Ae n.273, settembre 2024
La strada verso il salario minimo.
Solo dieci anni fa non se ne parlava, oggi l’Europa ci obbliga ad affrontare il tema. Le difficoltà di applicazione causate dalla normativa interna non giustificano l’inerzia
Il salario minimo legale -tema inesistente in Italia solo dieci anni fa- è diventato centrale nello scontro politico. Rapido, semplice, trasparente, facile da applicare e controllare rispetto ai complessi minimi contrattuali. Migliorerebbe soprattutto le paghe di donne e stranieri, le categorie più esposte allo sfruttamento (salvo che l’attuale Ddl proposto dalle opposizioni escluda dal salario minimo proprio il lavoro domestico). In altri Paesi il salario minimo non ha spiazzato né danneggiato la contrattazione (anche se neppure l’ha aiutata). Il 70% della popolazione italiana si dichiara ora a favore del salario minimo. Il problema però è che ogni Paese ha istituzioni diverse e quelle italiane sono uniche: gli effetti di un elemento nuovo come il salario minimo variano molto a seconda del contesto nazionale.
L’Italia ha una struttura salariale particolare, con tabelle dai tanti livelli di cui il più basso è usato poco, con voci aggiuntive come tredicesima e indennità varie. Non è chiaro quali voci verrebbero coperte dal salario minimo e quali no: tra la paga oraria e quella complessiva la differenza arriva a toccare il 20% (il Ddl delle opposizioni, per poter tenere insieme Calenda e la sinistra su un numero -i nove euro-, rimane ambiguo). E solo l’Italia ha un “combinato disposto” come gli articoli 36 e 39 della Costituzione. Il primo garantisce “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. I tribunali lo hanno interpretato come diritto ai minimi contrattuali, ma se arrivasse un salario minimo legale, l’orientamento potrebbe cambiare: se il salario minimo venisse a bastare come criterio di “sufficienza”, lavoratori e lavoratrici perderebbero il diritto ai salari stabiliti dai contratti collettivi (per la gran parte a livelli più alti), nonché i vari altri benefici ivi compresi. Guadagnerebbero un diritto nuovo per perderne tanti vecchi, e con poco effetto sulla povertà lavorativa che in gran parte è dovuta alla scarsità di ore lavorate (part-time involontario, lavoro intermittente) più che alla bassa paga oraria. È quindi indispensabile associare il salario minimo a norme che rendano i contratti obbligatori, ma qui si apre il problema dell’articolo 39 sulla libertà sindacale: “ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione, possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.
70%
La quota della popolazione italiana che si dichiara favorevole al salario minimo (Fonte: Istituto demoscopico Noto).
Mancando un sistema legale di registrazione e verifica della rappresentanza, la Corte costituzionale già nel 1962 dichiarò incostituzionale l’obbligatorietà per legge dei contratti. Tra i giuristi c’è chi ritiene che lo stesso accadrebbe per le recenti proposte di legge in merito, a meno che non si regoli legislativamente il sistema della rappresentanza sindacale. Le difficoltà non giustificano l’inerzia. La Direttiva Ue sui salari minimi adeguati richiede a tutti i Paesi di rafforzare la contrattazione e la qualità dei dati sulla sua copertura. L’Italia ha quindi l’obbligo di guardare in faccia il problema: la copertura contrattuale teoricamente al 100% o quasi nasconde malamente una realtà dove in alcuni settori esistono dumping salariale e paghe da fame. Si dovrà fare qualcosa. In Germania la strada per il salario minimo nazionale fu preparata dall’introduzione, anni prima, di salari obbligatori nei settori critici con molti lavoratori stranieri distaccati. Misure focalizzate sono più giustificabili costituzionalmente, e inizierebbero a smuovere l’Italia dal circolo vizioso di bassi salari e bassa produttività.
Questo articolo è stato scritto da Guglielmo Meardi per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.
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