Ae n.214, aprile 2019
In Italia il dibattito sulla povertà continua a essere inquadrato nella dicotomia “lavoro” o “assistenza”. Un errore, come dimostra la quota di working poor.
La Commissione europea definisce come in-work poor (Iwp, o working poor) chi, in età compresa fra i 18 e i 64 anni, lavora almeno 6 mesi l’anno e vive in una famiglia in condizioni di povertà relativa (il cui reddito disponibile equivalente è, cioè, inferiore al 60% della mediana nazionale). L’indicatore europeo di in-work poverty non misura, dunque, chi lavora ricevendo un basso salario, ma chi, fra i lavoratori, vive in nuclei in condizioni di povertà relativa.
Una persona con un salario molto basso può non trovarsi in una condizione di Iwp se vive, ad esempio, in un nucleo con altri percettori di reddito, mentre, in base a questa definizione, può essere working poor chi riceve un salario dignitoso ma il suo reddito non è sufficiente ai bisogni di un nucleo familiare numeroso in cui è l’unico lavoratore.
L’Italia è caratterizzata da un Iwp molto alto: la quota di working poor nel 2017 era pari al 12,3%, a fronte di un valore medio nella Ue del 9,6%. L’incidenza dell’Iwp nel nostro Paese è aumentata di 1,2 punti percentuali dal 2012 al 2017. Tra i lavoratori, gli autonomi sono caratterizzati da un rischio di Iwp più elevato dei dipendenti (rispettivamente 19,5% vs 10,1%), mentre il rischio per gli uomini è superiore a quello delle donne, dato che le lavoratrici, sebbene in media meno retribuite degli uomini, vivono con maggiore frequenza in nuclei con più percettori di reddito, mentre gli uomini sono, tuttora, in molti casi gli unici percettori nelle famiglie italiane. Le caratteristiche del nucleo familiare sono pertanto il fattore chiave dell’in-work poverty, così come definita dall’indicatore europeo, come confermato dall’evidenza che il rischio di Iwp aumenta rapidamente quando cresce il numero di figli a carico.
Nel nostro Paese la condizione di working poor discende da un’interazione perversa di bassi salari annuali percepiti da un’alta quota di lavoratori e dal numero limitato di percettori di reddito in molte famiglie. Per far fronte all’Iwp appaiono necessarie misure che incrementino i redditi da lavoro -rafforzando il potere di contrattazione dei sindacati- e che favoriscano l’occupazione di chi vive nei nuclei familiari più svantaggiati, in primis tra le donne e nel Sud. Tuttavia, negli ultimi anni, ben poche politiche hanno affrontato in modo diretto l’Iwp in Italia.
L’unica misura introdotta con l’obiettivo di aumentare le retribuzioni medio-basse è stato il “bonus 80 euro”, che, tuttavia, basandosi sul salario individuale, indipendentemente dal reddito familiare, e non essendo pagato a chi ha un reddito talmente basso da risultare incapiente a fini fiscali, non ha rappresentato nei fatti una misura molto efficace per proteggere dal rischio. Anche gli sgravi fiscali sui salari pagati dalle imprese come premio di produttività non appaiono in grado di ridurre significativamente l’Iwp, dato che le imprese che pagano questi premi e offrono contrattazione di secondo livello ai dipendenti sono solitamente quelle che già pagano salari ben superiori a quelli medi.
Lo stesso Rei ha avuto un effetto limitato sull’Iwp, data la poco generosità di questo strumento mentre, in quest’ottica, più efficace potrebbe risultare il reddito di cittadinanza, in particolare se le politiche di condizionalità che lo accompagnano dovessero rivelarsi ben disegnate, nonostante anche questa misura si rivolga ai poveri tout-court più che ai working poor. Ma come è evidente anche nella discussione sul reddito di cittadinanza, l’idea che essere impiegati sia una condizione sufficiente per evitare la povertà è ancora molto radicata nel dibattito italiano.
Questo articolo è stato scritto da Michele Raitano per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.
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