altreconomia_febbraio

Ae n.236, aprile 2021

I “Bocconi boys” e il Piano nazionale di ripresa e resilienza.

L’esecutivo Draghi sposta il baricentro politico verso destra e il Nord. Dalla gestione dei fondi europei, non c’è da aspettarsi alcun epocale cambiamento

Il settimanale The Economist scrive come l’Italia sia sotto l’effetto di un “triple whammy”: il debito pubblico elevatissimo e un quarto di secolo di stagnazione economica rendono il Paese un pericolo per la stabilità dell’Eurozona. La chiave del declino economico dell’Italia sta nella graduale perdita di competitività. La decelerazione della produttività totale dei fattori dagli anni 80 in poi e il calo dello 0,46% all’anno nel periodo 2000-2007 secondo Ocse, rappresentano un enigma per gli economisti. Soprattutto la perdita di produttività del capitale: come fanno le imprese a disimparare quello che sapevano fare in precedenza? Alcuni (Pellegrino e Zingales, “Nnber Working Paper”, 2017) puntano il dito sulla classe dirigente: i manager bravi, in Italia, sono quelli che si sanno districare nei meandri burocratici e che sanno procacciare finanziamenti in un mercato dove le conoscenze valgono più dei piani di investimento. Tale destrezza è stata un’arma a doppio taglio: tra le altre mancanze, i capitani d’industria hanno perso il treno della recente rivoluzione tecnologica. Cade a proposito il Next Generation Eu che assegna all’Italia 209 miliardi di euro tra sovvenzioni e prestiti per affrontare, in primis, la “transizione verde” e la trasformazione digitale. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) deve tenere in considerazione le raccomandazioni specifiche per il Paese, pubblicate dalla Commissione europea, che vertono su temi come l’investimento in ricerca e innovazione e la digitalizzazione della pubblica amministrazione. Ambiti in cui il legislatore italiano si è arenato in un “equilibrio di riforme parziali” dove, come scrive Capussela (Einaudi, 2021), gruppi d’interesse afferenti a svariate categorie hanno bloccato, rallentato o stravolto le riforme. Il Pnrr approvato dal governo Conte II è sprofondato nelle stesse sabbie mobili: ha scarsa legittimità nell’input -troppi progetti sono stati tirati giù dai polverosi scaffali del Mise-, nella formulazione e nell’output. Se alcune sviste fanno sorridere, altre meno come l’assenza di un cronoprogramma e la dispersione dei fondi in progetti disconnessi. Il fatto che non sia peggio di quelli presentati dagli altri Paesi membri non è una scusante, visto che il Pnrr italiano è di gran lunga più importante. Se non fu la ragione per la caduta del governo giallo-rosso, funse da buon pretesto.

23%

La riduzione del Prodotto interno lordo pro capite italiano rispetto a quello tedesco dal 2000 al 2020

L’esecutivo guidato da Mario Draghi sposta il baricentro politico verso destra, rispolvera i “Bocconi boys” quali Francesco Giavazzi e riporta le redini della politica economica a Nord. C’è quindi da aspettarsi cambiamenti epocali nella gestione dei finanziamenti europei? La risposta è probabilmente no. Né proceduralmente, dato il poco tempo a disposizione, e forse nemmeno sostanzialmente. Da un lato, l’austerità espansiva è sparita dal lessico dell’Ue ed è poco compatibile con il “debito buono” auspicato da Draghi. Dall’altro, la condizionalità è nelle mani della Commissione, la cui politica di convergenza è improntata al rilancio delle zone depresse come il Mezzogiorno. Se un rafforzamento anche incrementale del Pnrr sarà benefico, gli interventi per dar fiducia agli investitori sono tre: velocizzare il sistema giudiziario, rafforzare la pubblica amministrazione e riformare il fisco favorendo l’occupazione. Proprio una riforma fiscale organica, che ripristini la progressività dell’Irpef stravolta da bonus vari, e che riduca l’imposizione sul lavoro, avrebbe un effetto propulsivo per la crescita. Essa è stata finora stimolata attraverso aumenti di spesa, misure espansive che spesso hanno prodotto effetti recessivi e ingigantito il “debito cattivo”.

 

Questo articolo è stato scritto da Igor Guardiancich per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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