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NOTA n.2 – Giugno 2023 – Di Manos Matsaganis, Politecnico di Milano

Le elezioni politiche dello scorso 21 maggio hanno confermato che la Grecia viaggia in un’altra dimensione rispetto agli anni terribili della crisi (2010-2018) – quando l’economia è diminuita di un quarto del Pil, la famiglia media ha perso quasi un terzo del suo potere d’acquisto, e la disoccupazione è salita alle stelle (arrivando al 28.7% della forza lavoro nel novembre 2013). Ora l’economia corre più veloce della media europea, le esportazioni registrano un vero e proprio boom, e la disoccupazione è scesa al 11,2%.
Rinascita economica, crescita vigorosa e prosperità ritrovata: questi sono i temi enfatizzati dal discorso del governo di Kyriakos Mitsotakis, il più liberale di tutti i leader del partito conservatore fin dalla sua fondazione nel 1974. Il suo successo alle urne (40,8%, rispetto al 39,9% del 2019), superiore perfino alle sue aspettative, fa pensare che gli elettori abbiano premiato i risultati economici, la cultura liberale rispetto ai temi sociali (si pensi alla valorizzazione della comunità Lgbtq+), e la competenza (mostrata nella gestione della pandemia). Al contrario, la batosta elettorale del partito di Alexis Tsipras (20,1%, contro il 31,5% di quattro anni fa) sembra dimostrare che gli elettori si siano stancati definitivamente della retorica demagogica che aveva fatto la fortuna elettorale del partito di sinistra radicale (e dei suoi alleati della destra nazionalista) negli anni più bui della crisi.
Quel che rende il successo elettorale del centrodestra così sorprendente è che si sia verificato nonostante i numerosi momenti di grossa difficoltà per il governo in carica negli ultimi anni. Lo scandalo delle intercettazioni ha rivelato una gestione della cosa pubblica tutt’altro che trasparente. L’incidente ferroviario dello scorso marzo costato la vita a 57 persone ha dimostrato che, sotto la patina della digitalizzazione, le aziende partecipate (come quasi tutta l’amministrazione pubblica) sono ancora rimaste all’età del bronzo. Al contrario, la gestione miope e disumana dei flussi migratori non è materia di dibattito politico, giustificata dalla maggioranza dell’opinione pubblica dalla minaccia crescente della Turchia di Erdogan (“Verremo di notte”), e il suo utilizzo della migrazione come arma contro la Grecia e l’Europa. Ma a destare preoccupazione a chi scrive è anche il punto forte della narrazione del governo uscente, con buona possibilità di riconferma dopo le nuove elezioni del 25 giugno (dettate dall’impossibilità di formare un governo): la ripresa economica.

Luci …

La narrazione ottimista sull’andamento dell’economia non è priva di fondamento. La pandemia ha penalizzato l’economia greca più di altre meno dipendenti al turismo, ma la ripresa dopo le misure di confinamento è stata davvero vigorosa. Le buone notizie abbondano. Le ultime due stagioni turistiche sono state da record in termini di numero di visitatori e di incassi. Microsoft e Google hanno avviato investimenti in cloud computing (erogazione tramite internet di servizi di archiviazione, elaborazione e trasmissione dati). Il gigante farmaceutico Pfizer, forte del successo del suo vaccino anti-Covid, ha inaugurato un centro di ricerca a Salonicco, dove è nato e cresciuto il suo amministratore delegato Albert Bourla. Sorprendentemente, il paese sta emergendo come centro di produzione televisiva e cinematografica, come visto in Teheran, la serie israeliana creata da Moshe Zonder e distribuita da Apple TV+, girata largamente ad Atene, oppure in Triangle of Sadness, il film di Ruben Östlund, girato nel Mar Ionio e sulle spiagge di Eubèa. Dopo anni di miseria, sono notizie importanti, che offrono occasioni preziose di stabilire contatti, acquisire nuove competenze, creare posti di lavoro di alta qualificazione.
Per quanto riguarda gli indicatori che avevano tanto spaventato i mercati nel 2010, la situazione è oggi nettamente migliorata. Il disavanzo pubblico (2,3% del Pil nel 2022) è sotto la media della zona euro (3,6%), e molto più basso di quello italiano (8,0%). Il debito pubblico, pur enorme (171,3% del Pil nel 2022), è in calo (era al 206,3% nel 2020), e soprattutto soggetto a tassi d’interesse agevolati fino al 2030.
Inizialmente la crisi dell’Euro è stata raccontata come una storia di irresponsabilità fiscale, narrazione che ha privilegiato l’austerità come soluzione inoppugnabile. Nel giro di pochi anni, economisti di diverse scuole di pensiero hanno raggiunto la conclusione che per la verità quello che accomunava i paesi che sono finiti nel vortice della crisi non erano i disequilibri del bilancio pubblico ma quelli del bilancio esterno – esportazioni meno importazioni. Su questo fronte, la trasformazione dell’economia greca è stata davvero impressionante: il valore delle esportazioni di beni e servizi sul Pil è decollato dal 39,6% nel 2019 al 48,6% nel 2022, anni luce lontano dal 18,9% del 2009.
Tutto bene quindi? Non esattamente.

