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NOTA n.3 – Luglio 2023 – Di Maddalena Cannito, Scuola Normale Superiore

Come di consueto, anche nel maggio di quest’anno è stato pubblicato il Rapporto di Save the Children “Le equilibriste. La maternità in Italia” (Minello e Cannito 2023). Il Rapporto ha un titolo di per sé già molto evocativo perché ci ricorda che la genitorialità per le donne comporta destreggiarsi tra ostacoli che richiedono vere e proprie forme di equilibrismo per essere aggirati e che, talvolta, sono talmente insormontabili da determinare una rinuncia o al lavoro o alla maternità o a entrambe le cose.

Questa edizione del Rapporto, però, segnala anche un piccolo cambiamento culturale perché per la prima volta contiene una sezione dedicata alla paternità. Questa aggiunta è importante non tanto o non solo perché mette a tema le possibili difficoltà incontrate anche dagli uomini quando diventano genitori, ma soprattutto perché molti degli ostacoli sperimentati dalle madri e lo stallo in cui si trova il nostro Paese, in termini di fecondità e occupazione femminile, dipendono anche dalla mancata tematizzazione, nelle politiche come nelle pratiche, del ruolo dei padri.

Vediamo, allora, a che punto siamo in Italia sia sul fronte della divisione della cura dei figli e dell’impegno nel lavoro retribuito, sia sul fronte delle politiche che si rivolgono esplicitamente ai padri, per poi dare uno sguardo a possibili strumenti di policy futuri per invertire l’attuale rotta.

Pochi figli e poco lavoro (retribuito): la solitudine delle donne italiane

Nel 2022, in Italia, si è raggiunto il minimo storico delle nascite che sono state 392.598 (-1,9% rispetto al 2021, -26,5% in 10 anni) frutto non solo della rinuncia a fare figli o a farne più di uno, ma anche del posponimento della genitorialità (Istat 2023). L’età media al primo figlio, infatti, è ormai prossima ai 32 anni per le donne (oltre i 35 per gli uomini) (Ibidem) e il nostro paese si contraddistingue per un record di parti over 40 che nel 2021 hanno raggiunto il 10,2% (Boldrini et al. 2022).

L’aspetto interessante è che l’Italia si caratterizza anche per una bassissima occupazione femminile e, tuttavia, il dato non stupisce perché è ormai ben noto come l’impegno delle donne nel mercato del lavoro, lungi dall’essere un ostacolo, sia in realtà un elemento di sostegno alla fecondità. O meglio, l’occupazione è un fattore incentivante laddove il lavoro, soprattutto la sua qualità, permetta di fare figli. È vero, infatti, che la disoccupazione femminile non fa aumentare la fecondità – sono emblematiche in questo senso le regioni del Meridione dove, nel 2022, l’occupazione femminile era al 34,4%[1] e la diminuzione delle nascite è stata più marcata che nel resto d’Italia – ma è altrettanto vero che non tutti i lavori sono egualmente incoraggianti.

Nel primo semestre del 2022, infatti, nel nostro Paese, tra i contratti attivati per le donne solo il 15% era a tempo indeterminato e il 38,7% a termine, mentre il restante 46,3% si componeva di contratti variamente precari e discontinui (apprendistato, lavori stagionali, a somministrazione, lavoro intermittente), con una quota di contratti part-time che superava il 70% (Esposito 2022).

