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Commento n.2 – Novembre 2021. Di Dario Guarascio, Sapienza Università di Roma

La scorsa estate, al primo accenno di rimbalzo del Pil italiano, gli strumenti di sostegno al reddito, che sino a quel momento avevano garantito la tenuta della domanda, delle imprese e dell’intera economia, sono finiti sul banco degli imputati. Le argomentazioni sono ormai note: le imprese non trovano braccia a sufficienza perché i potenziali lavoratori, soprattutto quelli più giovani, verrebbero impigriti dalla eccessiva generosità dei sussidi pubblici, in primis il Reddito di Cittadinanza. Un discorso analogo sembra valere per gli altri strumenti di sostegno al reddito, dalla Cassa Integrazione (CIG) alla NASPI, colpevoli di accrescere indirettamente lo stipendio minimo ritenuto accettabile dal lavoratore medio.

Si tratta di una lettura priva di qualsiasi fondamento: se gli strumenti di sostegno al reddito avessero realmente disincentivato l’accettazione di posti di lavoro che, nella maggioranza dei casi, sono temporanei, a basso salario e ad elevato sfruttamento, ci sarebbe stato di che rallegrarsi. Purtroppo, però, le frizioni che pure in una qualche misura si osservano all’interno del mercato del lavoro sono in realtà il frutto di smottamenti strutturali (i.e. mobilità interna, riorganizzazione familiare, informalità e accesso a mercati parzialmente invisibili come quelli della logistica e delle piattaforme digitali – si vedano, ISTAT (2021) e Barbieri e Guarascio (2021)). Il riassestamento ha richiesto qualche mese, ma le cose sembrano già essere tornate agli standard pre-pandemici: se non si è in stagnazione e il Pil italiano cresce, come in questa fase, lo fa creando prevalentemente lavoro precario e sottopagato. Soprattutto per i giovani e le donne.

E gli ammortizzatori sociali, dunque? L’OCSE, nel rapporto annuale Employment Outlook 2021, ha recentemente certificato come i programmi di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro – di cui OCIS si è occupata nella recente Nota Crisi pandemica e solidarietà europea: SURE da strumento temporaneo a meccanismo permanente? – abbiano consentito, nelle fasi più acute della pandemia, di preservare circa 60 milioni di posti di lavoro. L’Italia ha messo in campo un impegno senza precedenti nella storia repubblicana, proteggendo, solo con la CIG, il reddito di circa 3.752.518 lavoratori. Allo stesso tempo, la pandemia ha messo in luce gli aspetti critici e le iniquità del sistema italiano di ammortizzatori sociali: i) per un’ampia platea di lavoratori (coloro che sono impiegati in imprese di piccole dimensioni o che hanno contratti part-time e basse retribuzioni) il sostegno al reddito è stato insufficiente se non del tutto assente; ii) le stesse categorie che hanno maggiormente pagato la crisi (giovani a basso reddito e con carriere frammentate, donne con contratti part-time) hanno vissuto anche una significativa penalizzazione a causa del meccanismo puramente contributivo e del cosiddetto decalage (cioè la riduzione mensile del 3% della prestazione che oggi scatta automaticamente a partire dal 4° mese) che caratterizza la NASPI; iii) i lavoratori autonomi e i collaboratori occasionali che hanno vissuto un’improvvisa interruzione delle loro attività si sono trovati, se si fa eccezione per le misure straordinarie poste in essere dal Governo (bonus a favore delle ‘Partite IVA’), sprovvisti di sostegno o supportati da strumenti di entità e durata scarsamente sufficienti a soddisfare i loro bisogni.

Per queste ragioni, durante l’estate 2020, l’ex Ministro Catalfo aveva costituito una Commissione incaricata di elaborare una proposta di ‘universalizzazione’ del sistema degli ammortizzatori, con la precisa finalità di garantire a tutti i lavoratori una tutela adeguata a prescindere dal settore, dalle dimensioni dell’impresa e dalla tipologia contrattuale. Un progetto che ha incontrato una fortissima opposizione, capeggiata da Confindustria e da tutti i partiti, ad eccezione del Movimento 5 Stelle e della sinistra. Gli argomenti erano quelli consueti. Il primo: una riforma ‘troppo onerosa’ per le finanze pubbliche, salvo dimenticare che rafforzando gli ammortizzatori si rafforza la domanda interna, si riduce l’incertezza e quindi in prospettiva il rapporto Debito/Pil. Il secondo: ammortizzatori troppo generosi disincentiverebbero il lavoro, ignorando la copiosa letteratura economica che, a partire da Akerlof e Yellen (1986), consente di asserire l’esatto contrario.

