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POLICY MEMO n.10 – Ottobre 2019 – Di Emmanuele Pavolini, Università degli Studi di Macerata

La situazione

Nel fact sheet “Il paradosso della sanità italiana”, si è argomentato come la buona qualità delle cure, presente in larghe parti del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) italiano, venga ottenuta nonostante le risorse economiche messe a disposizione siano relativamente contenute. Dalla scarsità delle risorse, ma non solo, derivano seri problemi in termini di diseguaglianze nell’accesso ai servizi e di un eccessivo carico sulle spalle degli operatori della sanità (dai medici agli infermieri e alle altre figure professionali) per far funzionare il SSN.

Seppur il SSN sia sulla carta un sistema universalistico, una parte dei cittadini con redditi bassi e medio-bassi – soprattutto, ma non soltanto, nelle regioni del Sud Italia – afferma più che in altri paesi europei di dover rinunciare ad alcune cure sanitarie per motivi di costo, distanza o liste di attesa. Anche fra quelli (i più), che possono permettersi di spendere di tasca propria, la pressione economica derivante dalle spese sanitarie non è necessariamente irrilevante.

Allo stesso modo, il personale sanitario nel SSN lavora sempre più in situazioni difficili, derivanti anche dalla scarsezza di operatori impiegati, con medici che invecchiano senza che vengano affiancati da giovani leve e infermieri meno numerosi di quanto sarebbe auspicabile. Non deve sorprendere in questo contesto il fatto che molti professionisti sanitari, in special modo medici, abbiano approfittato della finestra offerta da “Quota 100” per lasciare il SSN.

Raccomandazioni di policy

Se questo è il quadro che, va sottolineato ancora una volta, non è di un SSN allo sfascio, ma di un SSN in difficoltà e che, nonostante ciò, continua ad offrire una qualità (spesso) buona delle cure, cosa occorre fare? Le considerazioni che seguono vanno in due direzioni: quello che va fatto per migliorare il SSN e quello che va evitato.

Quello di cui abbiamo bisogno: la manutenzione del SSN

Il SSN, di cui l’anno scorso abbiamo celebrato il quarantennale, è uno dei maggiori successi nel campo dei diritti sociali del nostro paese, così come il sistema di istruzione pubblica. Le critiche spesso portate a scuola e sanità ci fanno dimenticare che cosa era l’Italia cinquant’anni fa (ma anche venti anni fa) nella tutela della salute e nell’investimento in capitale umano, soprattutto dei giovani. Chiaramente vi sono dei problemi, ma si tratta di criticità che richiedono più un lavoro di manutenzione che interventi rivoluzionari. Quello che è mancato nell’ultimo ventennio, e soprattutto negli anni della crisi e dell’austerity, è stata proprio l’adeguata manutenzione del sistema a partire da due fattori cruciali: le risorse economiche e le risorse umane che, grazie ad una serie di fattori, rischiano di non poter perdurare a lungo. Da un lato, il managerialismo degli ultimi decenni ha permesso di rendere l’uso delle risorse impiegate sempre più efficiente – e di questo occorre dare merito a tutti gli attori che hanno contribuito a migliorare le capacità gestionali delle ASL e AO: dai Ministeri alle Regioni alle Università, che si sono impegnati nella formazione manageriale di dirigenti e quadri e nel supporto di questi ultimi nell’azione quotidiana. Dall’altro, se si osservano in prospettiva comparata il livello (scarso) di risorse economiche investite nella sanità pubblica nell’ultimo ventennio e i buoni risultati in termini di cura e di salute ottenuti, rispetto a quanto avvenuto in molti altri paesi occidentali, possiamo parlare di un ‘quasi miracolo’.

Le possibilità che il ‘quasi miracolo’ continui si stanno, però, rarefacendo. Tale performance eccezionale si è infatti basata, come più volte spiegato in queste pagine, sulla professionalità di chi opera in sanità – dai medici agli infermieri e al resto del personale sanitario, così come di coloro impegnati in compiti gestionali – e sulla capacità di spesa privata di molte famiglie. Il crescente disinvestimento nelle risorse umane (dal lato delle assunzioni così come da quello delle possibilità di carriera e di riconoscimento economico) sta minando la resilienza del personale in sanità, crescentemente oberato di incarichi cui non corrispondono miglioramenti sotto il profilo contrattuale. Dieci anni di crisi stanno rendendo molto più caute molte famiglie di ceto medio rispetto alle scelte di spesa nel campo della cura sanitaria.

Anche se la ricetta sembra semplice (o semplicistica), la sanità pubblica italiana ha, in buona parte del paese, semplicemente bisogno di più risorse finanziarie. Il SSN è migliorabile, ma ha già raggiunto un buon, se non ottimo, livello di performance gestionale e professionale. Non sono necessari chissà quali interventi di ingegneria istituzionale o manageriale per mantenere il SSN a livelli adeguati. Bastano più soldi per nuove assunzioni e per il personale (a partire da più borse di studio per gli specializzandi nelle discipline mediche), oltre che per investimenti in manutenzione di servizi e strutture.

