Ae n.215, maggio 2019
Lavorare meno, lavorare tutti? Non è una panacea ma la riduzione dell’orario lavorativo è un tema di ricerca da esplorare con attenzione. E una possibile prospettiva di inclusione sociale
Già nel 2016, sulle colonne di Altreconomia, un articolo contenuto in questa rubrica dava conto della proposta di introdurre la settimana lavorativa di 32 ore. Era un’idea del movimento di protesta alla legge El Kohmri di riforma del cosiddetto mercato del lavoro francese. Idea che non ha avuto molto seguito: da allora, sotto il profilo della riduzione dell’orario di lavoro, la situazione legislativa in Francia è peggiorata sotto la presidenza Macron. Anche se la legge delle 35 ore rimane ancora in vigore.
Inoltre, sulla scorta di recenti studi sull’automazione del lavoro, il dibattito sulla necessità di redistribuire il lavoro si è rianimato. Con riferimento al caso italiano, il nuovo Presidente dell’INPS -Pasquale Tridico- in occasione della lezione inaugurale dell’anno accademico 2018-2019 del Master in Economia Pubblica dell’Università La Sapienza, ha dichiarato il 10 Aprile 2019 che “la riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario, è una leva per ridistribuire ricchezza e aumentare l’occupazione”. Ma abbiamo evidenza empirica di tale potenziali benefici?
30 ore
la durata media della settimana lavorativa del futuro. Forse
Diversi esempi contenuti in un recente rapporto della New Economics Foundation e dell’European Trade Union Institute (ETUI) confermano i molteplici effetti positivi della riduzione della settimana lavorativa in prima battuta sulla salute e sul benessere generale delle lavoratrici e dei lavoratori. Il rapporto ETUI (ETUI, 2018) è ancora più esplicito: “Per lo più, gli effetti positivi per la società sarebbero il risultato dei miglioramenti previsti in termini di distribuzione dell’occupazione, parità di genere, salute e sicurezza, stress, un’economia più sostenibile, etc.”. Inoltre, in tema di creazione di lavoro, pare ormai condivisa l’idea che l’introduzione della settimana lavorativa di 35 ore in Francia alla fine degli anni 90 abbia prodotto un incremento netto di 350.000-500.000 posti di lavoro. Così come altre esperienze in Svezia, Belgio, Paesi Bassi e Germania negli ultimi venti anni confermano i molteplici effetti benefici sia sull’occupazione sia sulla salute, sul benessere delle lavoratrici e dei lavoratori e sull’ambiente.
Tali esempi, peraltro, non tengono conto dell’impatto crescente che avrà l’automazione in termini di riduzione di opportunità di lavoro. A tal riguardo, non vi sono stime condivise in termini di contrazione di posti, ma condivisa è la prospettiva che l’automazione sfiderà il funzionamento attuale del mondo del lavoro nei Paesi più sviluppati. Redistribuire il lavoro potrebbe pertanto diventare sempre più una necessità per far fronte ad un futuro in cui le macchine avranno un peso sempre più rilevante nella produzione industriale e nei servizi.
Sebbene la riduzione dell’orario di lavoro non sia una panacea, oggi costituisce un tema di ricerca da esplorare con attenzione e una possibile prospettiva di politica pubblica per chi ha a cuore la coesione e l’inclusione sociale. Non si tratta di un tema nuovo: nuove o più impellenti (austerità permanente, automazione, etc.) sembrano essere le ragioni per indagare in modo rigoroso e avviare sperimentazioni di politica pubblica volte a verificare le virtù di un approccio che potrebbe offrire spazi di miglioramento delle condizioni di lavoro esistenti e maggiori opportunità di inserimento lavorativo per disoccupate e disoccupati.
Questo articolo è stato scritto da Paolo Graziano per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.
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