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Sì, ma il problema esiste, ed è serio, per chi dovesse avere una carriera lavorativa svantaggiata, in particolare chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995.

Da quando, nel 1995, il sistema previdenziale italiano ha iniziato ad abbandonare, con estrema gradualità, il metodo retributivo per sostituirlo con quello contributivo, la sfiducia dei più giovani verso il futuro da pensionati è aumentata, come conferma il sentire comune in base al quale “saremo costretti a passare una vecchiaia in povertà, visto che le nostre pensioni saranno da fame”. Ma quanto è motivato questo sentire comune? E come si potrebbero migliorare le attese dei futuri pensionati?

Nel contributivo l’importo delle prestazioni dipende dal montante accumulato “virtualmente” (non essendo i contributi effettivamente accumulati) dagli individui -cioè dai contributi versati e dal rendimento su questi contributi (legato al tasso di crescita del Pil)- e dai cosiddetti coefficienti di trasformazione. Questi coefficienti, basati sulla vita media attesa all’età di pensionamento, convertono il montante in una rendita mensile, in modo che chi si ritirerà più tardi riceverà una prestazione più elevata, dato che la otterrà, in media, per un minor numero di anni.

Il contributivo può essere ritenuto uno specchio di quello che accade agli individui nel mercato del lavoro: l’importo della pensione dipenderà, infatti, dalla crescita del Pil, dall’età in cui ci si ritira e dall’interazione, durante la carriera lavorativa, di aliquote di contribuzione, periodi lavorati e retribuzioni (su cui incidono anche i lavori part-time). L’aumento dell’età pensionabile consente dunque di accrescere l’importo della pensione per effetto di più elevati coefficienti di trasformazione, oltre che dell’eventuale maggiore durata della vita lavorativa, che comporterebbe una più elevata accumulazione contributiva. Con carriere “piene” e lunghe (circa 40 anni di contributi) il rapporto fra pensione e ultima retribuzione sarebbe simile (attorno all’80% netto) a quello dello schema retributivo e non sarebbe necessaria alcuna integrazione da parte dei fondi pensione privati.

Va dunque smentito il luogo comune del “tutti avremo pensioni da fame”.

Nessun problema, quindi? Tutt’altro. Il problema esiste, e grave, per quelle persone che dovessero avere una carriera svantaggiata, rischiando di ritrovarsi con un montante particolarmente esiguo anche dopo decenni di vita attiva. Non sappiamo quanto numerose saranno in futuro queste persone, ma il problema di limitati versamenti nella prima fase della carriera riguarda un’ampia quota di chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995. Per questi lavoratori, peraltro, la previdenza privata non può rappresentare una risposta; appare infatti poco plausibile che un lavoratore povero risparmi parte della retribuzione per garantirsi un maggior consumo da anziano. In realtà, i rischi di pensioni inadeguate non dipendono dal contributivo in sé, ma dalla coesistenza di rigide regole con un mercato del lavoro incapace di garantire a troppi lavoratori carriere dignitose. Il contributivo può costituire una buona cornice per definire le regole di fondo del sistema previdenziale. La sua applicazione non implica però che non ci si possa distanziare parzialmente dalle sue regole rigide per introdurre una “pensione di garanzia”, ovvero una prestazione, legata alla durata della carriera individuale, che consenta, a chi dovesse sperimentare carriere particolarmente sfavorevoli, di non ricevere una pensione inferiore ad un importo ritenuto socialmente accettabile.

 

Questo articolo è stato scritto da Michele Raitano per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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