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POLICY MEMO n.3 – Novembre 2016 – Di Matteo Jessoula, Università degli Studi di Milano

Nel dibattito pensionistico italiano degli ultimi tre decenni si sono avvicendate, e in parte sovrapposte, due parole d’ordine. La prima, sostenibilità economica – in rapporto al PIL – e finanziaria – rispetto all’equilibrio tra contributi e prestazioni erogate – del sistema pensionistico pubblico. La seconda, adeguatezza dell’importo delle pensioni, specialmente a fronte dei ripetuti interventi volti a ridurre la generosità degli schemi pubblici di “primo pilastro”.

In questo quadro, e soprattutto con l’introduzione del sistema contributivo nel 1995, l’equità è stata intesa in un’accezione peculiare, come sinonimo di “neutralità” di stampo attuariale, cioè come: i) parità di rendimento dei contributi versati da individui differenti in diverse gestioni pensionistiche; ii) corrispondenza, a livello individuale, tra la somma dei contributi versati durante l’intera vita lavorativa e la sommatoria delle prestazioni percepite dopo il pensionamento. In questo senso, l’equità è stata invocata da esperti, partiti politici e parti sociali – anche trasversalmente rispetto alla collocazione destra-sinistra nonché ai ruoli funzionali (Confindustria e sindacati) – al fine di superare le “distorsioni” del sistema ereditato dai decenni precedenti.

Tuttavia, il susseguirsi di interventi di stampo prevalentemente sottrattivo[1] peraltro informati da tale principio di neutralità attuariale, e specialmente l’accelerazione del percorso di aggiustamento indotta dai provvedimenti adottati tra il 2009 e il 2011 (riforme Sacconi I e II, riforma Fornero) hanno recentemente riportato al centro del dibattito previdenziale il tema dell’equità in senso sostanziale o, se si vuole, letterale. Vediamo perché.

Vent’anni di riforme, i limiti della neutralità attuariale

La traiettoria di riforma negli ultimi due decenni ha mirato a riportare sul sentiero della sostenibilità economico-finanziaria il sistema pensionistico pubblico utilizzando di fatto due diversi strumenti. Da un lato, è stato introdotto il metodo di calcolo contributivo, neutro sul piano attuariale e rispetto al livello di reddito degli individui[2], oltre che dotato di potenti stabilizzatori automatici della spesa. Dall’altro, specialmente con le riforme del triennio 2009-11, è stato promosso un significativo aumento dell’età pensionabile, soprattutto per le donne: circa 7 anni in più tra il 2010 e 2018, quando l’età legale di pensionamento sarà completamente armonizzata – tra uomini e donne e tra le diverse categorie professionali – a 66 anni e 7 mesi. Un incremento, questo, che per rapidità non ha sostanzialmente pari nell’UE 28.

I dati comparati presentati nell’Ageing Report e nel Pension Adequacy Report pubblicati dalla Commissione Europea nel 2015 ci dicono sostanzialmente due cose. Primo, che per effetto di tali misure il sistema pensionistico italiano è pienamente sostenibile – con un decremento previsto della spesa sul PIL (pari al 15,7% nel 2013) di circa mezzo punto percentuale fino al 2025, un successivo aumento fino al picco del 15,8% attorno al 2035-40 e una successiva lieve diminuzione. Secondo, che il livello delle pensioni è previsto aumentare, moderatamente, nei prossimi decenni – con un tasso di sostituzione nel 2053 superiore tra gli 1 e 5 punti percentuali rispetto a quello del 2013. Sostenibilità e adeguatezza, dunque.

Possiamo quindi concludere “tutto bene”? Non proprio. Il punto cruciale da mettere a fuoco è che la “quadratura del cerchio” – cioè la combinazione virtuosa di adeguatezza e sostenibilità – poggia su alcune specifiche condizioni. In primis, va detto che l’incremento atteso del tasso di sostituzione è dovuto all’innalzamento dell’età pensionabile, quest’ultima peraltro automaticamente agganciata alle variazioni dell’aspettativa di vita. Tale “aggancio” dovrebbe portare l’età legale di pensionamento a sfiorare i 70 anni nel 2050, producendo un sostanziale aumento dell’età media di uscita effettiva dal mercato del lavoro – +5,1 anni tra il 2013 e il 2060, il secondo incremento più alto in Europa. Inoltre, l’aumento del tasso di sostituzione è previsto nel caso di un lavoratore con livello di reddito medio e carriera piena, cioè con durata della contribuzione tra i 40 e i 44-45 anni [3] – un requisito che appare irrealistico per l’individuo medio e lo è certamente per i soggetti più svantaggiati.