Dopo quasi un anno di stallo, il Governo Draghi ha deciso di presentare una nuova proposta di riforma degli ammortizzatori sociali. Vengono recuperati alcuni contenuti della bozza presentata a marzo 2021 dalla Commissione Catalfo, ridimensionandone però enormemente le ambizioni, e dunque la reale capacità di fornire una copertura universalistica e, soprattutto, una tutela rafforzata per i più fragili. E ciò a causa del persistere di miopi logiche ‘ragionieristiche’ in virtù delle quali si ritiene di poter garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche prescindendo da politiche redistributive e di espansione della domanda.

A differenza del testo della Commissione Catalfo, che proponeva l’estensione della Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria – CIGO a tutte le imprese a prescindere dalla dimensione e dal settore, la proposta del Governo prevede infatti l’estensione del Fondo di Solidarietà (meno generoso della CIGO in ragione dei vincoli finanziari che ne limitano l’azione) alle imprese tra i 5 e i 15 dipendenti, attualmente prive di qualsiasi copertura per quanto riguarda il sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro, per un massimo di 12 mesi in un biennio mobile; mentre a quelle sopra i 15 dipendenti verrebbero garantite 26 settimane nello stesso periodo ampliando lo spettro delle causali a cui le imprese possono fare ricorso. Un intervento che consente di imporre alle imprese un onere relativamente contenuto (i.e. sulle imprese tra i 5 e 15 dipendenti graverà un’aliquota pari allo 0,45% della retribuzione, mentre la stessa aliquota sale allo 0,65% per le imprese che impiegano più di 15 dipendenti), ma che non garantisce una tutela soddisfacente a quei lavoratori che dovessero trovarsi alle prese con una riduzione consistente dell’attività lavorativa. Per quanto riguarda la NASPI, la Commissione Catalfo proponeva di abolire il decalage e di ridurre sensibilmente i requisiti di accesso in modo da ridimensionare la platea di coloro, soprattutto giovani con carriere intermittenti, che non riescono ad accedere allo strumento. Il Ministro del Lavoro, in ragione della dote minimale concessagli dal MEF – 3 miliardi contro i 10 stimati per l’insieme delle misure della Commissione Catalfo – sembra essersi accontentato di uno slittamento in avanti del decalage: dal 4° al 6° mese per tutti e dall’8° mese per gli over 55. Infine, pare confermato l’intervento sul contratto di espansione – che consente di avviare piani concordati di “esodo” per i lavoratori che si trovino a non più di 5 anni dal conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia o anticipata: la soglia dimensionale delle aziende coinvolte scenderebbe dai 100 ai 50 dipendenti per il prepensionamento dei lavoratori a 5 anni dalla pensione. Nulla è invece previsto per i lavoratori autonomi – per una quota relativamente ristretta dei quali una tutela minima è stata introdotta a dicembre 2020 la ISCRO, che prevede l’erogazione di una somma pari al 25% di quanto percepito l’anno precedente la presentazione della domanda da chi avesse avuto un calo della propria attività del 50%.Tali lavoratori, nelle previsioni della Commissione Catalfo, avrebbero dovuto oggetto di un intervento sistematico finalizzato a garantire una protezione di entità e durata adeguata agli autonomi giovani e a quelli a basso reddito.

Nel complesso, la riforma proposta dal Governo non va in nessun modo nella direzione universalistica auspicata dalla Commissione Catalfo, né tantomeno può riuscire a modificare in modo sensibile la condizione di quei vasti segmenti del mercato del lavoro caratterizzati da enorme incertezza e redditi insufficienti a garantire un’esistenza dignitosa. Ciò vale in particolar modo per i giovani e le donne che vivono nel Mezzogiorno. Questo risultato, dopo circa un anno e mezzo di dibattito attorno a una possibile riforma universalistica degli ammortizzatori, sembra certificare la prevalenza ideologica (e politica) delle posizioni di chi vede negli ammortizzatori un mero strumento assistenziale e ritiene che la disoccupazione sia perlopiù causata da svogliatezza o dalle scarse competenze di chi pretende un reddito. D’altra parte, in un contesto che rimane altamente incerto per quanto riguarda le prospettive macroeconomiche future e dove permangono tutti gli elementi di fragilità strutturale (diseguaglianze, prevalenza di imprese di imprese sottocapitalizzate e di piccole dimensioni, profondi divari territoriali), scegliere di non intervenire al fine rendere il sistema degli ammortizzatori compiutamente solido e universale rischia di compromettere le prospettive future dell’economia italiana e la capacità del PNRR di dispiegare appieno i suoi effetti.

Per saperne di più:
Akerlof, G. A., & Yellen, J. L. (Eds.). (1986). Efficiency wage models of the labor market. Cambridge University Press.
ISTAT (2021) Rapporto annuale 2021, Roma. https://www.istat.it/it/archivio/259060
Barbieri M. e Guarascio D. (2021), La pandemia e la necessità di riformare il sistema degli ammortizzatori sociali, in Politiche Sociali/Social Policies, di prossima pubblicazione.

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