La prospettiva immaginata nel 1993 della doppia pensione -pubblica e integrativa- mostra evidenti debolezze sul piano dell’equità.

 

Venticinque anni fa il governo Amato lanciava il piano di riforma del sistema pensionistico italiano. Una delle idee di fondo era che -per contenere la spesa pensionistica- gli individui entranti sul mercato del lavoro a partire dagli anni 90 avrebbero dovuto contare, al momento del pensionamento, su una doppia rendita pensionistica: quella pubblica, di importo ridotto rispetto al passato, e quella privata erogata dalle forme di previdenza complementare previste proprio dalla riforma Amato (1993). Data la limitatezza delle risorse disponibili, corollario fu la scelta di prevedere per i lavoratori dipendenti (nel settore privato) il trasferimento integrale del TFR ai fondi complementari in caso di adesione a questi ultimi. La combinazione delle due pensioni avrebbe così potuto garantire il mantenimento di livelli elevati di reddito pensionistico anche nei decenni a venire.

I lavoratori a cui si rivolgeva la riforma inizieranno ad andare in pensione tra circa un quindicennio: a ormai un quarto di secolo dalla riforma, a che punto siamo con l’attuazione di quel piano? I dati disponibili sono tutt’altro che rassicuranti. Se è vero che le risorse mobilitate dai fondi pensione sono ingenti -14 miliardi di euro l’anno, oltre 150 miliardi di euro il patrimonio destinato alle prestazioni- le cifre relative agli aderenti mostrano criticità. In primis, gli iscritti alle varie forme di previdenza complementare (fondi chiusi, fondi aperti, polizze individuali pensionistiche, ecc..) sono soltanto 7,2 milioni rispetto a 23 milioni di occupati totali. I tassi di adesione sono modesti, e variano tra circa il 30% per i dipendenti privati, al 21% tra gli autonomi, mentre la previdenza complementare è sconosciuta nel comparto pubblico, 194.000 adesioni su oltre 3 milioni di addetti.

Il quadro è eterogeneo anche osservando il settore privato: i tassi di adesione sono molto elevati (anche oltre l’80%) tra i dipendenti delle grandi imprese -specie nei settori industriali “forti” (energia 90%, chimico 78%)- mentre sono modesti (inferiori al 10%) nelle piccole aziende del comparto “commercio-turismo-servizi”. Ancor più rilevante è, infine, che la previdenza complementare sia appannaggio dei lavoratori dipendenti assunti con contratto a tempo indeterminato. In questo quadro, se si osserva l’interazione tra il sistema pensionistico pubblico e la previdenza complementare si delineano due gruppi di lavoratori e un effetto perverso. Il primo gruppo è rappresentato dai lavoratori “standard” delle grandi imprese, nei settori economici forti, che sono tipicamente iscritti ai fondi complementari e per i quali è ancora ipotizzabile prevedere carriere lavorative lunghe, poco frammentate e con salari adeguati: per questi lavoratori il contributo pensionistico complessivo (previdenza pubblica e complementare) è al 43% e le pensioni future genererebbero, all’età legale di pensionamento, tassi di sostituzione elevatissimi, al 90-100% secondo le stime della Ragioneria generale dello Stato. Il secondo gruppo comprende, invece, quegli individui che presentano, per lunga parte della vita lavorativa, carriere frammentate e poco remunerate. Questi riceveranno una pensione pubblica d’importo molto inferiore, che necessiterebbe sì di un’integrazione da fonte complementare: tuttavia, i lavoratori con carriere intermittenti e svantaggiate non aderiscono alla previdenza integrativa. Alla perdita di efficienza dovuta all’elevata aliquota contributiva per i lavoratori del primo gruppo si accompagna la bassa efficacia nella tutela di quelli del secondo, con effetti insoddisfacenti sul piano dell’equità.

 

Questo articolo è stato scritto da Matteo Jessoula per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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