Questo discorso generale vale, però, soprattutto per una parte del paese, quella che va dalle Marche, Umbria e Toscana verso il Nord. Per restare un’eccellenza del nostro paese il SSN del Centro-Nord Italia ha solo bisogno di risorse economiche più adeguate e in linea con quelle messe a disposizione da altri stati europei occidentali per i propri cittadini. Gli studi che si sono occupati di sanità al Sud hanno messo in luce, invece, che sicuramente occorrono più risorse economiche così come nel Centro-Nord, ma sono necessari anche interventi sulla governance del sistema. L’efficienza nell’uso delle risorse è spesso minore al Sud rispetto al Centro-Nord e tutte le soluzioni istituzionali adottate nel corso di un quarantennio (dalla centralizzazione sul Ministero dei primi anni ’80 al decentramento regionale degli anni 2000, fino ai Piani di rientro dell’ultimo decennio) hanno mostrato punti di forza e criticità ancora irrisolte. Occorrerà trovare un sistema istituzionale che mantenga in capo ai governi locali una parte delle decisioni e permetta loro di investire in sanità pubblica, responsabilizzandoli però maggiormente rispetto all’uso delle risorse ed evitando anche la chiusura di servizi per ristrettezze economiche.

Quello di cui non abbiamo bisogno: una rivoluzione sotto forma di multipillarizzazione della sanità

Nel dibattito attuale sullo stato della sanità italiana molti dimenticano perché negli anni ’70 si decise di passare a un SSN. Una delle ragioni principali era legata ai limiti economici – in termini di efficienza – e sociali – in termini di diseguaglianze nell’accesso – del sistema legato alle mutue sanitarie obbligatorie. Da alcuni anni in Italia stanno tornando di moda forme di finanziamento delle cure sanitarie tramite i “fondi sanitari”. Tali fondi erano nati con scopi condivisibili e meritevoli – non a caso erano e sono definiti formalmente “fondi sanitari integrativi del SSN” – come quelli di allargare la platea delle prestazioni sanitarie e socio-sanitarie oltre l’alveo dei LEA (livelli essenziali di assistenza). Vi sono, è opportuno dirlo, esperienze di mutue sanitarie che stanno cercando di mantenere questo spirito solidale e integrativo ancora oggi e si possono considerare meritevoli per la loro azione in tal senso.

Tuttavia, gran parte del mondo dei fondi sanitari vede all’opera assicurazioni private che, in tempi recenti, non fanno mistero di voler chiedere più sostegni allo stato per tali fondi, sotto forma di crescenti agevolazioni fiscali, permettendo quindi ai cittadini che sottoscrivono anche individualmente un fondo o una assicurazione sulla salute di vedersi riconoscere detrazioni o deduzioni fiscali quanto più generose possibili rispetto a questo tipo di spesa. In altri termini, si sta diffondendo l’idea che la multipillarizzazione in sanità (un sistema basato sul SSN ma sempre più ibrido grazie ai fondi) sia un bene, anche se finanziata nei fatti tramite risorse concorrenti a quelle da destinare alla sanità pubblica. Non appare questa la strada migliore possibile per avere un sistema sanitario universalistico non solo nelle intenzioni ma anche nei fatti, soprattutto se significa togliere, indirettamente, risorse economiche al SSN. Come ricordato nel fact sheet “Il paradosso della sanità italiana”, nel 2018 il nostro paese destinava alla spesa sanitaria pubblica oltre un quarto di meno, per ognuno di noi, rispetto alla media dell’UE-15. Dal 2005 al 2018 la spesa pubblica sanitaria italiana, in termini reali, è salita solo dello 0,2% all’anno, mentre nel resto dell’UE-15 (con l’esclusione della Grecia) è cresciuta dell’1,5%. In altri termini è da quasi quindici anni che, praticamente, la spesa reale in sanità pubblica non aumenta. Negli stessi anni, lo stato ha rinunciato a circa 540 milioni di euro annui di entrate per via degli incentivi fiscali (deduzioni) relativi ai contributi versati ai fondi integrativi del SSN (la fonte della stima è la Commissione per le spese fiscali del MEF) ma chiedendo ai cittadini alcuni miliardi per il pagamento dei ticket sulle prestazioni del SSN. Quindi, ben vengano le forme di sostegno a chi fa mutualità in un’ottica tradizionale (integrativa e solidale), mentre sarebbe meglio utilizzare questi 540 milioni annui di mancate entrate (destinati ad aumentare quanto più i fondi sanitari si diffondono) per ridurre i ticket e/o espandere la spesa pubblica in sanità piuttosto che impiegarli per una multipillarizzazione del SSN di cui non se ne capisce l’utilità per i cittadini.

L’attuale Legge di Stabilità 2020 in discussione in Parlamento sembra offrire una serie di prime indicazioni più confortanti in tal senso. I contenuti della Legge in discussione, oltre ad abolire dal 2020 i cosiddetti “super ticket” da 10 euro su visite ed esami, prevedono 2 miliardi di spesa per l’edilizia sanitaria e la conferma dei 2 miliardi aggiuntivi previsti dalla precedente Legge di Stabilità del 2019. Non si prevedono, quindi, tagli ma interventi che in qualche maniera iniziano a reinvestire in maniera più decisa nel SSN. Allo stesso tempo, per quanto risulta per ora, non vi sono riferimenti espliciti al trattamento dei Fondi sanitari né sulle agevolazioni fiscali in campo sanitario.

Per saperne di più:

ESPN (2018), Inequalities in access to healthcare – A study of national policies, ESPN: Brussels; https://ec.europa.eu/social/main.jsp?catId=738&langId=en&pubId=8152&furtherPubs=y es

Giarelli, G. (a cura di) (2019), Il Servizio Sanitario Nazionale italiano in prospettiva europea, Milano, FrancoAngeli.

OECD http://www.oecd.org/health/ (per dati e ricerche comparative sulla sanità)

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