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NOTA n.2 – Marzo 2022 – Di Elena Spina, Università Politecnica delle Marche

La missione 6 del PNRR tra dubbi e incertezze

I 20 miliardi destinati alla missione “Salute” del PNRR hanno l’obiettivo di rafforzare la prevenzione e i servizi sul territorio, modernizzare e digitalizzare il sistema sanitario e garantire equità di accesso alle cure. I fondi europei, parte dei quali verrà spesa entro il 2023 e parte entro il 2026, richiedono di essere impiegati in modo efficace, efficiente, equo e responsabile, non solo perché tale mole di denaro difficilmente sarà nella disponibilità delle casse pubbliche in futuro, ma anche e soprattutto perché una buona parte di esso (il 64%) si configura come un prestito e dunque graverà sulle future generazioni.

Si tratta di un’opportunità unica per risolvere criticità strutturali del SSN, che la pandemia ha fatto ri-emergere con forza. Ciò richiede una visione di medio-lungo periodo che permetta di avviare interventi in modo mirato ed integrato e di sperimentare forme di gestione, anche nuove, volte a un effettivo rinnovamento del SSN.

Difficile, tuttavia, immaginare che tale visione potrà concretizzarsi se, come è previsto nel piano, la metà dei fondi verrà impiegata nella costruzione di oltre 1.200 case della comunità, circa 600 centrali operative territoriali e 381 ospedali di comunità e se il resto verrà investito nel potenziamento di ricerca e digitalizzazione[1]. L’investimento in strutture e in tecnologie evoca il rischio concreto, infatti, di edificare “cattedrali nel deserto”: potrebbero cioè restare “scatole vuote” e se non verranno debitamente riempite di risorse umane non produrranno gli effetti attesi.

 

La carenza di personale sanitario

La carenza di personale sanitario era già ampiamente evidente prima dell’avvento della pandemia. Dal 2008, ha preso infatti avvio una fase che potremmo definire di decostruzione del SSN in cui alla dinamica espansiva del trentennio precedente se ne è sostituita una di decrescita legata alla razionalizzazione della spesa sanitaria (Spina 2021). Il “mantra” dei tagli che si è imposto in questo periodo, si è tradotto sostanzialmente in una riduzione dei costi legati al personale: tra il 2010 e il 2017 sono venuti meno 6.348 medici e odontoiatri e 10.373 infermieri (Ministero della Salute 2010, 2017), riduzione che si è verificata in modo diseguale nelle diverse regioni italiane, con una penalizzazione di quelle soggette a piano di rientro (specie Molise, Lazio e Campania ma anche Calabria e Sicilia) (Corte dei Conti, 2020)[2].

La forte svalorizzazione del personale in servizio nel SSN è documentata non solo dalla sua riduzione in termini numerici (specie guardando ai lavoratori con contratti a tempo indeterminato), ma anche in relazione alle condizioni di lavoro che sono nettamente peggiorate, se non altro per la minore disponibilità delle risorse umane presenti. Alla vigilia della crisi pandemica, dunque, il quadro che emerge è quello di un personale sanitario fortemente indebolito da anni di blocco della contrattazione (2011-2015) e del turnover e di chiusura al dialogo da parte delle istituzioni con gli organismi di rappresentanza professionale e sindacale, che hanno perso progressivamente la capacità di mobilitare i propri iscritti.

Su questo scenario già precario ha impattato la crisi sanitaria, che ha imposto soluzioni immediate per tamponare la carenza di personale. Se i provvedimenti urgenti adottati dal governo Conte hanno permesso di fronteggiare la pandemia, appare improbabile poter continuare ad affrontare il problema con una prospettiva emergenziale. Inserendolo all’interno del PNRR il tema sembra acquisire centralità ma è necessario adottare un approccio di lungo periodo: anche qualora, infatti, nel prossimo futuro venissero realmente stabilizzati, come previsto nella Legge di bilancio 2022, i 46 mila professionisti assunti con contratti precari durante l’emergenza, se si volessero raggiungere livelli di cura in linea con gli standard dell’Ocse mancherebbero comunque all’appello 17 mila medici e 350 mila infermieri. Allarmi in questa direzione arrivano da più fronti: l’associazione anestesisti e rianimatori ospedalieri, ad esempio, segnala carenze profonde di personale nel settore (oltre duemila); lo stesso dichiarano i rappresentanti del SIMEU (Società italiana di medicina d’urgenza) laddove nei pronto soccorso mancherebbero oltre quattromila unità di personale. Situazione analoga, se non ancora più drammatica, si registra nell’ambito della medicina generale dove il ricambio generazionale, legato ai prossimi pensionamenti, non avverrà perché non sono state previste sufficienti borse di studio per la formazione specialistica.

