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POLICY MEMO n.6 – Settembre 2017 – Di Marcello Natili, Università di Milano

Lo scorso 29 agosto il presidente del Consiglio Gentiloni ha confermato il via libera definitivo del Consiglio dei Ministri all’introduzione in Italia del Reddito di inclusione (REI) dando seguito alla Legge delega approvata il 15 marzo 2017, n. 33, Norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali e al successivo Memorandum Governo – Alleanza contro la Povertà [1] siglato il 14 aprile, 2017.

Si tratta di una scelta importante, considerando i forti ritardi e il tradizionale limitato investimento nel settore delle politiche di contrasto alla povertà. Come noto, infatti, l’Italia è tra i pochissimi paesi europei in cui non è presente, tra gli strumenti di politica sociale, un reddito minimo d’inserimento, ovvero un trasferimento monetario (1) rivolto ai nuclei familiari con reddito inferiore a una soglia di povertà predefinita, (2) associato/condizionato alla firma di un contratto con la pubblica amministrazione che (3) preveda la partecipazione dei beneficiari a un “progetto personalizzato” volto al superamento della condizione di disagio economico tramite reinserimento sociale e/o professionale.

Tale innovazione costituisce perciò una positiva novità, introducendo una normativa quadro e risorse strutturali destinate al contrasto della povertà. Tuttavia, il REI presenta più di una criticità. La scarsa generosità e la possibilità di accedervi limitata solamente ad alcuni dei gruppi sociali più in difficoltà riducono fortemente la capacità protettiva di tale strumento. Affronteremo questi elementi nel dettaglio, mirando a delineare le caratteristiche della misura introdotta e sottolineandone le principali debolezze sul piano comparato.

Troppo poco…

In maniera simile agli schemi di reddito minimo presenti in Europa, l’importo del REI corrisponde alla differenza tra reddito famigliare e una specifica soglia stabilita dal governo, che equivale alla soglia reddituale d’accesso alla misura. La tabella sottostante mostra gli importi massimi per i nuclei familiari con un reddito pari a 0.

Tabella 1. Importo schemi di reddito minimo per tipologia familiare in alcuni paesi europei

La tabella evidenzia uno dei limiti del REI: si tratta di una misura poco generosa. Non sono difficili da immaginare le difficoltà di un individuo, senza altre fonti reddituali, a sopravvivere con meno di duecento euro mensili, o quelle di una famiglia di 5 persone con meno di 500. A contraddistinguere il REI sul piano comparato è anche la presenza di limiti di durata: iIl beneficio è infatti riconosciuto per un periodo continuativo non superiore a 18 mesi e, superati tali limiti, non può essere rinnovato se non trascorsi almeno 6 mesi da quando ne è cessato il godimento. Sebbene questo possa essere un modo per limitare gli eccessi, è opportuno sottolineare come in Europa solamente in Lituania ed in alcune comunità autonome spagnole esistano tali limiti, mentre di norma tali prestazioni sono erogate fintanto che permane la condizione di bisogno.

