Social Cohesion Note n.4 – Luglio 2018. Di Francesca Campomori, Università Ca’ Foscari di Venezia
Il 2014 è spesso ricordato come l’anno di esordio della “crisi dei rifugiati”, alludendo all’alto numero di sbarchi sulle coste del sud Europa e all’impennata delle richieste di asilo in vari paesi europei. Quattro anni dopo, la retorica è rimasta quasi del tutto invariata nonostante sia diventato sempre più evidente che ci troviamo principalmente di fronte ad una crisi di governance tra i paesi dell’UE, incapaci di una visione comune sulla gestione dell’immigrazione, come emerso nel Consiglio Europeo del 28-29 giugno.
L’unica partnership possibile sembra quella finalizzata al contenimento dei flussi, che si sostanzia nel progetto volto a ridurre i fattori che spingono le persone a migrare (il famoso “aiutiamoli a casa loro”), nel rendere più restrittivo il contesto normativo e nell’esternalizzare il controllo dei confini fuori dai paesi UE.
Di fatto, dopo gli accordi con la Turchia (2016) e con la Libia (2017), gli sbarchi sono nettamente diminuiti (in Italia il 75% in meno rispetto ad un anno fa nello stesso mese), ma il panic discourse no, quello viene evocato con forza dal nostro Ministro dell’Interno per legittimare la chiusura dei porti e la criminalizzazione delle organizzazioni non governative che prestano soccorso ai migranti nel Mediterraneo. Appena insediato, il ministro Salvini ha voluto dare prova dell’energia con cui il nuovo governo intende affrontare il tema delle migrazioni: le navi delle ONG cariche di persone soccorse, alle quali è stato negato l’approdo, sono diventate oggetto di strumentalizzazione e simbolo dell’evidente invasione di migranti irregolari a cui l’Italia non può più sottostare. Le stesse argomentazioni sono state portate ai partner europei, in realtà con scarsi risultati. L’accordo faticosamente raggiunto nel Consiglio Europeo non fa altro che ribadire la volontarietà degli stati nel trasferimento dei richiedenti asilo e quindi nella loro accoglienza, senza cambiare di una virgola i punti cardine del Regolamento di Dublino (che danneggia l’Italia in quanto paese di frontiera dell’Ue), con buona pace della “voce grossa” che avrebbe dovuto portare ad una svolta epocale nel ruolo che l’Italia gioca nella partita sulle migrazioni dell’Unione.
Controllare e proteggere i confini sembra diventata la parola d’ordine, talvolta unita ad una versione più umanitaria che fa leva sulla necessità di fermare il traffico di vite umane. Si tace, tuttavia, sul fatto che da alcuni anni non esistono praticamente più modalità legali per migrare. Le migrazioni economiche sono diventate sinonimo di migrazioni irregolari, che dunque non meritano protezioni internazionali. Non si riflette però a sufficienza sul fatto che i migranti cosiddetti economici percorrono le vie illegali anche a causa dell’assenza di una concreta possibilità di essere inclusi in flussi regolari (le quote flussi, che negli ultimi anni sono state drasticamente ridotte).
Inoltre, il richiamo (falso) all’invasione e alla necessità di contrastarla fa perdere di vista il tema cruciale della qualità della ricezione e dell’integrazione dei richiedenti asilo e rifugiati già presenti in Italia. Un numero peraltro non impossibile da gestire: si parla di 354 mila persone (di cui 170 mila nelle strutture di accoglienza), a fronte del milione e 400 mila della Germania e delle 402 mila della Francia. I comuni che sono entrati nella rete SPRAR (Sistema di Protezione per Rifugiati e Richiedenti Asilo), che promuove percorsi di integrazione spesso attraverso il modello dell’accoglienza diffusa nei territori, sono ancora una minoranza (circa 1200 per un totale di 35.869 posti finanziati). L’80% dei richiedenti asilo è ospitato in centri straordinari (CAS) gestiti direttamente dai prefetti che non di rado si sono trovati ad aprire centri di accoglienza nonostante il parere contrario dei comuni di riferimento. E una volta usciti dai percorsi di accoglienza, anche quando si è ottenuta una protezione e quindi un diritto a risiedere nel paese, l’integrazione per molti rimane un sogno soprattutto a causa dell’estrema difficoltà a trovare una sistemazione abitativa. Lo scorso settembre è stato pubblicato un “Piano Nazionale di integrazione dei titolari di protezione internazionale” (che tuttavia esclude i titolari di protezione umanitaria, che rappresentano più del 20% dei permessi rilasciati). Sebbene in linea di principio questo documento rappresenti un passo in avanti (riguardo ai cui effetti, tuttavia, ad oggi è difficile fare una valutazione) il fatto che sia promosso dal Ministero dell’Interno rimanda all’idea che il controllo e la sicurezza sono l’essenza della politica migratoria, mentre le migrazioni sono una politica trasversale per eccellenza che dovrebbe attraversare molti ministeri e dipartimenti. Il modo in cui un governo pone e definisce un tema, i toni e le metafore che utilizza per descriverlo, e naturalmente il modo con cui agisce su di esso, influiscono non poco nel formare l’opinione pubblica di un paese. Un paese frammentato, diffidente e impaurito rappresenta un rischio per la coesione sociale e la convivenza quotidiana nelle nostre città. La percezione della sicurezza tra i cittadini diminuisce quando si è continuamente esposti ai panic discourse.
Francesca Campomori, insegna Politiche sociali all’Università Ca’ Foscari di Venezia ed è membro del comitato scientifico dell’Osservatorio per la coesione e l’inclusione sociale.
Per saperne di più:
Maurizio Ambrosini (2018) Irregular immigration in Southern Europe. Actors, Dynamics and Governance, Palgrave Macmillan.
Fonte: Sondaggio OCIS-SWG, 9 febbraio 2018.
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