Ae n.206, luglio 2018

In un Paese dove crescono disaffezione e sfiducia verso le istituzioni, il volontariato mostra una fortissima vitalità e rappresenta ormai in Italia l’unica forma di partecipazione associativa in forte e costante diffusione, perlomeno se confrontata con le altre modalità tradizionali di impegno comunitario di questo tipo (partiti, sindacati, etc.). Dagli anni 80, le organizzazioni di volontariato in Italia sono quasi raddoppiate, passando da poche migliaia alle oltre 45.000 di oggi.
La percentuale di persone che fanno volontariato dentro un’organizzazione rispetto al totale della popolazione almeno quattordicenne è passata da circa il 7% nei primi anni 90 ad oltre 10% a metà dell’attuale decennio: tale incremento percentuale corrisponde in termini reali ad un aumento dei volontari da circa 3,3 milioni a 5,5 milioni. L’Istat ha stimato anche la presenza di persone che individualmente, quindi non dentro organizzazioni, svolgono attività di volontariato. Se si tiene conto anche di questa forma di azione gratuita si superano i 6,6 milioni di volontari in Italia.
Non vi è nessun profilo di residente in Italia (socio-demografico, socio-economico o culturale) per il quale non si registri un tasso maggiore di partecipazione passando dai primi anni 90 alla metà dell’attuale decennio. Si profilano come rilevanti l’impegno per la promozione sociale e il cosiddetto “attivismo civico”. Essere volontari significa, inoltre, per molti un impegno non irrilevante: in media chi dona gratuitamente il proprio tempo è impegnato per circa 16-20 ore al mese.
La nostra ricerca (“Volontariato e innovazione sociale oggi in Italia”, Bologna, il Mulino, 2017) offre un quadro del contesto in cui operano le organizzazioni di volontariato e del valore polisemico dell’azione volontaria nel nostro Paese.
Si conferma l’esistenza di una forte correlazione positiva fra attività di volontariato e partecipazione socio-politica. Se passiamo poi dal rapporto fra volontariato e partecipazione socio-politica, alla relazione fra il primo ed un’altra dimensione della civicness, e cioè la fiducia, il quadro diventa più sfaccettato.
Molti volontari ritengono che il loro livello di partecipazione socio-politica e di fiducia negli altri sia aumentato grazie all’esperienza di volontariato, anche se rimane bassa; bassissima verso le istituzioni. Appare in crisi la dimensione “politica” delle organizzazioni ed emerge invece in forma non trascurabile un forte spirito “adattivo”, generato dal bisogno di continuare ad assicurare i servizi in un quadro di welfare pubblico in affanno, sovente in ritirata e di una domanda sociale in forte crescita. Spesso gli stessi connotati organizzativi spingono verso approdi diversi, quali ad esempio l’impresa sociale. A
nche il fare volontariato mostra una fenomenologia articolata: le forme di volontariato “puro” basato sulla totale gratuità della propria azione vengono affiancate da altre modalità in cui il confine fra “rimborso spese” e “mini compensi” spesso appare di assai difficile identificazione. La posta in gioco è molto alta: in contesti di crisi economica e di difficoltà ad accedere al mercato del lavoro il principio della gratuità, ovvero l’essenza dell’azione volontaria, appare messo in discussione. E le forme di “ibridazione” organizzativa e valoriale emerse nel corso della nostra ricerca pongono seri interrogativi sulle capacità innovative del volontariato. In sua assenza, le fratture sociali e le tensioni sarebbero senz’altro più acute.

Questo articolo è stato scritto da Ugo Ascoli e Emmanuele Pavolini per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

Scarica l’articolo in pdf

 

 

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *