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POLICY MEMO n.1 – Giugno 2016 – Di Marcello Natili, Università degli Studi di Milano

Crisi economica e povertà assoluta in Italia

La recente pubblicazione del rapporto annuale dell’Istat ha messo nuovamente in luce la situazione drammatica in cui versano milioni di famiglie italiane. Oltre 4,1 milioni di italiani vivono in condizione di povertà assoluta; di questi, più di un milione sono minorenni. Una fotografia simile è fornita dall’Istituto di Statistica Europeo (Eurostat), che calcola l’incidenza degli individui in condizione di grave deprivazione materiale, ovvero impossibilitati ad acquistare beni considerati necessari per avere una vita dignitosa, come un telefono o un pasto proteico almeno una volta ogni due giorni. L’Italia è il Paese europeo in cui durante la crisi tale indice è cresciuto maggiormente tra i paesi dell’area Euro (più 65,7% dal 2007 al 2014): nel 2014 sono 7,1 milioni gli individui in condizione di grave deprivazione materiale, circa l’11,6% della popolazione residente. Di questi, più di 1,4 milioni ha meno di 18 anni.
Questi dati sottolineano l’esistenza in Italia di un problema sociale che credevamo risolto, ed invece è tanto rilevante quanto poco presente nel dibattito pubblico: la povertà assoluta, di cui soffre anche un numero davvero elevato di bambini e bambine.
Per contrastare efficacemente il rischio di povertà ed esclusione sociale, gli altri paesi europei – ad eccezione della Grecia – hanno da tempo introdotto schemi di reddito minimo garantito. L’Italia, negli ultimi vent’anni, ha fatto qualche timido passo in questa direzione, seguito però da rapide marce indietro. Così, la sperimentazione avviata nel 1998 del Reddito Minimo d’Inserimento non è stata estesa all’intero territorio nazionale, e alcune sperimentazioni effettuate a livello regionale – in Campania, Friuli Venezia Giulia, Lazio e Sardegna – sono state fermate quando coalizioni di centro-destra hanno conquistato il governo regionale.
Oggi, alcune regioni italiane stanno di nuovo muovendosi sul tema del reddito minimo in contrasto alla povertà[1]. Ancora una volta, ciò avviene in ordine sparso e col rischio di un debole coordinamento con il livello nazionale, parimenti impegnato nell’allargamento all’intero territorio nazionale del Sostegno di Inclusione Attiva (SIA). In un intervento precedente (si veda: Fact SheetGiugno 2016) abbiamo mostrato come nel caso spagnolo le regioni abbiano assunto un ruolo fondamentale nel contrasto alla povertà assoluta: è possibile che questo avvenga anche in Italia?

[1] Si tratta di Basilicata, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Puglia e Sardegna, cui bisogna aggiungere le più consolidate esperienze in Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta.

Regioni e reddito minimo in Europa

Esiste una varianza notevole tra gli schemi di reddito minimo introdotti negli altri paesi dell’Unione Europea. La letteratura comparativa ha mostrato come essi varino in termini di generosità, durata della copertura, requisiti d’accesso, grado di condizionalità e percorsi d’integrazione lavorativa e sociale. Inoltre, alcuni autori hanno mostrato come esistano differenze notevoli anche in tema di assetto di governance e configurazione istituzionale. Sebbene in tutti i casi il livello sub-nazionale svolga un ruolo importante, questo cambia significativamente nei vari contesti nazionali. Semplificando, è possibile affermare che nei paesi anglo-sassoni – ma anche in Francia –  le politiche di contrasto alla povertà sono regolate e finanziate a livello nazionale, mentre il ruolo delle regioni si limita all’implementazione delle direttive centrali. Nei paesi Nordici – ma anche in Germania e in Olanda – lo Stato centrale stabilisce degli standard minimi che devono essere garantiti sull’intero territorio, mentre ai governi locali spetta la regolazione del sostegno monetario e l’organizzazione delle politiche di attivazione e di integrazione connesse con lo stesso trasferimento economico. Infine, in paesi come la Spagna e (fino a qualche anno fa) l’Austria, il livello sub-nazionale nel corso del tempo è divenuto l’attore fondamentale nelle politiche di contrasto alla povertà, assumendo competenze esclusive in assenza di un quadro legislativo nazionale che stabilisca degli standard minimi, garantisca il coordinamento e l’integrazione tra i differenti strumenti, sostituisca i governi regionali in caso d’inadempienza e si assuma il compito di favorire la diffusione delle pratiche migliori.

