Ae n.261, settembre 2023

L’attività di cura non è un fardello da cui liberarsi.

Includere i diritti e i doveri dei padri nelle politiche di conciliazione è necessario ma in Italia il dibattito rischia di cristallizzare i consunti ruoli di genere

Anno dopo anno in Italia le nascite e il tasso di fecondità sprofondano mentre quello di occupazione femminile ristagna attorno al 50%. Nonostante l’ampia letteratura disponibile sul legame tra questi fattori, raramente si tematizza il ruolo maschile nella cura dei figli. Farlo significherebbe rivedere una serie di assunti di genere che caratterizzano il mondo del lavoro, il welfare state, le configurazioni familiari e le politiche economiche. In Europa, dagli anni Novanta e ancor più dagli anni Duemila, si è parzialmente messa in luce l’importanza del coinvolgimento paterno nella cura anche attraverso la promozione di congedi di paternità e parentali. Tuttavia, il discorso attorno alle misure da adottare è stato ampiamente
plasmato dal paradigma dell’investimento sociale: ciò ha fatto sì che l’attenzione si concentrasse, da un lato, sulla promozione dell’occupazione -in specie femminile- in linea con l’idea che tutti debbano (e vogliano) essere impiegati; dall’altro sull’implementazione di strumenti di conciliazione che permettessero ai genitori di “liberarsi dalla cura” per dedicarsi, appunto, al lavoro retribuito. Sebbene in alcuni Paesi le raccomandazioni europee in merito alla necessità di includere i diritti/doveri dei padri nelle politiche di conciliazione sia stato preso sul serio, questo non si può dire dell’Italia. Mentre la Spagna ha introdotto 16 settimane di congedo di paternità, di cui sei obbligatorie, nel nostro Paese siamo fermi a dieci giorni obbligatori più uno facoltativo. La riflessione in materia e il sostegno al coinvolgimento paterno nella cura sono perciò ancora più necessari in un Paese come l’Italia, caratterizzato da un welfare familistico e da modelli di genere più tradizionali. Questi, infatti, rischiano di venire rafforzati se si insiste sul solo valore del breadwinning, poiché questo è tradizionalmente il perno del modello dominante di maschilità, che si costruisce in contrapposizione a una femminilità centrata, invece, sulla cura dei figli. Il rischio, insomma, in un contesto socioculturale come quello italiano è di cristallizzare questi modelli e, paradossalmente, di polarizzare ancora di più i percorsi di vita maschili e femminili anziché di avvicinarli. Non a caso la genitorialità ha un effetto drammatico sull’occupazione femminile e fortemente incentivante, invece, sull’impegno nel lavoro retribuito dei padri: il tasso di occupazione nella fascia di età 25-54 degli uomini italiani, nel 2022, passa dal 71% di quelli senza figli al 90% di quelli con figli. L’assenza dei padri nelle attività di cura ha anche delle conseguenze sulle diseguaglianze di genere nel tipo di lavoro a cui uomini e donne hanno accesso quando diventano genitori.
Le madri in Italia non solo lavorano poco, ma quando lo fanno svolgono attività precarie, discontinue e hanno più frequentemente contratti part-time. Una situazione che, peraltro, causa anche diseguaglianze tra le donne, poiché rimangono sul mercato del lavoro solo quelle senza figli e con elevati titoli di studio che riescono ad accedere a professioni relativamente ben retribuite. Questo spiega anche perché nel 2021, in Italia, il gender pay gap -cioè il differenziale nelle retribuzioni legato al generefosse “soltanto” al 5% (ben al di sotto della media europea del 12,7%): se si considerano la scarsa occupazione e soprattutto le caratteristiche sopracitate del lavoro femminile, si stima che in Italia il divario sia in realtà al 43,7%. Nell’ormai inflazionata retorica della ripresa economica è quindi necessario ribaltare i termini del discorso rimettendo al centro la cura e restituendole il suo valore non solo economico -che in base alle stime si attesta fra il 15% e il 27% del Prodotto interno lordo dei Paesi Ocse- ma anche immateriale e simbolico, sia per le donne sia per gli uomini.
Preservandola dal diventare un peso da cui è necessario liberarsi per potersi impegnare nel mercato del lavoro.

 

Questo articolo è stato scritto da Maddalena Cannito per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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