Finché queste lacune non verranno colmate è difficile immaginare una vera riorganizzazione del SSN. Per farlo, sarebbe necessario in primo luogo finanziare adeguatamente la spesa corrente (tramite il fondo sanitario nazionale), abolendo il tetto di spesa delle assunzioni, che, invece, persiste anche nell’ultima legge di bilancio.

In altre parole, non si può realisticamente credere che il rilancio del SSN possa avvenire senza il potenziamento delle risorse umane, soprattutto sapendo che al personale già in organico non si possono chiedere ulteriori sacrifici (ferie non godute e turni insostenibili) avendo dato ampiamente prova di resilienza negli ultimi due anni. Senza questa consapevolezza è difficile che il cambiamento auspicato nel PNRR possa avvenire. E senza questo cambiamento il rischio è l’infiltrazione, da parte del privato, anche in settori ad oggi ancora scarsamente penetrati dal settore (come quello dell’emergenza-urgenza o dell’assistenza territoriale) acutizzando le già evidenti diseguaglianze territoriali nell’accesso alle cure.

 

Per un cambio di rotta

Metaforicamente è necessario riempire queste scatole e farlo in maniera intelligente. La stabilizzazione del personale “precario” rappresenta solo un primo passo. Sono anche altre le direzioni verso cui sarebbe opportuno muoversi:

  • ripensare la formazione del personale sanitario, e di quello medico in particolare, e trovare un maggiore raccordo tra istituzioni competenti – in primis Ministero dell’università e della ricerca e Ministero della salute – affinché il fabbisogno effettivo di operatori possa essere colmato. È opportuno, in questa fase di forte penuria di medici, mantenere ad esempio il numero chiuso all’università? Sembra inoltre necessario potenziare – come in parte si è fatto seppur non in modo sufficiente – gli investimenti nelle borse di specializzazione, specie in quei settori in cui le lacune sono maggiori (emergenza, anestesia e rianimazione, ecc).
  • potenziare la capacità di attrazione della medicina generale magari anche attraverso una riorganizzazione del settore. L’ “esodo” dalla medicina generale cui assisteremo nei mesi a venire, dovuta all’elevato numero di professionisti che andranno in quiescenza, rischia di aprire un vuoto: del resto sono anni che i vertici del principale sindacato (FIMMG) denunciano tale situazione, aggravatasi poi con la pandemia, e ad oggi sono 1.213 gli ambiti territoriali carenti per l’assistenza primaria, rimasti vacanti perché mancano i medici (Bartoloni e Gobbi 2021). Molti concorsi vanno addirittura deserti per mancanza di candidati e questa situazione non riguarda soltanto le aree rurali, ma la carenza coinvolge sempre più anche quelle urbane. Né si può immaginare di ricorrere a forza lavoro europea, visto che tale problema affligge da anni anche altri Paesi (in Francia tale criticità viene evidenziata da decenni). Da un altro punto di vista si osserva come sia un sempre maggior numero di donne ad esercitare la medicina generale, invertendo una tendenza storica legata al carattere imprenditoriale di tale attività. Questo processo di femminilizzazione sollecita, allora, una revisione dell’intera architettura organizzativa delle cure territoriali anche per tenere conto di modalità più favorevoli alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
  • snellire le procedure burocratiche legate all’ingresso di operatori stranieri nel nostro paese. Alcune fonti documentano, infatti, la difficoltà legata allo scarso raccordo tra istituzioni (Ministero dell’interno e ministero della Salute), oltre che a vincoli di natura normativa, nel reperire personale dall’estero per colmare le lacune interne, predisponendo appositi corridoi di reclutamento.
  • pensare di trattenere, anche con incentivi economici, gli operatori già presenti nel SSN per evitare “fughe verso il privato”. Una recente indagine realizzata dalla CIMO-FESMED (2022) su un campione di 4.258 medici ospedalieri italiani evidenzia la disaffezione dei professionisti italiani che, sebbene animati da una forte passione per il proprio lavoro, si sentono traditi e poco sostenuti dal SSN. Sono per lo più i giovani, entrati meno di cinque anni fa nel sistema, ad apparire più demoralizzati e demotivati dei colleghi più adulti e per i quali le aspettative di crescita si sono inesorabilmente abbassate. Questi professionisti vanno attenzionati perché i loro sentimenti di delusione, unitamente al desiderio di riscatto potrebbero favorire una fuga verso il privato nell’idea, non sempre corrispondente al vero, che li attendano migliori condizioni lavorative.

