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POLICY MEMO n.7 – Novembre 2017 – Di Michele Raitano, Università di Roma “La Sapienza”

Il timore che le dinamiche del mercato del lavoro italiano, se non si modificano repentinamente, possano portare molti individui a versare pochi contributi a fini pensionistici – a causa dell’interazione di eventi sfavorevoli, quali periodi di non lavoro, bassi salari, contratti part-time involontari o ad aliquota ridotta – ha recentemente indotto studiosi e policy-makers a ragionare su come offrire un’adeguata tutela previdenziale ai lavoratori più svantaggiati all’interno di un sistema, come quello contributivo, in cui l’importo della futura pensione dipende dal montante dei contributi versati lungo l’intera carriera e, pertanto, non è altro che lo specchio dell’esperienza lavorativa precedente.

Con lo schema contributivo, che si applica interamente a chi ha iniziato a lavorare dal 1° gennaio 1996, vite lavorative meno fortunate si riflettono in una pensione d’importo proporzionalmente minore. Al di là dell’assegno sociale, concesso a tutti gli anziani che soddisfano una prova dei mezzi (anche a chi non ha mai lavorato), nel contributivo non è infatti prevista alcuna forma di redistribuzione solidaristica.

Come discusso nel fact sheet “Le pensioni domani”, qualora le carriere dei lavoratori più vulnerabili non dovessero evolvere positivamente nei prossimi anni, il rischio di limitata accumulazione contributiva nel corso della vita attiva appare non irrilevante per una quota cospicua di persone che hanno iniziato a lavorare dopo il 1995.

Le proposte in campo

Un intervento di tutela contro il rischio di ricevere una pensione d’importo limitato anche dopo una lunga vita attiva va pensato all’interno del sistema pubblico, dato che appare del tutto implausibile che un lavoratore povero, e con frequenti periodi di interruzione dell’attività, possa risparmiare per garantirsi un maggior consumo da anziano ricorrendo alla previdenza privata.

Il Governo, pur senza definire misure da inserire nella prossima Legge di Stabilità, ha iniziato a ragionare sulla possibilità di introdurre una forma di tutela per i lavoratori con pensione interamente contributiva, coerentemente con quanto delineato nell’accordo fra Governo e sindacati siglato a settembre 2016.

Un’idea circolata in ambienti governativi nelle ultime settimane, pur non specificata nei dettagli, prevede di ampliare la cumulabilità fra pensione e assegno sociale (attualmente solo 1/3 del valore della pensione è cumulabile con l’assegno sociale), in modo che nessun futuro pensionato, con almeno 20 anni di contribuzione, riceva una pensione di importo mensile inferiore a circa 660 euro. Diversamente da alcune idee circolate in precedenza nel Partito Democratico che prevedevano di tarare l’importo della prestazione garantita alla durata della carriera, si tratterebbe dunque di una integrazione di natura assistenziale, soggetta a prova dei mezzi, e di importo slegato da età di pensionamento e anzianità contributiva. Altre proposte (ad esempio, la proposta di legge degli onorevoli Damiano e Gnecchi, o quella presentata nella scorsa legislatura dagli onorevoli Cazzola e Treu) si basano, invece, sull’idea di riformare in modo strutturale il sistema pensionistico italiano, associando a una pensione contributiva con aliquota di finanziamento ridotta (ad esempio al 28%) una “prestazione di base”, d’importo pari all’assegno sociale, da pagare a tutti gli anziani indipendentemente dalla storia lavorativa.

Sia l’estensione dei limiti di cumulabilità fra pensione ed assegno sociale che l’introduzione di una pensione di base avrebbero il difetto di non differenziare gli importi in ragione della precedente storia lavorativa. L’idea di pensione di base incontra, inoltre, alcune criticità relative agli esborsi per il bilancio pubblico. Laddove essa non venisse associata a una decontribuzione strutturale, l’esborso futuro per il bilancio pubblico sarebbe chiaramente molto elevato (dovendosi moltiplicare l’importo dell’assegno sociale per tutti gli anziani). Laddove, invece, venisse introdotta insieme a una decontribuzione, si genererebbe un immediato onere per il bilancio pubblico a causa della necessità di finanziare le pensioni vigenti del sistema a ripartizione.

L’idea di pensione contributiva di garanzia

In realtà quando il Governo, a fine 2016, con l’allora sottosegretario Nannicini, aveva iniziato ad affrontare il tema della pensione di garanzia, aveva pensato a uno strumento di natura ben diversa da quanto attualmente in discussione, ispirato all’idea di una “pensione contributiva di garanzia” suggerita anni orsono da chi scrive.

Questa idea nasceva proprio dalla constatazione che, diversamente da quanto avveniva nel precedente schema retributivo, nel contributivo possono aversi pensioni di importo limitato anche se la vita lavorativa non è stata breve, ma è stata caratterizzata da frequenti eventi sfavorevoli. Ciò giustificherebbe una risposta di carattere previdenziale, basata cioè sulla ridefinizione della formula di calcolo della pensione, anziché di tipo assistenziale, come sarebbe una misura means-tested di mero sostegno contro la povertà.

In questa prospettiva, si dovrebbe inserire nello schema contributivo – che andrebbe senz’altro mantenuto come cornice perché incentiva gli individui a contribuire e stabilizza il bilancio previdenziale – un importo garantito, non uguale per tutti, ma legato agli anni di contribuzione (effettiva e figurativa o riconosciuta tale dai servizi per l’impiego) e all’età di ritiro, in modo da rendere l’importo coerente con la logica del sistema stesso, che mira a premiare chi lavora o è disposto a farlo di più (e quindi col principio “make contribution pay”).

