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NOTA n.5 – ottobre 2023 – di Manuela Naldini, Università di Torino

La denatalità: un fenomeno strutturale

Nel 1960, anno di inizio del periodo del baby boom (1960-1964), l’Italia poteva contava su 1 milione di nascite, nel 2021 su 400.249. I dati per il 2022 mostrano che per la prima volta dall’Unità d’Italia, i nati sono scesi sotto la soglia dei 400.00, attestandosi a 393 mila nati, meno 184.000 rispetto al 2008 (ISTAT 2022).

Fig. 1 Il crollo delle nascite

 

Tabella 1: Numero di nati 1960-2022

AnnoNascite
19601,000,000
2008576,659
2012534,186
2021400,249
2022393,000

Fonte: Istat, 2022

Perché le nascite diminuiscono? Da un punto di vista demografico, il numero dei nati è riconducibile a due fattori: 1) la ‘propensione’ degli individui in età riproduttiva a fare figli; 2) il numero di potenziali genitori.

In Italia la denatalità è solo in parte riconducibile al primo fattore, alla scelta di posporre – anche se è un dato di fatto che l’età media al parto continui a salire e si è attestata a 32,4 anni nel 2022 – o alla rinuncia al progetto genitoriale. Fattori, questi, che contribuiscono inconfondibilmente alla riduzione delle nascite e che non lasciano intravedere segnali di inversione di tendenza, come mostrano i dati sulla continua crescita della quota di donne che hanno il primo figlio dopo i 40 anni, da un lato, e dall’altro, sulla crescita del numero di donne che alla fine del periodo riproduttivo rimangono senza figli. Si tratta prevalentemente di donne childlesness, perché le childfree (senza figli per scelta) sono ancora una minoranza nel nostro paese, come suggerisce il dato ormai consolidato del fertility gap, ossia la differenza tra figli desiderati e fecondità realizzata, molto alta in Italia.

Tuttavia, il fattore più rilevante per comprendere la bassa natalità è il persistente fenomeno della bassissima fecondità, che in Italia dura da oltre 30 anni e che ha ridotto il numero dei potenziali genitori, a fronte di saldi migratori con l’estero che non consentono di compensare tale riduzione. L’Italia è dentro una ‘trappola demografica’: i pochi figli del passato, ossia i genitori di oggi, sono sempre meno e sempre più vecchi. La denatalità, come esito della riduzione delle donne in età riproduttiva, diventa cioè un fenomeno strutturale, che vincola al ribasso non solo le nascite attuali, ma anche quelle future (Mencarini e Vignoli 2018). D’altro canto a seguito della Pandemia ci si attende un’ulteriore contrazione delle nascite, come mostrano già i dati ISTAT sopra richiamati (Tab.1).

Alla crisi demografica fanno però da corollario altre crisi. Innanzitutto, quella occupazionale, per la bassa partecipazione delle donne e dei giovani al mercato del lavoro. Il tasso di partecipazione delle donne supera di poco il 50% – di molto inferiore rispetto al livello europeo. I dati sui NEET (giovani Not in Education, Employment or Training, ovvero coloro che non studiano e non lavorano) così come quelli relativi alla disoccupazione giovanile e all’alta diffusione del lavoro povero (working poor) completano il quadro poco edificante in cui si trovano a vivere i e le giovani e le loro famiglie oggi. L’Italia non è un paese per i giovani, non solo se guardiamo ai dati sulla dispersione scolastica e ai NEET, fenomeni questi che riguardano prevalentemente i giovani a bassa istruzione, ma anche se guardiamo alla popolazione giovanile altamente istruita. In Italia anche molti giovani laureati (o dottori di ricerca) sono costretti ad emigrare per trovare un lavoro adeguato rispetto alla formazione ricevuta e raramente rientrano: la cosiddetta ‘fuga dei cervelli’. Nel 2020 circa 23.000 giovani laureati nella fascia 25-39 sono andati a vivere all’estero, pari a 8,6 emigrati ogni 1000 laureati nella stessa fascia d’età.

Alla crisi demografica ed occupazionale si accompagnano divari strutturali e ampie disuguaglianze sociali: dalle vecchie e nuove divisioni territoriali tra Nord e Sud, alla diffusione dei working poor, al fenomeno persistente dell’alta incidenza della povertà economica, soprattutto tra i minori – 1 bambino su 10 vive in povertà assoluta, 1 su 4 in povertà relativa – ma anche la presenza in allarmante crescita della povertà educativa (si veda su questo il numero monografico della rivista Il Mulino dal titolo ‘L’Italia dei divari, il N. 4/2022).

 

Diventare genitori in un contesto ostile

Per capire come sostenere la fecondità è importante agire innanzitutto sui fattori strutturali, accrescendo – anche attraverso un aumento di migranti e una diminuzione di giovani che vanno all’estero – il numero delle potenziali madri, ma anche sul versante delle scelte individuali sostenendo quelle positive di fecondità. Ma come si configura oggi una decisione cruciale per gli individui e per la società come quella di avere figli? Tre sono i grandi cambiamenti osservabili. Innanzitutto è cambiato il se si diventa genitori (il figlio è il frutto del desiderio), il come (si pensi alle nuove possibilità aperte dagli scenari della procreazione medicalmente assistita) e il quando (sempre più tardi), ma ad essersi trasformata è soprattutto l’essenza della genitorialità: dai padri e dalle madri non ci si attende più solo un’attività di accudimento o di accompagnamento alla crescita, ma qualcosa (molto) di più. Si tratta di un modello di genitorialità ‘intensiva’ che opera forti pressioni sia sulle madri sia sui padri, seppur per ragioni diverse. Sul versante femminile agisce, a livello di definizione della identità femminile, il ‘mito della maternità’. Non poche sono le pressioni sociali a diventare madre, ma poi una volta che lo si diventa lo sforzo richiesto alle donne è enorme, soprattutto sul fronte della conciliazione tra maternità e lavoro. Sul versante maschile, a livello di definizione della propria identità, agisce il ‘mito del lavoro’. Da un lato, gli uomini se lavorano hanno più probabilità di avere figli e, se padri, più probabilità di lavorare di più e più ore; dall’altro, gli uomini fuori dal mercato del lavoro sono svantaggiati anche sul piano personale e difficilmente mettono su famiglia. Il tutto entro un contesto sociale e culturale caratterizzato da scarsa condivisione della cura tra padri e madri e da limitata parità di genere: anche se alcuni segnali di trasformazione verso un modello più coinvolto e accudente di paternità stanno emergendo, meno incoraggianti appaiono i segnali sul fronte della condivisione del lavoro familiare, in primis quello domestico.

Entro questo quadro di mutamento del significato della genitorialità, ma anche di mancati riequilibri di genere, è rilevante capire come per una giovane donna o un giovane uomo la scelta di avere un figlio, o averne un altro, si coniuga con la transizione alla vita adulta e con altre esperienze di vita, dall’autonomia abitativa alle scelte professionali. Avere un figlio, infatti, è una scelta cruciale nella biografia personale e familiare, non solo perché – a differenza di altre transizioni (uscire di casa, iniziare il primo lavoro, andare a convivere, ecc.) – diventare genitore segna una svolta non più reversibile, ma anche perché tale decisione non può essere vista come indipendente da altre scelte, bensì ha bisogno di inserirsi in un processo di autonomia, di realizzazione personale e di benessere articolato. Avere un figlio, o un figlio in più, e la scelta di lavorare, per esempio, devono essere rese compatibili sia attraverso misure di conciliazione, sia tramite una più ampia condivisione tra padri e madri del lavoro di cura e familiare, con congedi genitoriali rivolti soprattutto ai padri.

Nel contesto italiano, invece, più che altrove, alti livelli di disoccupazione giovanile, contratti precari, carriere lente, stipendi con cui è difficile sostenere il costo della vita, scarsi o inesistenti servizi e soprattutto percorsi lavorativi tortuosi – situazioni peraltro ulteriormente deteriorate dalle recenti crisi –  fanno sì che siano i giovani ad essere i più colpiti e a dover sospendere i propri progetti sul futuro. D’altra parte, diverse ricerche mostrano che una volta che il figlio tanto desiderato arriva, il contesto aziendale e lavorativo non si presenta come particolarmente friendly, sicuramente verso le madri (si vedano a titolo di esempio i dati Ispettorato del lavoro sulle ragioni delle dimissioni volontarie delle donne), ma anche verso i padri più ‘innovatori’ (quelli che assumono la cura come parte integrante del loro essere genitore), le cui implicazioni sul lavoro nel caso di utilizzo del congedo genitoriale possono essere ancora più penalizzanti che per le madri.

 

Come invertire la rotta?

A causa della natura strutturale della denatalità nel nostro paese più passa il tempo più diventa difficile invertire la curva negativa. È importante, pertanto, che le politiche se ne occupino. Sul versante delle politiche sociali la situazione italiana si è contraddistinta per una forte debolezza storica (ancorché duramente messa alla prova dalla pandemia prima e dalla contenuta crescita economica ora), sia in termini di politiche a sostegno dell’autonomia economica e abitativa dei giovani, sia per la presenza di un quadro frammentato e poco generoso di politiche a sostegno della famiglia con figli (con una sola recente rottura rappresentata dall’introduzione dell’Assegno unico universale), della conciliazione famiglia-lavoro e del sostegno alle pari opportunità.

Per contrastare problemi strutturali e di lunga durata serve un approccio altrettanto strutturato e di lunga durata. È necessario lavorare sul versante della riduzione delle diseguaglianze di genere e generazionali, predisponendo contesti favorevoli alla buona crescita di bambini e bambine. All’interno di un’economia sempre più basata sulla conoscenza, e a partire da un approccio che vede la spesa sociale non come un costo ma come un “investimento sociale”, è importante introdurre e implementare politiche e soprattutto servizi che vadano nella direzione di “creare, mobilitare e proteggere il capitale umano” (Hemerijck 2020 e Garriztmann et al 2022). Lavorare in vista della ‘creazione’ di capitale umano significa investire sistematicamente nelle giovani generazioni, a partire dai più piccoli e fin dalla nascita (anche con forme di contrasto alla povertà educativa) fino a sostenere la formazione e i percorsi di autonomia economica ed abitativa dei e delle giovani. La questione delle pari opportunità nel processo di crescita (art. 3 della Costituzione) è centrale non solo dal punto di vista dell’equità, ma anche della sostenibilità sociale ed economica. In tale direzione, l’investimento nelle nuove generazioni significa investire in servizi di qualità dalla primissima infanzia, per combattere la povertà educativa fin dalle sue origini, lavorare nella direzione di una maggiore qualificazione dei giovani fino all’università, anche rafforzando il sistema scolastico per contrastare la dispersione, specie dei ragazzi e delle ragazze di origine straniera.

A proposito della ‘mobilitazione’ del capitale umano in primo luogo delle donne e dei giovani, va detto che in una prospettiva di “investimento sociale” sono innanzitutto necessari strumenti che allo stesso tempo favoriscano l’occupazione femminile e la riduzione delle disuguaglianze di genere, attraverso servizi per l’infanzia ed extra-scolastici,  oltre che tramite misure volte a favorire il riequilibrio di genere nella condivisione del lavoro famigliare, ampliando e investendo in congedi di paternità, conciliazione famiglia-lavoro, parità salariale e accesso alle mansioni e alle carriere. Sul versante della mobilitazione dei giovani appaiono prioritarie tutte quelle misure che promuovono la transizione tra scuola e lavoro e gli investimenti volti a ridurre la disoccupazione giovanile, la dispersione scolastica e il fenomeno dei Neet.

Inoltre, rispetto all’obiettivo della ‘protezione’ del capitale umano, va sottolineato come il sistema di protezione del reddito sia un tassello cruciale. Dopo il recente smantellamento del Reddito di Cittadinanza, è necessario un ripensamento complessivo nel senso di investire in una misura universale in grado di tutelare il reddito sia di fronte all’instabilità lavorativa, sia di fronte alla povertà, tenendo presente che nel nostro paese avere un lavoro non protegge dal rischio di povertà, come il fenomeno dei working poor (fortemente in crescita) segnala. La diffusione del lavoro povero non interroga solo l’adeguatezza e l’equità dei sistemi di protezione sociale: interroga anche la sostenibilità economica e sociale di un sistema economico che produce e riproduce lavoratori e lavoratrici marginali.

Da ultimo, non per importanza, in un contesto come quello italiano nel quale il 70% delle famiglie possiede una casa in proprietà e le politiche a lungo l’hanno favorita anche con finalità di welfare, le politiche abitative, se mirate anche a sostenere l’autonomia dei giovani e la formazione della famiglia, non dovrebbero incentrarsi sull’acquisto della casa, ma su misure di facilitazione o calmierazione degli affitti, come avviene in diverse altre città europee

In conclusione, si rimarca la necessità di favorire un clima generale che garantisca, da un lato, il diritto alle pari opportunità ad una buona crescita fin dalla prima infanzia fino al sostegno all’autonomia dei giovani (dalla famiglia di origine) e dall’altro, l’introduzione di nuove forme di sostegno alla formazione delle famiglie. Famiglie tutte, comprese quelle di origine straniera (attraverso politiche favorevoli a saldi migratori stabili e positivi), incluse le ‘nuove’ famiglie come quelle omogenitoriali o separate. Lavorare al contempo alla costruzione di un modello di lavoro che promuova la cultura della parità e della paternità (si veda Nota OCIS di Cannito https://osservatoriocoesionesociale.eu/osservatorio/la-paternita-in-italia-uno-sguardo-alla-situazione-presente-e-alle-politiche-future/), in cui anche i padri prendono il congedo e si occupano di cura, può gettare le basi per sostenere l’occupazione femminile e le scelte di fecondità.

 

Per saperne di più

Filandri, M. e Tucci V. Una casa per i giovani, un problema per tutti, https://www.rivistailmulino.it/a/una-casa-per-i-giovani-un-problema-per-tutti.

Gighi, R. e Naldini, M. (2022), Introduzione, “Un Paese sempre più diseguale”. In: L’Italia dei divari (a cura di R. Ghigi e M. Naldini) La Rivista Il Mulino, n. 520 .

ISTAT, Statistiche report, indicatori di nascite Anno, 2022

Hemerijck, A. (2015), “The Quiet Paradigm Revolution of Social Investment”, in: Social Politics: International Studies in Gender, State & Society, doi: 10.1093/sp/jxv009

Garritzmann, J. L. Häusermann, S, and  Palier, B. (2022) Social investments in the knowledge economy:The politics of inclusive, stratified, and targeted reforms across the globe, in: Social Policy and Administration, Vol 53, Issue 1

Mencarini; L.  e Vignoli, D.  2018, Genitori cercasi. L’Italia nella trappola demografica, UBE.

Naldini, M. (2015) (a cura di), La transizione alla genitorialità. Da coppie moderne a famiglie tradizionali, Bologna, Il Mulino

 

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