Inoltre, in Italia, il rinforzo occupazione-fecondità è unidirezionale perché avere figli continua ad un impatto negativo sul lavoro retribuito femminile. I tassi di inattività oltre che quelli di disoccupazione aumentano alla presenza di figli e all’aumentare del loro numero tanto che, anche laddove l’inattività femminile diminuisca, aumenta l’incidenza delle ragioni legate alla cura, indicando che l’uscita dal mercato del lavoro in presenza di responsabilità familiari si configura come un cul de sac da cui le donne non riescono ad uscire (Ibidem). Disoccupazione e inattività femminili, infatti, sono anche il risultato degli squilibri nella cura, come dimostra annualmente il rapporto sulle dimissioni volontarie (Ispettorato nazionale del lavoro 2021) che, nel 2021, ha visto le donne non solo rappresentare il 71% del totale dei lavoratori dimissionari, ma anche il 97,6% e il 93,8% di coloro che si sono dimessi per difficoltà a conciliare il lavoro con la cura per ragioni legate ai servizi di cura e per ragioni legate all’azienda

In questo quadro, dove sono i padri italiani? Nel nostro paese, in effetti, non solo siamo lontani dal modello di coppia a doppio reddito, ma ancora di più lo siamo dal cosiddetto universal caregiver model. Questo non è certo il modello prevalente in Europa (Martínez-Pastor et al. 2022), ma lo è ancora meno in Italia. Intanto, la genitorialità nel caso degli uomini ha un effetto estremamente incentivante sull’impegno nel lavoro retribuito: il tasso di occupazione nella fascia di età 25-54, nel 2022, schizza dal 71% degli uomini senza figli al 90% di quelli con figli, aumentando tra l’altro al crescere del numero di bambini minorenni presenti in famiglia (Minello e Cannito 2022).

Inoltre, seppure alcuni timidi miglioramenti non si possano sottovalutare, come il crescente coinvolgimento emotivo e pratico degli uomini più giovani con i propri figli, la divisione del lavoro di cura nelle coppie eterosessuali rimane molto sbilanciato. Questo è certamente dovuto al minor impegno nel mercato del lavoro femminile e dalla sua maggiore precarietà,

intermittenza e forma a tempo parziale. Tuttavia, come si diceva poco sopra, i modelli di lavoro sono anche il risultato del gap nella cura dei figli dato che solo il 30,6% degli uomini vi si dedica abitualmente (Bergamante e Mandrone 2022) e che si registra un divario di 20 ore settimanali tra uomini e donne (Ferraz Ignacio et al. 2020).

Le ragioni di questi squilibri sono numerose e complesse[2], ma tra queste spicca certamente il ruolo delle politiche sia nella possibilità di contrastarle sia nella loro riproduzione.

 

Le politiche per i padri in Italia in prospettiva comparata

Il quadro appena descritto chiama in causa la questione della divisione della cura dei/delle figli/e e delle possibilità offerte dalle politiche per conciliare famiglia e lavoro. Ovviamente, la cura può essere supportata in vari modi: economicamente; tramite servizi, attraverso ad esempio gli asili nido; fornendo tempo per la cura, attraverso i congedi. Le criticità sui primi due fronti sono ben note e in parte superate nel primo caso, attraverso l’istituzione dell’Assegno Unico Universale, mentre restano ancora gravi sul fronte degli asili nido con un tasso di copertura, per l’anno educativo 2020/2021, fermo al 27,2% e un’offerta pubblica solo del 49% (Istat 2022). Ciò che manca nelle politiche italiane, invece, è una piena consapevolezza dell’importanza del tempo per la cura che passa soprattutto dalla promozione dell’impegno maschile coi figli e che è un elemento centrale nella riduzione degli squilibri di genere e nel rilancio dell’occupazione femminile.

In questo senso il congedo di paternità e parentale – sui quali si tornerà a breve – si configurano come due strumenti essenziali proprio alla luce dell’alto investimento, anche in termini di tempo, che gli uomini italiani continuano a fare nel lavoro retribuito. Queste misure, infatti, sono pensate per dare tempo per la cura ai genitori che lavorano e, dunque, per permettere loro di conciliare partecipazione al mercato del lavoro e presenza con i figli.

Proprio alla luce delle caratteristiche del contesto italiano descritte nel precedente paragrafo sarebbe particolarmente urgente – e probabilmente efficace – combinare investimenti che promuovano l’occupazione femminile e, soprattutto, delle donne madri con altri che incoraggino la cura da parte dei padri lavoratori.

