POLICY MEMO n.2 – Settembre 2016 – Di Francesca Campomori, Università Ca’ Foscari di Venezia
La crisi dei rifugiati
Nel 2015 i paesi dell’Unione Europea hanno ricevuto 1 milione e trecento mila domande di asilo. L’Italia è il quinto paese europeo per numero di domande ricevute (84.085 nel 2015) e il secondo, dopo la Grecia, per numero di arrivi di migranti forzati (153.842 nel 2015 e 170.100 nel 2014). L’arrivo dei profughi avviene in gran parte per mare su due rotte in particolare: la rotta del Mediterraneo centrale (verso l’Italia) e la rotta del Mediterraneo orientale (verso la Grecia). I profughi che partono dalla Libia e dalla Turchia compiono viaggi rischiosissimi e in alcuni casi dall’esito tragico: nel 2015 sono morte più di 3.600 persone. Un’altra rotta molto battuta, questa volta via terra, quella dei Balcani (764.038 persone sono entrate in UE da questa rotta), dalla fine del 2015 è diventata molto più inaccessibile a causa dei vari muri costruiti alle frontiere per impedire il passaggio dei profughi che tentano di andare verso il Nord Europa.
La maggior parte dei migranti forzati nel mondo (ad oggi l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite che assiste i profughi, ne conta 65,3 milioni) proviene da paesi in guerra. La Siria, l’Afghanistan e la Somalia producono più della metà dei migranti forzati e molti di loro sono minorenni. In Europa, il 2014 è stato l’anno in cui è scoppiata l’emergenza profughi soprattutto in seguito all’acuirsi della guerra in Siria. Alcuni paesi dell’Unione Europea hanno reagito alla crisi con espliciti tentativi di chiusura (come l’Ungheria) in contrasto con il diritto internazionale. L’Unione Europea, nel maggio del 2015, ha faticosamente raggiunto un accordo che, nell’ottica di una maggiore solidarietà tra gli stati membri nella gestione della crisi, prevede uno schema temporaneo per la ricollocazione (relocation) di 160.000 rifugiati in Italia e Grecia verso altri stati membri. Lo schema tuttavia non è riuscito a decollare e le persone ricollocate, a giugno 2016, erano solamente 2.280.
I limiti del sistema di accoglienza per i rifugiati in Italia
Un vero e proprio sistema di accoglienza dei migranti forzati in Italia non ha visto la luce fino al 2014, quando all’interno della Conferenza unificata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri è stata raggiunta un’intesa tra governo, regioni ed enti locali “per fronteggiare il flusso straordinario di cittadini extracomunitari, adulti, famiglie e minori stranieri non accompagnati”. Il sistema è stato messo a punto nel Decreto Legislativo n. 142/2015, che recepisce la direttiva europea sulle condizioni di accoglienza (n. 2013/33/Ue), e prevede tre fasi: una fase di primo soccorso e prima assistenza da svolgersi nei principali luoghi di sbarco o di arrivo; una prima accoglienza nei centri collettivi già esistenti o in centri da istituire ex novo, oppure in strutture “temporanee”; una seconda accoglienza all’interno della rete Sprar (Servizi per rifugiati e richiedenti asilo).
Tra gli aspetti positivi di tale riforma si rileva il coinvolgimento dei territori attraverso tavoli di coordinamento a livello nazionale e regionale. La rete Sprar, infatti, vede i comuni protagonisti dei progetti di accoglienza e integrazione in stretta collaborazione con gli stakeholder locali, il tessuto associativo e il terzo settore. Lo Sprar cerca di rispondere anche alla necessità di superare il modello dei grandi centri per rafforzare invece l’accoglienza diffusa, ritenuta più efficace.
La crisi dei rifugiati ha mosso anche le politiche europee: nel 2015 l’UE ha previsto, nei principali paesi di arrivo (Italia e Grecia), l’istituzione di hotspot, ovvero di centri dove provvedere all’identificazione e al fotosegnalamento delle persone che sbarcano. In Italia sono al momento attivi 5 centri, tutti collocati in Sicilia. Lo scopo degli hotspot dovrebbe essere di distinguere, in tempi rapidi, chi ha diritto alla protezione internazionale e chi no, facendo rimpatriare gli ultimi: di fatto però, molte associazioni umanitarie che aderiscono al Tavolo Nazionale Asilo hanno denunciato l’arbitrarietà di tali decisioni, che violano la normativa sull’asilo e tendono ad introdurre una distinzione tra migranti economici e possibili rifugiati solo in base al paese di origine. Allo stesso modo sono state denunciate anche le misure coercitive introdotte per rilevare l’identità dei migranti attraverso le impronte digitali.
Anche nel funzionamento dei Centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA) sono state rilevate diverse storture relativamente al rispetto dei diritti umani: “è noto come nei CPSA in assenza di un riferimento normativo e in nome di non precisate esigenze di identificazione e smistamento, i richiedenti asilo siano stati illegittimamente privati della propria libertà personale e trattenuti per settimane, in condizioni lesive della loro dignità personale” (ASGI 2015: 173). Nel 2015 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia dopo aver accertato le seguenti violazioni: violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza, a essere informati sul motivo dell’arresto e a presentare un ricorso effettivo; violazione del diritto di non subire espulsioni collettive e trattamenti inumani e degradanti.