…per troppo pochi

Per accedere agli schemi di reddito minimo è generalmente necessario soddisfare alcuni requisiti di natura reddituale, patrimoniale e anagrafica. Non fa eccezione il REI, cui possono accedervi nuclei familiari residenti in Italia da almeno 2 anni, in condizioni di povertà estrema – ovvero aventi un reddito ISEE inferiore a 6mila euro e un reddito ISRE inferiore a 3mila euro – un patrimonio immobiliare, esclusa la prima abitazione, inferiore ai 20mila euro, e non in possesso di veicoli o moto immatricolati da meno di 24 mesi. Ciò che rende peculiare sul piano comparato tale strumento è però la presenza di requisiti categoriali piuttosto stringenti, ovvero la necessità, per accedere al REI, che sia presente nel nucleo familiare un minore, oppure un disabile, una donna in stato di gravidanza, e/o un disoccupato over 55 che abbia cessato da almeno 3 mesi di beneficiare della prestazione per la disoccupazione – ovvero si trovi in stato di disoccupazione da almeno 3 mesi, nel caso in cui non abbia diritto ad alcuna prestazione di disoccupazione per mancanza di requisiti. La presenza di tali requisiti categoriali non conosce un corrispettivo negli schemi di contrasto alla povertà esistenti nel resto d’Europa, dove tali misure sono di regola rivolte a tutti i residenti in condizione di bisogno. La distinzione tra “poveri meritevoli e non” è un vecchio vizio del sistema di protezione sociale italiana che, oltre a lasciare senza alcuna rete di protezione fasce sociali fortemente indebolite dalla crisi – primi fra tutti i giovani, ma in generale tutti gli individui in età da lavoro senza figli – rischia di rendere le procedure di selezione particolarmente gravose per la pubblica amministrazione.

Le risorse per il REI: un investimento insufficiente

Le debolezze finora sottolineate sono frutto di un investimento ancora troppo timido per le politiche di contrasto alla povertà. Le risorse destinate al REI sono, infatti, decisamente limitate. In genere, in Europa, non viene assegnato un ammontare annuo fisso di risorse agli schemi di reddito minimo, ma la spesa varia adeguandosi al variare dei bisogni. La scelta effettuata con il REI è stata differente: sono stati stanziati 1 miliardo e 150 milioni per il 2017, a cui andranno aggiunti i fondi non spesi lo scorso anno per un totale di circa 1,6 miliardi. Secondo il governo, a fine anno, si possono raggiungere con altri risparmi e utilizzo di fondi europei quasi 2 miliardi (1.759 milioni di euro nel 2018, 1.845 milioni dal 2019). Queste risorse tuttavia non consentono l’accesso al REI a tutti gli individui in condizione di povertà assoluta, neppure – secondo le stime stesse del governo – a quelli che appartengono alle categorie “meritevoli” individuate dal decreto: si stima di poter coprire solamente 660mila persone su 1,6 milioni di potenziali aventi diritto. Oltretutto, non si tratta completamente di nuove risorse destinate alla poco sviluppata area del sostegno al reddito per gli individui in età da lavoro, poiché parte di queste derivano dall’abbandono dell’ASDI. Nonostante questo, l’investimento è decisamente ridotto (0,1% del Pil) sia rispetto alle principali proposte provenienti dal mondo sociale e politico – pensiamo ai 7 miliardi necessari per introdurre il Reddito di Inclusione Sociale promosso dall’Alleanza contro la Povertà – sia sul piano comparato. In Europa, infatti, si destina agli schemi di RM in media lo 0,5% del Pil, e siamo molto lontani non solamente da paesi come Danimarca e Germania – che investono circa l’1,4% del Pil in tali misure – ma anche dalla Grecia, che nel febbraio 2017 si è dotata di un vero schema di reddito minimo d’inserimento (il Reddito di Solidarietà Sociale), più generoso e privo dei requisiti categoriali che caratterizzano il REI, cui è destinata una cifra pari allo 0,4% del Pil.

[1] Alleanza contro la povertà, cfr. http://www.redditoinclusione.it

Per saperne di più:

Frazer, H. and Marlier, E. (2016) Minimum Income Schemes. A Study of National Policies, European Social Policy Network (ESPN), Bruxelles.

Gori, C. et al. (2016) Il reddito d’inclusione sociale (Reis), Bologna, Il Mulino.

Granaglia, E. e Bolzoni, M. (2016), Il Reddito di Base, Roma, Ediesse.

Natili, M., Matsaganis M. e Jessoula, M. (2016) Alla prova della crisi. Povertà e reddito minimo nell’Europa del Sud e dell’Est, Working Paper LPF 5/2016, Torino, Centro Einaudi.

Saraceno, C. (2015) Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Milano, Feltrinelli.

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