Tuttavia, l’Italia rimane un Paese con poca iniziativa su questo fronte: a titolo esemplificativo, nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) la parola paternità è citata una sola volta in relazione al Family Act (legge n. 32 dell’aprile 2022), nonostante la centralità – quantomeno dichiarata – della parità di genere, considerata un obiettivo strategico e trasversale al Piano che viene, però, declinata solo in termini di uguaglianza nel lavoro retribuito. Il nostro Paese, in effetti, generalmente si limita a adeguarsi alle Raccomandazioni e alle Direttive europee.

Il congedo di paternità, che ha compiuto 10 anni proprio l’anno scorso, con il Decreto legislativo 105 del giugno 2022 è stato elevato a 10 giorni obbligatori che è, tuttavia, la durata minima stabilita dall’articolo 4 della Direttiva 1158/2019 di cui il Decreto dava attuazione. Nonostante l’elevata indennità, pari al 100% dello stipendio, la sua durata è incomparabile rispetto ad altri Paesi europei che hanno colto l’occasione del recepimento della Direttiva per dare uno slancio in questa direzione: la Francia ha previsto 4 settimane, mentre la Spagna addirittura 16 di cui 6 obbligatorie, solo per fare alcuni esempi di Paesi a noi vicini (Koslowski e Blum 2022). Inoltre, lo stesso Decreto ha sì finalmente esteso il congedo di paternità anche ai dipendenti pubblici, oltre a quelli privati, ma non ha incluso i lavoratori autonomi e parasubordinati. Questo esclude, di fatto, molti uomini con condizioni lavorative non standard: per dare un ordine di grandezza, nel I semestre del 2022, solo il 50,3% dei contratti attivati per uomini under 29 riguardavano rapporti di lavoro di tipo subordinato di cui, peraltro, solo il 12,3% a tempo indeterminato (Esposito 2022). L’obbligatorietà, infine, è stata sancita con sanzioni amministrative che, si spera, possano renderla effettiva, visto che l’Inps ha stimato che nel 2021 solo il 57,6% dei padri aventi diritto ne avesse fatto uso (De Paola e Moro 2023).

Il traino europeo è stato limitato anche in materia di congedi parentali che sono stati solo parzialmente rivisti. Due sono gli elementi di novità più interessanti. Il primo, introdotto sempre con il D.lgs. 105/2022, è l’apertura del congedo parentale – diversamene da quello di paternità –anche a uomini lavoratori autonomi e parasubordinati e l’estensione del periodo indennizzabile che è passato da 6 a 9 mesi. Questo cambiamento è importante perché ogni genitore ha diritto a massimo 6 mesi di congedo per cui di fatto c’è una quota indennizzata di 3 mesi che non può essere trasferita; l’obiettivo è far sì che il congedo venga condiviso tra madri e padri. La seconda novità è frutto della Legge di Bilancio per il 2023 che ha elevato all’80% la retribuzione del primo mese di congedo, lasciando però invariata l’indennità al 30% per i restanti mesi. Se è tecnicamente possibile anche per il padre farne uso, certo è che l’indennità identica al congedo di maternità sembra piuttosto incoraggiare le donne a prolungare la propria astensione dal lavoro.

Per quanto riguarda il take up, nel 2021 (dati più recenti disponibili), i padri hanno rappresentato il 21% del totale dei fruitori di congedi parentali per una durata media di 25 giorni a fronte dei 62 delle madri. Questo significa che quelle (poche) donne madri che lavorano sono anche quelle che più spesso e più a lungo interrompono l’impegno nel lavoro retribuito per conciliare famiglia e lavoro. Inoltre, se è vero che i padri passano più tempo con i propri figli, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, questo non tende a non interferire con il loro impegno nel lavoro retribuito.

