Ae n.251, settembre 2022

La sinistra e la lotta alla precarietà, che cosa insegna il caso spagnolo.

Il governo Sánchez ha ridotto la disoccupazione e aumentato i redditi grazie al salario minimo. Un esempio per l’Italia

Per oltre trent’anni, politiche di impianto neoliberista hanno radicalmente trasformato il mercato del lavoro in numerosi Paesi europei tramite misure di flessibilizzazione, deregolamentazione e deflazione che hanno ridotto la sicurezza dell’impiego e aumentato la precarietà dei lavoratori.
In Italia le riforme che hanno flessibilizzato il mercato del lavoro e contenuto l’incremento delle retribuzioni sono state quasi tutte promosse da governi di centro-sinistra, o comunque guidati dal Partito democratico (2012 e 2015, prima Pds nel 1997): un paradosso che la scienza politica cattura con l’espressione Nixon goes to China.
Anche oggi, stretto fino allo scorso luglio nell’abbraccio letale dei partiti della destra a sostegno del Governo Draghi, il centro-sinistra italiano arranca, incapace di formulare e perseguire una proposta e una visione realmente alternativa: sono state nominate diverse commissioni di studio -su riforma degli ammortizzatori sociali, lavoro povero, reddito di cittadinanza- ma le raccomandazioni degli esperti sono rimaste al momento inascoltate.
Fortunatamente per i destini della sinistra in Europa, la sindrome italiana non pare contagiosa, nemmeno nei Paesi del Sud. Il caso più emblematico è la Spagna, dove dal 2019 il Partito socialista governa in coalizione con l’alleanza Podemos-Izquierda Unida.
Negli ultimi tre anni l’esecutivo spagnolo ha infatti ridato centralità alla negoziazione tripartita, firmando 13 accordi con sindacati e imprenditori su questioni importanti come salario minimo e riforma del mercato del lavoro.
Circa le retribuzioni minime, gli accordi promossi dalla ministra Yolanda Díaz Pérez hanno dato nuovo slancio alle politiche timidamente avviate dai governi precedenti: dopo lo storico aumento del 22% del salario minimo nazionale nel 2019, lo stesso è stato fissato a 950 euro lordi al mese (per 14 mensilità) nel 2020, a 969 euro nel 2021 e a 1.000 euro nel 2022.
L’obiettivo è raggiungere il 60% del salario medio alla fine del 2023. Piú di due milioni di persone hanno beneficiato di questi aumenti e si è registrato un consistente incremento dei redditi fra i lavoratori dei decili salariali più bassi: la percentuale delle famiglie con redditi inferiori a 1.000 euro mese infatti è passata dal 19,7% nel 2018 al 14,8% nel 2021, mentre il divario di genere si è ridotto di quasi tre punti percentuali.
Altrettanto importante, non si sono registrati effetti negativi sul mercato di lavoro, che anzi sembra entrato in un momento d’oro: la disoccupazione ha raggiunto il livello più basso dal 2008 riducendosi di più di 1,1 milioni di unità negli ultimi 16 mesi e scendendo sotto i tre milioni per la prima volta dal 2008. Il tasso di disoccupazione è passato dal 16,3% di dicembre 2020 al 13,1% di maggio 2022.
In questo quadro, a gennaio 2022 il governo ha varato un’importante riforma del mercato del lavoro che mira a trasformare un modello fortemente segnato dalla precarietà tramite: penalizzazioni economiche per i contratti di breve durata, eliminazione delle forme di impiego che consentivano di mascherare da lavoro autonomo forme di lavoro dipendente, introduzione di stringenti causali per attivare contratti a tempo determinato nonché forti penalità in caso di infrazione, definizione di nuove regole volte a impedire forme di dumping salariale nei casi di subappalto ed esternalizzazione dei servizi, rilancio della contrattazione collettiva a livello settoriale, anche ripristinando il periodo di validità degli accordi collettivi dopo la scadenza degli stessi. I primi risultati della riforma sono spettacolari: in soli sei mesi il numero dei nuovi contratti a tempo indeterminato è quadruplicato, passando dal 10% al 50% del totale.

 

Questo articolo è stato scritto da di Matteo Jessoula e Pablo Bustinduy per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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