POLICY MEMO n.4 – Marzo 2017 – Di Marta Fana, IEP Sciences Po Parigi
La regolamentazione del lavoro accessorio, nel diritto del lavoro italiano, ha seguito un processo di continua liberalizzazione a cui ha fatto seguito un uso sempre più massiccio dello strumento. Nel 2016, i buoni lavoro venduti sono stati 133 milioni a fronte di circa 1,5 milioni di lavoratori coinvolti. Anche in altri Paesi dell’Unione Europea, il lavoro accessorio è contemplato dalla normativa come forma contrattuale atipica. Tuttavia, come si proverà a spiegare di seguito, il limite più grave della disciplina italiana risiede in due aspetti principali. Primo, i buoni lavoro sono utilizzati non soltanto per i piccoli lavori domestici a committenza privata, ma anche da committenti datoriali e amministrazioni pubbliche. Secondo, il prestatore di lavoro accessorio è considerato un lavoratore indipendente, quindi non subordinato, non gode di alcune tutele di welfare (per disoccupazione, malattia e maternità) ed è soggetto ad un’aliquota previdenziale molto ridotta (13% a fronte del 33% versato dai dipendenti), il che compromette l’accumulazione a fini pensionistici nel sistema pubblico contributivo.
I buoni lavoro: il caso Italiano
I buoni lavoro o voucher nascono nel 2003 con la Legge n. 30 (cosiddetta “Legge Biagi”) e l’art 70 e successivi del D.Lgs. n. 276/03 per regolare il lavoro accessorio di tipo occasionale. Le prestazioni di lavoro accessorio erano circoscritte a un numero limitato di attività: lavoro domestico; insegnamento privato supplementare; piccoli lavori di giardinaggio; pulizia e manutenzione di edifici e monumenti; realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli; collaborazione con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza o di solidarietà. Inoltre, solo un gruppo ristretto di potenziali prestatori poteva essere pagato con voucher: disoccupati da oltre un anno; casalinghe, studenti e pensionati; disabili e soggetti in comunità di recupero; extracomunitari regolarmente soggiornanti in Italia nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro. Il valore nominale di ciascun buono era fissato a 5,8 euro, al netto degli oneri assicurativi per Inail e Inps, lasciando alla contrattazione tra le parti la definizione della durata della prestazione coperta da ciascun buono; inoltre, l’attività per un unico committente non poteva superare i trenta giorni nell’arco dell’anno solare. L’intenzione da parte del legislatore era quella di favorire l’emersione del lavoro nero a carattere saltuario; tuttavia, il sistema dei buoni lavoro rimase inapplicato fino al 2008, quando si avviò la sperimentazione “nell’ambito dell’esecuzione di vendemmie di breve durata e a carattere saltuario”. In quell’occasione, fu modificato il valore nominale del voucher in 10 euro (al lordo degli oneri contributivi a carico del lavoratore; il valore netto di un voucher è di 7,5 euro), valore ritenuto coerente con la media oraria delle retribuzioni nel 2007 nel settore agricolo. Altre modifiche intervennero sia nel 2009 sia con la legge di stabilità per il 2010, fino alla definitiva liberalizzazione per tutti i settori economici, stabilita dalla “riforma Fornero” del 2012. La completa liberalizzazione fu accompagnata da restrizioni di carattere quantitativo: si stabilì che (tranne per il settore agricolo) un singolo buono non potesse remunerare più di un’ora di lavoro e fu introdotto il limite di 2000 euro quale reddito annuo percepibile come voucher dal lavoratore da ogni singolo committente (per i percettori di misure di sostegno a reddito il limite è, invece, di 3000 euro annui). Fra il 2012 e il 2014 il numero di voucher venduti crebbe sensibilmente, passando da quasi 24 milioni a 69 milioni. Da ultimo, nel 2015, il Jobs Act ha aumentato (da 5000 a 7000 euro) il tetto massimo di reddito annuo percepibile complessivamente come voucher, mentre sono rimasti immutati i limiti relativi all’importo dei voucher nell’anno ricevibili da ogni singolo committente. In termini economici, il voucher orario di 10 euro è composto da 7,5 euro di retribuzione netta per il lavoratore, 1,3 euro di contributo previdenziale all’Inps (versato alla Gestione Separata), 1,2 euro per la copertura assicurativa Inail e 50 centesimi di costi di gestione. Nell’attuale disciplina, il diritto alle ferie e malattia retribuite, così come la possibilità di godere dell’assegno di disoccupazione e ricollocazione o dell’indennità di maternità rimangono esclusi.