 

Uscire dallo stallo: proposte che guardano al futuro

Da diversi anni ormai, soprattutto a livello europeo, si discute su quali siano le caratteristiche fondamentali per ridisegnare i congedi parentali in modo che siano anche i padri a farne uso. Alcuni studi (ad es. Van Belle 2016) hanno evidenziato che, al netto delle irriducibili differenze fra Paesi, certe dimensioni rimangono fondamentali e in particolare: il livello di compensazione economica, la eligibility e le categorie di lavoratori coperte, la flessibilità, l’obbligatorietà effettiva, l’individualità del diritto, i bonus in denaro o in tempo se entrambi i genitori prendono il congedo.

Va in questa direzione il Disegno di legge 2125 presentato il 9 marzo 2021 dal Senatore Nannicini, in quota Partito Democratico, assegnato alla 11ª Commissione permanente (Lavoro pubblico e privato, previdenza sociale) il 15 ottobre 2021 e ancora in attesa di essere discusso. Le proposte contenute nel Ddl (Tab. 1) sono interessanti non solo perché riconoscono il valore, sia simbolico che economico della genitorialità e della cura prestata, ma anche perché equiparano i diritti e doveri materni e paterni (e di entrambi i genitori in coppie omosessuali). Inoltre, il Ddl annulla i trattamenti differenziati fra categorie di lavoratori e lavoratrici estendendo a tutti gli stessi diritti. Infine, propone modalità di lavoro flessibili che sono fondamentali per la condivisione delle cure (Martínez-Pastor et al. 2022) a condizione che, però, non indeboliscano ulteriormente la posizione lavorativa delle madri.

Tab. 1 Comparazione normativa attuale e Disegno di legge c.d. Nannicini

 

Normativa attualeDdl Nannicini
CONGEDO DI MATERNITÀ
Durata5 mesi obbligatori (obbligatorietà sancita con sanzioni penali)Invariata
Periodo di fruizioneDa 2 mesi prima del parto a 5 successiviInvariato
Modalità di fruizioneNon frazionabileInvariata
Indennità80%100%
BeneficiarieTutte le lavoratriciTutte le lavoratrici
CONGEDO DI PATERNITÀ
Durata10 giorni obbligatori + 1 facoltativo (obbligatorietà sancita con sanzioni amministrative)5 mesi obbligatori (obbligatorietà sancita con sanzioni penali)
Periodo di fruizionedai 2 mesi precedenti la data del parto fino ai 5 mesi successiviInvariato
Modalità di fruizioneSu base giornaliera (non oraria)Invariata
Indennità100%100%
BeneficiariSolo dipendenti pubblici e privatiTutti i lavoratori
CONGEDO PARENTALE
Durata10 mesi (elevabili a 11 se il padre ne usa almeno 3)12 mesi
Periodo di fruizioneEntro i 12 anni di vita dei figliEntro i 14 anni di vita dei figli
Modalità di fruizioneAnche su base orariaInvariata
Indennità9 mesi totali di cui il primo all’80% e i restanti al 30% (6 mesi indennizzati per ciascun genitore)6 mesi retribuiti all’80% e i restanti al 30% (6 mesi indennizzati per ciascun genitore)
Beneficiari/eCoperti anche lavoratori/trici autonomi e a gestione separata ma non equiparati ai dipendentiTutti i lavoratori e le lavoratrici
Misure aggiuntive correlateSistema di certificazione della parità di genere alle imprese con esonero dal versamento di una percentuale dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro (Missione 5 PNRR “Inclusione e coesione”)1) Part-time condiviso per 12 mesi nei primi 6 anni di vita dei figli con indennità a condizione che entrambi i genitori riducano (congiuntamente o in periodi diversi) l’orario di lavoro

2) Lavoro agile con un’indennità di condivisione se adottato (congiuntamente o in periodi diversi) da entrambi i genitori

3) Sostegno alle aziende:

– sollevare le microimprese dall’anticipazione delle indennità di congedo;

