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Social Cohesion Note n.5 – Novembre 2019. Di Manos Matsaganis, Politecnico di Milano

L’Italia è uno dei pochi paesi sprovvisti di un salario minimo legale. L’istituzione di un tale strumento era previsto nella legge delega del Jobs Act del 2014. Anche se di fronte all’opposizione delle parti sociali quella delega non fu mai esercitata, essa ha stimolato un dibattito che in seguito ha portato alla presentazione di tre disegni di legge. Il primo, DDL 310 del 3 maggio 2018, firmato da Mauro Laus e altri dieci senatori del Partito Democratico, stabilisce un valore orario del salario non inferiore a 9 euro, al netto dei contributi previdenziali e assistenziali, da applicare a tutti i rapporti aventi per oggetto una prestazione lavorativa. Il secondo, DDL 658 del 12 luglio 2018, firmato da Nunzia Catalfo e altri otto senatori del Movimento Cinque Stelle, prevede una retribuzione minima di 9 euro l’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali (ovvero 8,15 euro al netto dei contributi). Il terzo, DDL 1132 del 11 marzo 2019, firmato da Tommaso Nannicini e altri sedici senatori del Partito Democratico (fra cui lo stesso Laus), supera la precedente proposta del Pd (DDL 310/2018), proponendo invece di riconoscere valore legale alla retribuzione minima stabilita dai contratti collettivi firmati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative (quindi di mettere fine ai cosiddetti “contratti pirata”), e di istituire una commissione per definire un salario minimo di garanzia per i lavoratori esclusi dalla contrattazione collettiva.

La prospettiva di una possibile introduzione anche in Italia del salario minimo legale ha suscitato paure e speranze. La principale speranza è che il salario minimo restituisca dignità ai lavoratori più deboli, eliminando la povertà tra i lavoratori. La paura, da parte delle imprese, è che le renderà meno competitive, aumentando il costo del lavoro. Infine, il timore dei sindacati è che il salario minimo legale indebolisca la contrattazione collettiva, trascinando verso il basso le retribuzioni delle categorie più deboli.

Non si può negare che per affrontare con successo problemi specifici e peculiari bisogna inventare soluzioni tagliate su misura, piuttosto che importarne prêt-à-porter. Ed è vero che alcuni aspetti del mercato del lavoro italiano, come per esempio il grande peso delle piccole e micro aziende nella struttura produttiva, oppure il ricorso a contratti pirata da parte di molte imprese, sono assenti (o molto meno presenti) altrove. Ma resta fermo che lo studio dell’impatto del salario minimo in altri paesi potrebbe essere ugualmente istruttivo.
Cosa insegnano le esperienze recenti di paesi come il Regno Unito e la Germania, che il salario minimo l’hanno introdotto davvero dopo dubbi e incertezze non dissimili da quelli italiani, o come la Grecia, dove il salario minimo, già in vigore da anni, fu tagliato piuttosto brutalmente nel periodo più buio della recente crisi finanziaria, nel disperato tentativo di fermare l’aumento vertiginoso della disoccupazione? Si potrebbe dire che, se queste esperienze molto diverse tra loro, hanno una lezione in comune, è che sia le paure che le speranze rischiano di rivelarsi eccessive.

Procediamo con ordine. Il salario minimo abolirà lo sfruttamento nei luoghi di lavoro (o almeno, più banalmente, la povertà tra i lavoratori)? Purtroppo non sarà esattamente così. Povertà significa basso reddito familiare, ed è determinata non solo dalla retribuzione oraria di chi lavora, ma anche da quante ore lavora, da quante altre persone lavorano nello stesso nucleo familiare, dalla loro busta paga, e ovviamente da tutti gli altri redditi che contribuiscono al bilancio familiare. L’utilità del salario minimo come strumento contro la povertà dipende molto da chi sono i soggetti che ne beneficiano perché hanno un salario basso: per usare due esempi estremi, se i lavoratori sottopagati fossero tutti studenti che abitano con genitori benestanti, il salario minimo non inciderebbe affatto sul livello generale della povertà, mentre se a beneficiarne fossero capofamiglia con figli a carico, il contributo del salario minimo alla lotta contro la povertà sarebbe rilevantissimo.

Il contributo del salario minimo alla riduzione della povertà è comunque possibile a una condizione: che la risposta dei datori del lavoro all’introduzione di un salario minimo legale considerato troppo alto non ne vanifichi i vantaggi per i lavoratori. Può succedere? In teoria, si. Nessuna legge può obbligare un’impresa a mantenere il numero di dipendenti e/o l’ammontare di ore lavorate raggiunti prima dell’introduzione del salario minimo.  Sarebbe troppo alto un salario minimo orario pari a 9 euro lordi, come specifica il disegno di legge presentato dal Movimento Cinque Stelle? Se consideriamo il rapporto fra salario minimo e salario mediano (ovvero il livello salariale posto al centro della distribuzione di tutti i salari del paese), nel 2019 i paesi europei si collocano fra il 40 (Spagna) e il 62 per cento, mentre secondo uno studio di Andrea Garnero, economista dell’Ocse, con 9 euro lordi all’ora il salario minimo in Italia porrebbe una soglia pari al 75-80 per cento del salario mediano: un valore molto elevato in termini relativi.