Le condizioni su cui riposa l’efficace combinazione di sostenibilità e adeguatezza non paiono perciò soltanto di difficile realizzazione, ma richiedono anche di essere attentamente osservate attraverso la lente dell’equità. Ma cosa intendiamo per equità sostanziale, o letterale, come accennato sopra? E cosa significa, concretamente, perseguire l’equità in campo pensionistico?

L’equità, quale e perché?

La prima, semplice, definizione riportata nel Vocabolario Treccani ci suggerisce la prospettiva indicando con “equità” l’applicazione di principi di “giustizia […] temperati da umana e indulgente considerazione dei casi particolari”. Perseguire l’equità in un sistema pensionistico significa, pertanto, porre attenzione al profilo distributivo degli effetti delle riforme pensionistiche, andare oltre gli indicatori “di sistema” per coglierne le implicazioni con riferimento alle diverse figure professionali, a mansioni più o meno usuranti o anche solo faticose, alle differenti storie lavorative e ai casi particolari, appunto. Allo stesso modo, significa fare attenzione al fatto che il disegno delle regole pensionistiche e gli effetti delle riforme non vadano sproporzionatamente a detrimento dei lavoratori più deboli.

Tale prospettiva si può applicare, in effetti, a diversi aspetti delle regole previdenziali, specialmente ai requisiti di accesso al pensionamento e al livello delle prestazioni. Pertanto, con riferimento all’equità e dunque con l’obiettivo di costruire un sistema pensionistico in grado di combinare sostenibilità economica, adeguatezza e coesione sociale, alcune considerazioni sembrano opportune rispetto all’attuale situazione italiana.

La prima considerazione è che in Italia – così come in quei paesi nei quali è previsto un sensibile incremento di età pensionabile ed età di uscita dal mercato del lavoro (Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia, Cipro, Danimarca, Spagna) – lo stesso mercato del lavoro dovrà essere in grado di assorbire l’aumento di manodopera disponibile – con l’ausilio di efficaci politiche occupazionali – se non si vuole correre il rischio di un significativo aumento della disoccupazione tra i lavoratori anziani – fenomeno peraltro già emerso durante la Grande Recessione. La seconda considerazione riguarda proprio il profilo “distributivo” delle conseguenze sociali degli interventi delineati sopra. Si devono infatti disegnare e implementare accorgimenti atti a far sì che, da un lato, il rischio di disoccupazione non investa in modo sproporzionato le categorie professionali più deboli e, dall’altro, che siano previste forme di pensionamento agevolato per quei lavoratori che, per ragioni di salute o altro, non possono rimanere attivi fino al raggiungimento di età pensionabili tanto elevate.

Allo stesso modo, il profilo distributivo va tenuto in considerazione quando si valutano i tassi di sostituzione attesi, che come abbiamo visto rimangono elevati – attorno all’80% netto – per i lavoratori con carriere lunghe e non frammentate. Sul punto, i dati contenuti nell’Adequacy Report sono da considerare attentamente, in quanto mettono in evidenza le criticità tipiche dei sistemi di tipo contributivo. Infatti, il livello atteso della pensione – espresso nei termini del tasso di sostituzione – si riduce in modo molto significativo per coloro che non riescono (o non possono) soddisfare le stringenti condizioni delineate sopra. In particolare, per un lavoratore con carriera “breve” e dunque contribuzione pari a 30 anni, il livello della pensione si riduce di 25 punti percentuali rispetto a quello di un lavoratore che inizia l’attività a 25 anni e rimane occupato ininterrottamente fino all’età pensionabile. In 18 paesi nell’UE28 tale decremento si mantiene moderato – entro i 15 p.p. – mentre l’Italia appare tra i paesi nei quali le regole pensionistiche più penalizzano questo tipo di lavoratori. Risultati non dissimili appaiono dal confronto tra il livello della pensione per un lavoratore costretto ad abbandonare l’attività lavorativa prima dell’età pensionabile – ad esempio a causa di licenziamento – e dunque con 5 anni di disoccupazione prima del pensionamento e quello di un lavoratore occupato ininterrottamente dai 25 anni all’età pensionabile: qui l’Italia presenta il dato più penalizzante nell’UE28, con una riduzione prevista di 15 punti percentuali, mentre in 14 paesi tale diminuzione è contenuta al di sotto dei 5 p.p.. A ciò si aggiunga, infine, che l’Italia è tra i tre paesi dell’UE in cui l’impoverimento relativo dei pensionati dopo l’entrata in quiescenza – per effetto dei meccanismi di indicizzazione (o perequazione) delle pensioni – è più elevato: circa -13 punti percentuali in 10 anni.

Un cantiere sempre aperto: qualche coordinata per il dibattito

I dati appena presentati circa il profilo distributivo di due decenni di riforme pensionistiche in Italia mostrano come, affinando l’analisi nella prospettiva dell’equità e della coesione sociale, si scorgono facilmente i nervi scoperti del sistema pensionistico pubblico[4]. Ciò significa che, se consideriamo come dati i vincoli di finanza pubblica per i decenni futuri – anche in ragione dell’elevata spesa pensionistica e del sotto-finanziamento di importanti comparti del welfare state italiano (lotta alla povertà e politiche di conciliazione in primis) – il dibattito e le proposte di intervento dovranno necessariamente mirare a delineare soluzioni che risolvano ciò che possiamo definire il “trilemma” delle pensioni: l’efficace combinazione di sostenibilità, adeguatezza e, last but not least, equità. Il cantiere previdenziale è dunque destinato a rimanere aperto e, tra l’altro, alcuni passaggi recenti suggeriscono che proprio la nozione di equità in senso sostanziale possa divenire la “bussola” per gli attori coinvolti nel processo di policy making. Se già l’uscita del presidente Inps Tito Boeri un paio di mesi orsono – “il problema è l’equità” non la sostenibilità finanziaria del nostro sistema pensionistico – era stata rivelatoria in questo senso, anche alcuni degli interventi previsti dal governo nella Legge di Stabilità 2017 muovono – pur con eccessiva cautela e una non del tutto efficace calibratura degli interventi[5] – nella medesima direzione.

Inoltre, lo scorso settembre, governo e sindacati hanno firmato un verbale d’intesa che prevede, a conclusione della prima fase di negoziazione sui contenuti della Legge di Stabilità 2017, una cosiddetta Fase II, rispetto alla quale le parti significativamente “si impegnano a proseguire il confronto per la definizione di ulteriori misure di riforma del sistema di calcolo contributivo, per renderlo più equo e flessibile, per affrontare il tema dell’adeguatezza delle pensioni dei giovani lavoratori con redditi bassi e discontinui, per favorire lo sviluppo del risparmio nella previdenza integrativa, mantenendo la sostenibilità finanziaria e il corretto rapporto tra generazioni insiti nel metodo contributivo”[6].

Al proposito, se rimane da valutare fino a che punto il metodo contributivo costituisca la cornice più opportuna per affrontare efficacemente le criticità menzionate[7], si può affermare che la politica pensionistica sta divenendo vieppiù una questione di distribuzione e re-distribuzione. L’auspicio è, dunque, che la menzionata Fase II possa rappresentare un importante – e ben fondato sul piano dell’evidenza empirica – snodo della politica pensionistica italiana con l’obiettivo di (ri-)disegnare un sistema pensionistico sostenibile sul piano economico e capace di mantenere la coesione sociale, tra e all’interno delle generazioni.

[1] Si contano almeno 8 importanti riforme delle pensioni in Italia tra il 1992 e il 2011.
[2] Ciò significa che, al netto del tetto retributivo oltre il quale non si versano contributi, il rendimento dei versamenti e dunque il tasso di sostituzione non variano al crescere/diminuire del reddito da lavoro.

[3] Si veda il Fact Sheet “Pensioni, a che punto siamo dopo la crisi?” a cura di M. Jessoula in questa Newsletter e sul sito https://osservatoriocoesionesociale.eu.

[4] Come argomentato altrove, il sistema di previdenza complementare, lungi dal contemperare le criticità messe qui in evidenza, rischia al contrario di esacerbarle. Si veda M. Jessoula e M. Raitano, I nervi scoperti del sistema pensionistico italiano, “Il Mulino”, n. 3/2016.
[5] Si veda il contributo d M. Baldini, E. Casabianca e E. Giarda, No-tax area e quattordicesime, cosa cambia per i pensionati, su Lavoce.info.
[6] Verbale di intesa tra Governo, CGIL, CISL e UIL, firmato il 28.9.2016.
[7] È interessante segnalare, al proposito, che il metodo contributivo è in vigore solo in quattro dei 28 paesi dell’UE.

Per saperne di più
European Commission (2015), The 2015 Ageing Report. Economic and budgetary projections for the 28 EU Member States (2013-2060), Brussels.

European Commission (2015), The 2015 Pension Adequacy Report: current and future income adequacy in old age in the EU, Brussels.

M. Jessoula (2009), La politica pensionistica, Bologna, Il Mulino.

M. Jessoula e M. Raitano (a cura di) (2015), La riforma Dini vent’anni dopo: promesse, miti, prospettive di policy, Special Issue di “Politiche Sociali”, n. 3/2015.

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