Il processo trasformativo che ha, di fatto, già preso avvio richiede innanzitutto un cambio sia di rotta che di passo. Appare infatti necessario pensare all’attuale congiuntura come un’opportunità nella quale sviluppare un investimento per il futuro, in termini sia di crescita economica per il paese, che di benessere individuale, inteso come aumento della qualità della vita dei cittadini. Ciò significa guardare al lungo periodo, operando scelte coraggiose. Una di queste è, per esempio, cominciare a “prendersi cura di chi cura”: pensare a modalità di programmazione e assunzione del personale più snelle; privilegiare il potenziamento di alcune figure professionali rispetto ad altre (gli infermieri di comunità e MMG, ad esempio) per fare in modo che non ci si trovi in situazioni di criticità al prossimo campanello di allarme; valorizzare le condizioni economiche e di lavoro del personale, ripensando gli ambienti fisici e le dotazioni tecnologiche, spesso obsolete e tali da non garantire gli standard di sicurezza; assicurare una solidarietà intergenerazionale tra le diverse coorti di professionisti attualmente presenti nel SSN al fine di favorire processi di socializzazione secondaria e di apprendimento sul campo.

[1] Le Case della comunità sono strutture territoriali che avranno il compito di erogare tutti i servizi di base con un approccio multidisciplinare ed integrato (socio-sanitario); ospiteranno equipe di multiprofessionali (MMG, Pediatri di Libera Scelta, infermieri di famiglia, specialisti della riabilitazione, assistenti sociali, ecc) divenendo un punto di riferimento per la comunità territoriale (Pesaresi, 2021a). Le Centrali operative territoriali si configurano come un’evoluzione dei Punti Unici di accesso ai servizi socio-sanitari; ne viene prevista una ogni 100.000 residenti al fine della valutazione multidimensionale e presa in carico socio-sanitaria delle segnalazioni non urgenti di assistiti fragili a livello distrettuale da parte di vari operatori per l’accesso guidato, nella rete di servizi territoriali e in dimissione protetta ospedaliera, all’assistenza domiciliare integrata, semiresidenziale e residenziale e nei passaggi tra luoghi di cura diversi.  Gli Ospedali di comunità, si configurano invece come strutture residenziali destinate al ricovero breve di pazienti che necessitano di interventi sanitari a media/bassa intensità clinica. Tali strutture, la cui dimensione media è prevista in 20 posti letto (fino ad un massimo di 40) e la cui gestione è prevalentemente infermieristica, dovrebbe contribuire ad una maggiore appropriatezza delle cure, determinando una riduzione di accessi impropri ai servizi sanitari (Pesaresi, 2021b).

Tutte queste novità dovrebbero portare ad un sostanziale cambiamento nel modello di erogazione dell’assistenza primaria, sia in termini organizzativi che professionali.

[2] Si vedano al riguardo anche le precedenti Note O.C.I.S. curate da Emmanuele Pavolini nel marzo 2020, “La sanità italiana di fronte alla crisi del coronavirus”, e nell’ottobre 2019, “Il paradosso della sanità italiana: che cosa fare (e che cosa non fare)?” e “Il paradosso della sanità italiana”.

 

Per saperne di più:

Bartoloni M., Gobbi B., 2021, Medici di base, allarme carenza: 1,5 milioni di italiani sono senza (link)

CIMO-FESMED, 2022 Indagine sui medici del SSN (link)

Corte dei Conti (2020), Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica, consultabile al sito (link)

Ministero della Salute (2010 e 2017), Annuari statistici del SSN, consultabile al sito (link)

Pesaresi F., 2021, Le case della comunità: cosa prevede il PNRR. Qualche criticità significativa (link)

Pesaresi F, 2021b, Gli ospedali di comunità nel PNRR. Grande sviluppo e qualche problema (link)

Spina E., Medici e professioni sanitarie nella geografia italiana della pandemia, in Giarelli G. e Vicarelli G. (a cura di) (2021), Libro bianco. Il Servizio Sanitario Nazionale e la pandemia da Covid 19. Problemi e proposte, Francoangeli

 

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