nel rapporto tra durata della vita lavorativa e durata della fase di quiescenza in buona salute, specie
per le categorie sociali con minore aspettativa di vita. Terzo: numerosi studi hanno messo a fuoco come, anche in Italia, le
differenze nell’aspettativa di vita a 65 anni sono significative e raggiungono i 3-5 anni a sfavore degli individui nella classe
sociale più svantaggiata. Se osservato rispetto all’elevata età di pensionamento, tale differenziale indica il chiaro profilo
regressivo delle regole previdenziali italiane a danno degli individui con condizioni di vita e lavoro meno favorevoli. Ammorbidire le condizioni di accesso al pensionamento è dunque auspicabile se si vogliono perseguire coesione ed equità sociali, contrastando le criticità causate dalle riforme precedenti sul mercato del lavoro e aggredendo l’iniquità delle condizioni attuali.

Questo articolo è stato scritto da Matteo Jessoula per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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