Riguardo a quella che viene indicata come prima accoglienza i problemi principali delle strutture (CARA, centri di accoglienza dei richiedenti asilo; CDA, centri di accoglienza e CAS, centri straordinari di accoglienza) riguardano le grandi dimensioni e l’affollamento, l’isolamento dai centri urbani e la difficoltà nei contatti con la realtà esterna. Un ulteriore punto critico riguarda l’omissione di un limite temporale alla permanenza di questi centri, che rende più incerto il percorso di accoglienza. I tempi di attesa nei centri temporanei raggiungono facilmente i dodici mesi perché spesso corrispondono ai tempi di svolgimento dell’intera procedura di esame della domanda di protezione.
Il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) rappresenta la fase di seconda accoglienza e viene definito come il “perno” del sistema di accoglienza, esteso anche ai minori non accompagnati. Si specifica infatti che “eventuali soluzioni attivate in via d’urgenza dovranno avere un ruolo residuale e comunque tendere ai requisiti del modello Sprar” (Conferenza unificata del 10 luglio 2014). I servizi da garantire in ogni progetto della rete Sprar sono di livello elevato e puntano a costruire percorsi personalizzati di integrazione a partire dall’accompagnamento legale e la tutela psicologica e sanitaria fino alla riqualificazione professionale e l’orientamento lavorativo e abitativo.
L’accoglienza è garantita fino alla conclusione della procedura di esame della domanda e, qualora sia concessa la protezione, per ulteriori sei mesi, in alcuni casi prorogabili di altri sei. Il sistema Sprar si fonda su una rete di enti locali che realizzano progetti di accoglienza utilizzando come braccio operativo le organizzazioni del terzo settore. Il Ministero dell’Interno monitora gli enti locali aderenti alla rete ed eroga i finanziamenti ai comuni che partecipano ai bandi nazionali. La partecipazione dei comuni è volontaria e comporta che essi partecipino ad una percentuale di spesa con i loro fondi (fino al 2015 la percentuale di compartecipazione è stata il 20%, ma nell’ultimo bando è scesa al 5% per incentivare i comuni ad entrare nella rete Sprar).
La capacità ricettiva della rete Sprar è cresciuta significativamente dal 2011 al 2015 passando da 3.979 posti finanziati fino ai 20.965 posti del 2014-2016. Per il biennio 2016-2017 sono stati messi a bando ulteriori 10.000 posti, ma la risposta dei comuni è stata carente e ad oggi ne sono stati finanziati solo 3.200. Nonostante lo sforzo nell’aumentare i posti Sprar, il sistema di accoglienza italiano è ancora fortemente sbilanciato verso le strutture temporanee: il 70% dei migranti forzati è accolto in strutture di prima accoglienza, mentre solo il 20% accede ai percorsi di integrazione promossi dagli Sprar.
Dall’accoglienza all’integrazione: per una politica di investimento sociale
Le difficoltà del sistema italiano di accoglienza come abbiamo visto derivano in parte da alcune lacune nel decreto del 2015 (come la mancata precisazione dei termini di permanenza e delle condizioni di accoglienza nei centri di primo soccorso e in quelli di prima accoglienza), in parte da alcuni deficit nell’attuazione, dovuti anche alla lunghezza dei tempi di esame delle richieste di asilo, che mediamente si attesta sui 12 mesi. Emerge tuttavia anche un problema più ampio di impostazione globale di questo tema: fatta eccezione per qualche lodevole buona pratica messa in atto da organizzazioni del terzo settore e da alcuni enti locali, manca un’agenda politica a livello nazionale che prenda sul serio la necessità di politiche di integrazione dei rifugiati in uscita dal sistema di accoglienza, considerandola come un investimento sociale con ricadute sociali ed economiche positive sulla comunità locale invece che un mero costo per il welfare. Affinché questo accada è necessario in primo luogo potenziare la rete Sprar senza sacrificare gli alti standard di servizi garantiti: i percorsi più virtuosi di integrazione, infatti, cominciano dai centri Sprar, ma devono poter avere un proseguo ulteriore (una “terza accoglienza”) una volta scaduti i tempi dell’accoglienza qualora i beneficiari non avessero ancora raggiunto un’avanzata autonomia.
In secondo luogo, i percorsi di integrazione e di autonomia dovrebbero diventare parte di politiche nazionali e non essere lasciati all’iniziativa spontanea e volontaria degli enti locali o del terzo settore: a tal fine sarebbe necessario superare la volontarietà dei comuni nell’aderire alla rete Sprar e porre dei vincoli più stringenti per i comuni. Infine, il passaggio dall’accoglienza all’integrazione sarebbe probabilmente facilitato dall’introduzione di schemi di reddito minimo di inserimento di cui anche i rifugiati possano essere beneficiari (si veda: Policy Memo-Giugno 2016 a cura di Marcello Natili). In Italia, il possesso dello status di rifugiato non garantisce di essere accompagnati verso l’autonomia e non sono infrequenti i casi di rifugiati che vanno a infoltire i ghetti urbani e gli stabili occupati. Accanto a percorsi specifici per l’integrazione dei rifugiati (percorsi che ancora sono molto carenti) sarebbe importante poter contare su efficaci strumenti di contrasto alla povertà dedicati a tutti i residenti. Il reddito minimo di inserimento anche per i rifugiati va letto in un’ottica di politiche di investimento sociale: si investono risorse in persone, in larghissima parte giovani e con un alto potenziale lavorativo, che potranno diventare cittadini con diritti e doveri (inclusi quelli di contribuzione attraverso le tasse).
Per saperne di più:
ASGI, (2015) Il diritto di asilo tra accoglienza ed esclusione, Edizioni dell’Asino.
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