La garanzia potrebbe, ad esempio, essere pari a 14.000 euro annui lordi (pari a circa il 60% del salario medio dei lavoratori ultra-cinquantacinquenni) in caso di pensionamento a 66 anni e 42 di anzianità, da ridurre o aumentare proporzionalmente in caso di carriere più o meno lunghe, tenendo conto degli anni di contribuzione e dei coefficienti di trasformazione alle diverse età di ritiro (ad esempio 10.630 euro a 63+35 anni o 14.900 euro a 69+40). Ogniqualvolta, per una data combinazione di età e anzianità, la pensione contributiva a cui si ha diritto in base ai contributi versati fosse inferiore alla prestazione garantita, la prima verrebbe integrata nella misura della differenza con la seconda.

Il finanziamento dell’integrazione sarebbe posto a carico della fiscalità generale (ma si potrebbe pensare anche a forme di finanziamento specifico) e comporterebbe un aggravio per il bilancio pubblico unicamente negli anni di corresponsione della prestazione integrata – dunque, trattandosi di un’integrazione da applicarsi nel solo schema contributivo, all’incirca dal 2040 in poi – quando la “gobba” della spesa pensionistica italiana dovrebbe attenuarsi sensibilmente.

La maggior spesa dipenderebbe dal livello di fissazione della soglia garantita e dall’evoluzione delle dinamiche di carriera individuale, che condizionano la probabilità per i lavoratori di ricevere prestazioni contributive inferiori ad essa. Tale maggior spesa sarebbe in parte compensata dai minori esborsi per prestazioni assistenziali, che verrebbero altrimenti erogate ai pensionati poveri, e sarebbe significativamente attenuata laddove si procedesse ad estendere ulteriormente gli ammortizzatori sociali (che, offrendo contribuzioni figurative, aumentano il montante contributivo) e a rendere più efficaci le politiche del lavoro e il controllo delle forme di lavoro sottopagate o falsamente autonome.

Dal punto di vista della target efficiency (raggiungere l’obiettivo desiderato al minimo co-sto), l’introduzione di una simile misura appare auspicabile, dato che consentirebbe di tutelare (ex post) esclusivamente chi avesse una carriera lavorativa lunga, ma fragile. Al contempo, si minimizzerebbero i disincentivi alla prosecuzione dell’attività da parte dei lavoratori (crescendo sia la pensione contributiva che la prestazione garantita con l’allungamento della carriera individuale) e lo stesso impatto sul bilancio pubblico: un sistema privo di garanzia incentiverebbe, infatti, l’evasione contributiva da parte di chi pensasse di non raggiungere una pensione di molto superiore all’assegno sociale.

In modo trasparente, si potrebbe poi decidere di tutelare maggiormente, in termini di garanzia pensionistica, alcune categorie di lavoratori – ad esempio chi fosse costretto a part-time involontari o dovesse trascorrere periodi di cura o di formazione ovvero di disoccupazione non indennizzata – conteggiando, ad esempio, tali periodi come anni di attività per il computo della pensione di garanzia.

L’equità del contributivo

Indipendentemente dalla specifica misura che si auspica verrà introdotta, il dibattito sulla “pensione di garanzia” ha il pregio di sgombrare il campo da un serio equivoco circa i fondamenti normativi/valoriali dello schema contributivo e che deriva dall’utilizzo del termine “equità attuariale” con riferimento alle tecnicalità di tale schema.

Il contributivo è, infatti, da alcuni ritenuto “equo” sia perché prevede uno stesso tasso di rendimento sui contributi versati per tutti gli appartenenti a una determinata coorte sia in quanto attuarialmente neutrale rispetto alle scelte individuali. Tuttavia, l’equità attuariale non va confusa con la giustizia distributiva: chi ritiene che la previdenza debba basarsi unicamente su un rigido meccanismo attuariale di controprestazione sta implicitamente accettando come “giusta” e immodificabile qualsiasi situazione che si crea nel mercato del lavoro.

In realtà, il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da molteplici diseguaglianze salariali e contrattuali che si riflettono anche nelle condizioni di salute e nella longevità attesa (l’applicazione di coefficienti di trasformazione che non differenziano per le condizioni di salute individuali genera una redistribuzione regressiva a causa della minore longevità delle persone meno abbienti). Tutto questo induce a ritenere che molte delle differenze nelle storie lavorative non siano il risultato di un “giusto” processo di mercato che vada tradotto e “cristallizzato” negli importi pensionistici. Una buona politica dovrebbe invece cercare di modificare i processi ingiusti e, in attesa di ciò, evitare che gli esiti sfavorevoli del mercato del lavoro condizionino anche i trasferimenti pensionistici pubblici.

Per saperne di più:

Jessoula, M., Raitano, M. (2015), La Riforma Dini vent’anni dopo: promesse, miti, prospettive di policy. Un’introduzione. Politiche Sociali/Social Policies, vol. 2, n. 3, pp. 365-381.

Leombruni, R., d’Errico, A., Stroscia, M, Zengarini, N., Costa, G. (2015), Non tutti uguali al pensionamento: variazione nell’aspettativa di vita e implicazioni per le politiche previdenziali, Politiche Sociali/Social Policies, vol. 2, n. 3, pp. 461-479.

Marano, A., Mazzaferro, C., Morciano, M. (2012), The strengths and failures of incentive mechanisms in notional defined contribution pension systems, Giornale degli Economisti e Annali di Economia, vol. 71, n. 1, pp. 36-70.

Raitano, M. (2011), Carriere fragili e pensioni attese: quali correttivi al sistema contributivo?, Rivista delle Politiche Sociali, n. 3/2011, pp. 99-130.

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