Il lavoro accessorio nei Paesi Ue
Il lavoro accessorio non è una fattispecie di lavoro atipico diffusa e regolamentata soltanto in Italia. All’interno dell’UE, si va dai contratti a zero ore ai part-time con un orario di lavoro inferiore alle dieci ore settimanali fino ai contratti non scritti. Lo strumento dei buoni lavoro (o voucher) si ritrova nelle legislazioni francesi e belga, pur presentando notevoli differenze rispetto al caso italiano. In Francia, lo strumento che regola il lavoro accessorio è il CESU, limitato esclusivamente alle prestazioni di lavoro a domicilio per un massimo di otto ore settimanali o quattro settimane consecutive. Contrariamente al caso italiano, al lavoratore sono riconosciuti tutti i diritti propri di un lavoratore subordinato: la remunerazione non può essere inferiore al salario minimo (lo Smic) cioè 8,2 euro orari (circa 1400 euro mensili); viene riconosciuto il diritto alla malattia e alle ferie e, infine, il monte ore lavorate fa cumulo per il diritto all’assegno di disoccupazione. Quindi, il diritto francese conferisce ai lavoratori occasionali pieni diritti sociali e li equipara ai lavoratori subordinati. Il modello belga, denominato titres-services fu introdotto, come in Italia, con l’obiettivo di fare emergere dal nero una serie di lavori domestici. Tuttavia, i titres-services sono utilizzabili esclusivamente per i servizi di pulizia e stiratura e vengono gestiti attraverso un’agenzia convenzionata: il lavoratore, prestatore di lavoro accessorio, è dipendente dell’agenzia o impresa con la quale stipula un “contrat de titres-service”, che può essere a tempo determinato o indeterminato. In ogni caso, il contratto a termine non può superare i tre mesi, pena l’automatica conversione a tempo indeterminato. In termini economici, ogni titolo costa all’utilizzatore, cioè il committente, 9 euro e può acquistarne un minimo di dieci e un massimo di 500 per ogni anno solare. A livello familiare, una coppia potrà acquistarne massimo di 1.000, con alcune eccezioni. La remunerazione oraria minima del lavoratore è 10,34 euro, superiore ai 9 euro pagati dal committente e al salario minimo (attualmente di 8,94 euro per ora lavorata). In particolare, la regione di appartenenza versa all’agenzia 22 euro, di cui 9 sono quelli versati dall’utilizzatore. Con questa somma, l’agenzia paga la retribuzione al lavoratore più tutti i costi sociali e previdenziali. Come per il caso francese, il lavoro occasionale è equiparato a quello subordinato in termini di diritti assistenziali come la disoccupazione, la malattia, le ferie ecc.
Proposte di policy
L’attuale istituto dei voucher come forma di regolazione dei rapporti di lavoro accessorio andrebbe abolita a favore dell’introduzione di un sistema che: a) riconosca al lavoratore occasionale le stesse indennità e coperture previdenziali di cui ha diritto un lavoratore dipendente; b) limiti l’uso del lavoro accessorio alle famiglie (escludendo quindi la PA, imprenditori/aziende, ma anche cooperative/associazioni/fondazioni). Una riforma di questo tipo, sebbene necessaria, non appare sufficiente a restituire piena dignità al lavoro e al lavoratore. Dovrà infatti essere integrata con una politica di più ampio respiro che riduca il ricorso ai contratti atipici e precari, primi tra tutti la somministrazione il lavoro a chiamata ma anche il contratto a termine così come modificato dal Decreto Poletti.
Per saperne di più:
European Foundation for the Improvement of Working and Living Conditions (EUROFOND), Flexible forms of work: ‘very atypical’ contractual arrangements, 2010
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