… ombre

In primis, la crescita verticale delle esportazioni è significativamente distorta da due voci molto particolari. La prima riguarda i trasporti marittimi internazionali: secondo la Lloyd’s List, la flotta marittima commerciale di proprietà di armatori greci è la più grande del mondo, ma viaggia spesso sotto bandiere di convenienza, ed è largamente oltre la portata del fisco. La seconda concerne le raffinerie, che importano carburante grezzo per poi riesportarlo appunto raffinato, creando profitti per le aziende ma pochi posti di lavoro. Al netto di queste due voci, l’aumento del tasso delle esportazioni sul Pil è meno spettacolare: dal 22,2% nel 2019 al 29,5% nel 2022 (rispetto al 16,2% del 2009).
Il peso del turismo nell’economia nazionale resta fondamentale: un quinto del Pil, un quarto dell’occupazione, quasi la metà di tutte le esportazioni. Ma la dipendenza dal turismo – “la nostra industria pesante”, come amano dire gli imprenditori del settore, ed i ministri di tutti i governi – è piuttosto problematica: nel breve termine, perché genera profitti facili, ma poche entrate fiscali e troppi posti di lavoro instabili, a bassa qualifica e bassa retribuzione; nel lungo termine, perché è vulnerabile a rischi sia geopolitici che climatici. Nel frattempo, prosegue indisturbata la cementificazione delle isole, minandone la sostenibilità ambientale ed economica.
Ancora peggio, di pari passo con la ripresa economica sono tornate a crescere anche le importazioni, in misura anche più robusta della crescita delle esportazioni. Risultato: il disavanzo commerciale con il resto del mondo è passato dallo 0,9% del Pil nel 2019 al 9,4% nel 2022. Non siamo ancora arrivati ai livelli raggiunti prima della crisi (11,9% del Pil nel 2007 e nel 2008), ma poco ci manca.
Se l’incubo di un ritorno agli squilibri che hanno portato a quella crisi disturba il sonno di alcuni economisti – per la verità una minoranza, mentre la maggioranza canta le lodi del governo – molte famiglie hanno altre preoccupazioni: i salari sono fermi, oppure crescono meno dell’inflazione. Secondo i dati del ministero del lavoro, lo stipendio mensile lordo medio è passato dai 1.118 euro nel 2021 ai 1.176 euro nel 2022, un aumento del 5,2%. Troppo poco per compensare l’aumento dei prezzi (9,3% nel 2022). Alla perdita di potere d’acquisto si aggiunge il fatto che l’inflazione colpisce i poveri più dei ricchi, per il semplice motivo che per i primi le spese per abitazione, energia, e alimentari rappresentano una quota maggiore del reddito rispetto ai secondi.