Ad oggi, è difficile stabilire con certezza a quale di questi modelli appartenga l’Italia. Storicamente, i comuni erano il primo – e sovente unico – attore istituzionale impegnato nel contrasto alla povertà. Nel corso degli ultimi vent’anni, sia lo Stato centrale sia alcune Regioni hanno sperimentato misure innovative, senza che si sia ancora giunti a una riforma organica, che non solo garantisca il sostegno al reddito per gli individui in difficoltà, ma stabilisca una chiara architettura istituzionale e compiti specifici per ciascun livello di governo. Il governo Renzi si è recentemente impegnato ad estendere all’intero territorio nazionale il Sostegno all’Inclusione Attiva: un sussidio economico a nuclei familiari in situazioni di estremo disagio in cui siano presenti minorenni, nessun componente in età attiva sia occupato e almeno un componente abbia lavorato nei 36 mesi precedenti la richiesta. A fianco della misura nazionale, in tempi recenti, alcune regioni – tutte governate da coalizioni di centro sinistra – hanno introdotto schemi regionali di reddito minimo. Si tratta di Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Molise, Puglia, Sardegna e Valle d’Aosta, cui dovrebbe a breve far seguito anche l’Emilia Romagna. Queste misure sono tra loro molto differenti, in termini di generosità, durata, struttura di governance e percorsi di “attivazione”, ma tutte prevedono un sostegno economico continuativo per tutti gli individui con un reddito inferiore a una determinata soglia – l’importo base per un individuo solo va da un minimo di 210 euro in Puglia a un massimo di 540 nella Provincia Autonoma di Trento – subordinato alla partecipazione a un progetto di inclusione sociale e/o lavorativa.

Verso un nuovo modello di protezione del reddito in Italia?

Queste recenti innovazioni mostrano come finalmente la povertà sia entrata nell’agenda di policy italiana e consentono di sperare nell’introduzione strutturale di uno schema di reddito minimo tra le misure a sostegno del reddito in Italia. Il contemporaneo, e tuttavia non coordinato, intervento da parte di differenti livelli di governo pone tuttavia alcune criticità. In particolare, il rischio è che si creino duplicazioni e buchi di copertura: mentre una famiglia con un disoccupato di lungo periodo in Trentino può accedere a due diversi strumenti, una giovane coppia piemontese, cui è terminato il contratto a progetto, può trovarsi senza nessun sostegno economico. Allo stesso modo, in alcuni contesti, al supporto economico si associano elaborati servizi di accompagnamento che sono invece completamente assenti in altri contesti territoriali: ad esempio, in Friuli Venezia Giulia viene realizzato un sofisticato sistema di profilazione individualizzata che permette ai beneficiari, a seconda delle proprie caratteristiche personali, di accedere a diversi percorsi di integrazione.

Per questo motivo è necessario arrivare a un coordinamento territoriale: una chiara definizione delle competenze permetterebbe a ogni livello istituzionale di specializzarsi in un determinato settore, garantendo ai cittadini una più uniforme tutela della protezione contro il rischio povertà.

Allo stesso tempo, occorre imparare dalle esperienze realizzate nel passato decennio, il cui limite principale è stata la breve durata e l’assenza di continuità. Gli schemi di reddito minimo sono misure complesse, che richiedono capacità di stimare il reddito per determinare chi, tra i richiedenti, ha diritto ad accedere, e una notevole capacità di integrazione tra i servizi sociali, sanitari e i centri per l’impiego, al fine d’individuare quali sono i percorsi d’integrazione sociale e lavorativi più adatti, in base alle competenze del singolo individuo. In altri termini, richiedono un investimento nelle infrastrutture e nelle capacità amministrative, e tempi adeguati per garantirne una corretta applicazione. Affinché questo possa avvenire, è necessario che la politica garantisca un sostegno di lunga durata al contrasto alla povertà. Non può più accadere come in passato che il cambiamento di maggioranza politica determini l’abbandono dell’impegno pubblico in questo settore. La politica italiana sembra ancora in ritardo su questo fronte: la possibile introduzione di uno schema di reddito minimo ancora oggi accende vivide discussioni e conflitti di natura politica, tra l’altro generalmente non supportati da una corretta informazione sul tema. Questo non accade nel resto d’Europa, dove si discute molto su specifici aspetti – ad esempio, la necessità di avere importi più generosi, oppure il tipo di misure di “attivazione” da affiancare al sostegno economico – ma dove una prestazione monetaria rivolta a tutti i residenti in condizione di povertà assoluta è considerata un fatto di civiltà, indipendente dal colore e orientamento politico di chi governa.

Per saperne di più:

Bahle, T., Hubl, V. e Pfeifer, M. (2011). The Last Safety Net. A Handbook of Minimum Income Protection in Europe. Bristol: The Policy Press.

Gori, C. et al. (2016) Il reddito d’inclusione sociale (Reis), Bologna, Il Mulino.

Halvorsen, R. e Hvinden, B. (2016) Combating Poverty in Europe- Active Inclusion in a Multi-Level and Multi-Actor Context, Edward Elgar Publishing.

Granaglia, E. e Bolzoni, M. (2016) Il reddito di base, Ediesse.

Natili, Marcello (2016) Changing welfare in Southern Europe? Political competition and the evolution of regional minimum income schemes in Italy and Spain in Politiche Sociali (Social Policies) Vol. 2/2016.

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