Ae n.271, giugno 2024
Il ritorno della questione salariale.
In Italia gli stipendi e la produttività sono rimasti stagnanti negli ultimi trent’anni. Un circolo vizioso da cui uscire anche grazie a una ricerca di qualità e un dibattito meno polarizzato
C’è voluto il ritorno impetuoso dell’inflazione nel 2022 per risvegliare la politica e l’accademia da quasi tre decenni di torpore, in cui sul tema del lavoro le questioni “qualitative” (organizzazione, flessibilità, partecipazione, identità, etc.) sembravano aver soppiantato, anziché rimodellato, la vecchia questione salariale, il “bread and butter” delle relazioni sindacali. Si torna quindi ora alle basi, accorgendosi però che una generazione di politici, commentatori e funzionari di salari sa ormai pochissimo, intende “scala mobile” in senso letterale e non distingue le voci salariali nelle buste paga.
In un dibattito spesso polarizzato su posizioni unilaterali e poco difendibili tra chi pensa che il salario sia una variabile indipendente e chi pensa che lo sia la produttività, la ricerca seria mostra che le due siano interrelate e co-costitutive: il compito della ricerca è capire come questo avvenga e con quali possibilità di intervento (se ne è discusso molto in una vivace giornata organizzata dalla Società italiana di economia il 5 aprile scorso a Torino). L’approccio, di recente attualità, dei “modelli di crescita” suggerisce che la domanda interna e quindi i salari siano importanti soprattutto per Paesi come l’Italia, troppo variegati per poter specializzarsi su pochi settori di esportazione che facciano da traino per tutta l’economia. E il fatto che in Italia i salari e la produttività siano rimasti stagnanti negli ultimi trent’anni appare come un circolo vizioso da cui uscire.
Uscirne però è particolarmente laborioso in un Paese in cui la regolamentazione del salario è lasciata all’autonomia delle parti, tramite la contrattazione collettiva. Che però da trent’anni funziona su un modello (quello del Protocollo Ciampi del 1993) che non permette né di far fronte efficacemente al caro vita (l’Italia è uno dei Paesi europei con la maggior perdita di potere d’acquisto dei salari dal 2022), né di convincere la grandissima maggioranza di aziende, soprattutto piccole e medie, a trattare seriamente (e nella maggior parte dei casi, del tutto) con la controparte sindacale. Negli ultimi anni è poi emerso il problema dei cosiddetti “contratti pirata”, firmati da sindacati non rappresentativi, a volte di comodo e con salari più bassi. Anche se dai dati Cnel e Inps coprono non più del 3% delle forze lavoro, la semplice possibilità anche ipotetica che i datori di lavoro possano aggirare i contratti di settore aderendo a quelli “pirata” non può che indebolire i sindacati.
15/11/2024
Il termine dato agli Stati dall’Unione europea per conformarsi alla direttiva 2022/2041 del Parlamento europeo e del Consiglio sui salari minimi
La via giudiziale al diritto ai salari minimi contrattuali è opaca e richiede di andare in giudizio, cosa per lo più impraticabile per i più vulnerabili. A questo punto non solo i sindacati ma, per certi versi ancor di più, le associazioni datoriali vedono il loro ruolo in discussione e dovrebbero sentire il bisogno di ritoccare regole del gioco pensate per un’era diversa, prima dell’euro, prima della crisi energetica, prima dell’esplosione di settori (logistica, lavoro di cura, servizi di sicurezza, consegne) caratterizzati da concorrenza selvaggia tra le aziende e nuove, ancora deboli e frammentate identità lavorative. La Direttiva europea sui salari minimi adeguati del 2023 (di cui si è discusso in un convegno internazionale alla Scuola Normale Superiore a Firenze il 22 marzo di quest’anno) rivela un interessante rovesciamento rispetto alle sue politiche di dieci anni fa, che predicavano flessibilità e decentralizzazione della regolazione dei salari. Nonostante non comporti un obbligo di introdurre un salario minimo, costringerà anche la politica a occuparsi della questione, riferendo a Bruxelles ogni due anni sui minimi salariali e la loro copertura, e impegnandosi a migliorare i dati a proposito (articoli 4 e 10).
Questo articolo è stato scritto da Guglielmo Meardi per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.
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