Sulla bassa via

In un certo modo, le radici di tutte le recenti notizie, sia positive che negative, attorno all’economia greca vanno cercate nella gestione di quella crisi, a colpi di austerità e svalutazione interna (dei salari). Col senno del poi, il problema principale dei tre “programmi di salvataggio”, imposti dalla Troika dei creditori (Ue-Bce-Fmi) nel 2010, 2012 e nel 2015, non era l’austerità in sé. Di fronte ad un deficit pubblico oltre il 15% del Pil, quale altra opzione restava? Il vero problema è che l’approccio della Troika si fondava sull’ipotesi inconfessata che l’economia greca fosse poco efficiente, e che i greci avrebbero dovuto smetterla di comportarsi come se non lo fosse. La distanza fra bassa produttività e consumismo sfrenato esisteva davvero. Solo che per colmarla la Troika ha puntato troppo sulla riduzione dei consumi, e troppo poco sull’aumento della capacità produttiva. Perciò, l’eccesso di austerità e le “riforme strutturali” hanno condannato la Grecia a rimanere veramente un’economia poco dinamica negli anni a venire.
L’indebolimento dei sindacati è stato uno dei perni nella strategia di svalutazione interna. La strategia ha funzionato davvero: in termini reali, i salari medi sono di circa il 25% più bassi rispetto al 2009, mentre il tasso di copertura dei contratti collettivi è sceso dal 100% del 2010 al 22% nel 2014 (per poi risalire al 25% nel 2016). I sindacati non sono certo senza colpe per le distorsioni che hanno fatto deragliare l’economia greca nella seconda metà degli anni Duemila. Però la vera questione oggi è se “l’alta via allo sviluppo” apparentemente auspicata da (quasi) tutti è compatibile con relazioni industriali squilibrate, in un contesto istituzionale che concede molta flessibilità alle aziende, ma offre poche garanzie ai lavoratori.
Il livello degli investimenti produttivi è meno della metà rispetto ai primi anni Duemila. Le competenze degli adulti sono incredibilmente basse, specialmente se giudicate secondo quello che le persone sanno fare, nonostante la proliferazione dei titoli di studio. L’amministrazione pubblica è stata digitalizzata, ma al suo interno rimane inefficiente, e con meno personale di prima. La giustizia è lenta e molto meno indipendente dal governo, e da interessi privati, di quanto possa essere tollerabile in una democrazia liberale. Le infrastrutture, largamente finanziate da fondi europei, presentano una peculiare combinazione di estremamente moderno e pericolosamente antiquato, come ha tra l’altro dimostrato il disastro ferroviario di marzo 2023. In sostanza, mancano quasi tutti gli ingredienti per una crescita sostenibile.
Questa lettura (tranne la parte che riguarda i sindacati e le relazioni industriali) non è tanto lontana da quella della Commissione Pissarides, presieduta da Sir Christopher, professore della London School of Economics, e Premio Nobel per l’economia nel 2010. Le raccomandazioni per un rafforzamento di ampia portata del modello produttivo greco sono state formalmente accolte dal Primo Ministro, che ha voluto la commissione subito dopo la sua vittoria alle elezioni politiche del 2019. Ma i passi avanti verso l’obiettivo sono stati deludenti e l’economia greca sembra intrappolata in un circolo vizioso di bassa produttività, basse qualifiche, e basse retribuzioni.

 

Per saperne di più:

Baldwin, R., Beck, T., Bénassy-Quéré, A., Blanchard, O., Corsetti, G., de Grauwe, P., den Haan, W., Giavazzi F., Gros D., Kalemli-Ozcan S., Micossi S., Papaioannou E., Pesenti P., Pissarides C., Tabellini G. and Weder di Mauro B. (2015) Rebooting the eurozone: step I – agreeing a crisis narrative. CEPR Policy Insight no. 85. London: Centre for Economic Policy Research.
Matsaganis M. (2018) Making sense of the Greek crisis, 2010-2016. In: Europe’s crises (edited by M. Castells et al.) Cambridge: Polity.
Palaiologos Y. (2016) The 13th labour of Hercules: Inside the Greek crisis. London: Granta Books.

 

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