– sgravio del 50% sui contributi per personale con contratto a tempo determinato in sostituzione di lavoratrici e lavoratori in congedo e per lavoratrici e lavoratori in part-time condiviso

 

Da segnalare sono anche alcune iniziative dal basso e, in particolare, alcuni progetti europei tra cui “4E-PARENT”[3] che hanno tra i propri obiettivi proprio quello di svolgere un ruolo di advocacy per la riforma dei congedi parentali e di paternità verso proposte sempre più egualitarie. Questo tipo di progetti sono interessanti perché cercano di inserire il discorso sulla paternità in un più ampio quadro che include non solo il benessere delle bambine e dei bambini e degli stessi genitori e il perseguimento della parità di genere, ma anche orizzonti di più vasta portata quali la prevenzione della violenza contro le donne.

La paternità, insomma, ci riguarda tutte e tutti e può configurarsi come una leva di cambiamento dell’intera società.

 

Bibliografia

Bergamante F. e Mandrone E. (a cura di) (2022), Rapporto PLUS 2022. Comprendere la complessità del lavoro, Roma, Inapp, https://oa.inapp.org/jspui/bitstream/20.500.12916/3827/1/Bergamante_Mandrone_Rapporto-Plus-2022.pdf

Boldrini R., Di Cesare M., Basili F., Campo G., Moroni R., Romanelli M., Rizzuto E. e Trevisani V. (2022), Certificato di assistenza al parto (CeDAP). Analisi dell’evento nascita – Anno 2021, Roma, Direzione Generale della Digitalizzazione del Sistema Informativo Sanitario e della Statistica.

Cannito M. (2022), Fare spazio alla paternità. Essere padri in Italia tra trasformazioni del welfare, ambienti di lavoro e modelli di maschilità, Il Mulino, Bologna.

De Paola M. e Moro D. (2023), Papà a casa col bebé: quanto contano le norme sociali, https://lavoce.info/archives/100260/papa-a-casa-col-bebe-quanto-contano-le-norme-sociali/.

Esposito M. (a cura di) (2022), Gender Policies Report 2022, Roma, Inapp.

Ispettorato Nazionale del Lavoro, 2021, Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, ai sensi dell’art. 55 del Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151 – Anno 2021, https://www.ispettorato.gov.it/files/2022/12/INL-RELAZIONE-CONVALIDE-DIMISSIONI-RISOLUZIONI-CONSENSUALI-2021.pdf.

Ferraz Ignacio C., Rafael Mosquera Ruiz E., Da Cunha A., Cerdeira L. e Moura T. (2020), State of Europe’s Fathers: Men’s Caregiving in the European Union, Bruxelles, European Parliament.

Istat (2022), Offerta di nidi e servizi integrativi per la prima infanzia. Anno educativo 2020/2021, Roma, Istat.

Istat (2023), Dinamica demografica. Anno 2022, Roma, Istat.

Martínez-Pastor J., Teresa J. Fernández-Lozano I. e Castellanos-Serrano C. (2022), Caring Fathers in Europe: Toward Universal Caregiver Families?, in «Gender, Work & Organization», OnlineFirst, pp. 1-23.

Minello A. e Cannito M. (2023), Le equilibriste. La maternità in Italia, Roma, Save the Children,  https://www.savethechildren.it/cosa-facciamo/pubblicazioni/le-equilibriste-la-maternita-in-italia-2023

Van Belle J. (2016), Paternity and parental leave policies across the European Union, RAND Europe, Bruxelles.

__________

[1] Dati I.stat in Lavoro e retribuzioni.

[2] Per un approfondimento sullo “stato dell’arte” della paternità in Italia si rimanda a Cannito (2022).

[3] Per approfondimenti si rimanda a https://4e-parentproject.eu/ e a https://www.secondowelfare.it/primo-welfare/famiglia/sostenere-un-nuovo-modo-di-essere-padri-il-progetto-europeo-4e-parent/.

 

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