Nella realtà, tuttavia, le previsioni apocalittiche si avverano molto raramente (o quasi mai). Per esempio, alla vigilia dell’introduzione del salario minimo in Germania, autorevoli economisti suonarono l’allarme sull’imminente aumento della disoccupazione – le stime più pessimiste ipotizzavano la perdita di 4 milioni di posti di lavoro. Nel 2016, con l’economia in forte crescita, il livello di occupazione superò i 40 milioni posti di lavoro, con 1 milione 250 mila posti in più rispetto al 2014, l’anno dell’entrata in vigore del salario minimo a 8,50 euro orari lordi. Per quanto riguarda la distribuzione dei salari, l’effetto del salario minimo fu indubbiamente positivo: nell’arco di un anno i posti di lavoro pagati meno di 8,50 euro all’ora si ridussero da circa 4 milioni (aprile 2014) ad appena 1 milione 365 mila (aprile 2015).

Al contempo, in Grecia, la disoccupazione non smise di crescere anche quando il salario minimo fu tagliato del 22 per cento nel febbraio 2012. Il numero di occupati di quel mese fu superato solo nel marzo 2018, ovvero dopo ben sei anni. Una recente e rigorosa analisi dei dati greci ha trovato significativi effetti del salario minimo sui salari, ma non sui livelli di occupazione.

Di fronte all’introduzione di un salario minimo legale che ‘morde’ – cioè non così basso da risultare ininfluente – le imprese hanno infatti a disposizione diversi canali di aggiustamento. Da un lato, possono ridurre il personale, o meno drammaticamente l’orario di lavoro, o gli straordinari, o i premi di produzione, o altre prestazioni come il welfare aziendale. Dall’altro, possono ridurre il turnover, che comporta costi sia per i lavoratori coinvolti che per le aziende, riorganizzare i processi di produzione per renderli più efficienti, investire sui dipendenti per aumentarne la produttività. Inoltre, se le condizioni di mercato lo permettono, possono alzare i prezzi. Oppure possono semplicemente ignorare la legge, entrando in quella che eufemisticamente viene chiamata ‘economia sommersa’.

La reazione delle imprese dipende dunque innanzitutto dal livello del salario minimo. Se questo non è troppo alto  – quindi se ‘morde’, ma non troppo – le imprese tendono ad assorbire i costi senza necessariamente subire profitti più bassi. Un accurato studio recente di tre ricercatori dell’Ufficio studi della Commissione Salario Minimo tedesca ha quantificato la rilevanza delle diverse forme di aggiustamento analizzando i dati sulle risposte reali delle aziende tedesche all’introduzione del salario minimo. Nei settori più interessati (alberghi, ristoranti, servizi alla persona), molte aziende hanno ridotto gli orari, presumibilmente eliminando le ore di minore attività. Per il resto, i prezzi sono lievemente aumentati (nel contesto di un tasso di inflazione complessivo pari allo 0,3% nel 2015), il turnover è diminuito (del 3%), sono stati concessi meno bonus che in precedenza, mentre sono aumentate le infrazioni (temporanee, ipotizzano gli autori: con un po’ di vigilanza, quasi tutte le aziende si dovrebbero adeguare alle nuove regole).

E i sindacati? Che fine ha fatto la sacrosanta Tarifautonomie, ovvero il principio che gli stipendi vengono concordati dalle parti sociali tramite contrattazione collettiva, senza alcuna interferenza da parte del governo? A superare le resistenze iniziali della federazione sindacale DGB, e la ferma opposizione del potentissimo sindacato dei metalmeccanici (IG-Metall), hanno contribuito tre fattori. Primo, la campagna a favore del salario minimo è stata lanciata da un nuovo attore sindacale: ver.di, il sindacato dei lavoratori nei servizi. Secondo, le riforme degli anni ’90 avevano creato precarietà e insicurezza non solo ai margini del mercato di lavoro, ma anche al suo cuore: la stessa IG-Metall ha scoperto che ben 50 mila lavoratori tra i loro iscritti erano assunti dalle imprese del settore tramite agenzie interinali. Terzo, nel 2014, con il sostegno morale esterno del Partito Socialdemocratico al Parlamento, i sindacati dei lavoratori più garantiti decisero di sposare la causa dei loro compagni più precari, in una mossa esplicitamente ispirata alla solidarietà di classe. Pensavano che, così facendo, avrebbero sacrificato i loro interessi ristretti: “Se la Tarifautonomie non c’è più, perché iscriversi al sindacato?”. Non ci fu invece bisogno di sacrificare nulla. Per molti lavoratori tedeschi, la risposta alla domanda era: “Per ottenere stipendi più alti del minimo legale”; per altri era: “Per sostenere chi sa lottare per gli interessi di tutti i lavoratori, soprattutto di quelli meno protetti”. Senza dubbio, i sindacati tedeschi sono usciti da questa battaglia, che rischiava di dividerli, più uniti e con più prestigio di prima.
Sarà questo il destino del salario minimo legale anche in Italia? Non è detto. Ma il dibattito si fa interessante.

Manos Matsaganis, insegna al Politecnico di Milano ed è membro del comitato scientifico dell’Osservatorio per la coesione e l’inclusione sociale.

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