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NOTA n.1 – Febbraio 2021 – Di Ilaria Madama, Università degli studi di Milano

1. Introduzione

L’espressione “location matters”, ripresa recentemente dal gruppo di ricercatori dell’Osservatorio Opportunity Insights[1], rimanda in modo efficace alla tesi secondo cui le caratteristiche del luogo dove le persone crescono e vivono sono cruciali nel plasmare le opportunità di vita individuali. In tale prospettiva, il loro Opportunity Atlas consente non solo di visualizzare, ma anche di analizzare e mettere in relazione dati relativi a circa 70,000 aree territoriali negli Stati Uniti, al fine di stimare l’impatto di diverse variabili potenzialmente rilevanti in termini di diseguaglianza e mobilità sociale.

La dimensione locale e territoriale della diseguaglianza è da tempo oggetto di un’ampia riflessione interdisciplinare anche a livello europeo, dove tali studi hanno aggiunto elementi conoscitivi importanti che intersecano dimensioni fondamentali, come ad esempio il genere, l’età, l’istruzione, lo stato di salute e la nazionalità. Anche in relazione al caso italiano, la produzione accademica si è rivelata particolarmente attenta a tali aspetti e diverse ricerche hanno documentato – in una pluralità di ambiti – gli squilibri esistenti, restituendo immagini puntuali della geografia delle diseguaglianze nel paese.

A partire da alcuni di tali studi, questa nota si propone una finalità duplice. Il primo obiettivo è quello di offrire un’istantanea della dimensione territoriale della diseguaglianza sociale in Italia, puntando in particolare il fuoco sulla condizione dei minori in relazione a due aspetti: la povertà educativa e la mobilità intergenerazionale. In secondo luogo, sulla scorta degli studi empirici sopra richiamati, la nota intende discutere il possibile contributo dei servizi per l’infanzia nel contrastare e/o correggere tali squilibri e asimmetrie.

2. Povertà educativa e mobilità intergenerazionale: i divari territoriali

A livello comparato, il nostro paese è caratterizzato da un’elevata povertà tra i minori. Se guardiamo alla deprivazione materiale severa – nonostante i miglioramenti registrati negli ultimi anni, dopo il picco raggiunto durante la Grande Recessione – la sua incidenza in Italia resta sensibilmente superiore alla media europea e significativamente più elevata non solo rispetto a paesi dell’Europa continentale, come la Francia e la Germania, ma anche dell’Europa meridionale, come la Spagna e il Portogallo (cf. Fig. 1).

Figura 1. Incidenza della deprivazione materiale severa per i minori di 16 anni, 2007-2019 (%)

Fonte: Database Eurostat.

Come è noto, quando riguardano i minori la povertà e la deprivazione materiale sono particolarmente odiose non solo per gli effetti che tali condizioni hanno nell’immediato, ma anche per l’impatto negativo nel medio-lungo periodo sulle chance di vita individuali. In tale prospettiva, le opportunità educative acquisiscono grande rilevanza, poiché offrendo risorse culturali ed educative ai bambini e alle bambine risultano cruciali nel contrastare la trasmissione intergenerazionale dello svantaggio.

Secondo la definizione inizialmente elaborata da Save the Children (2014), la povertà educativa può essere definita come la situazione in cui viene compromesso il diritto dei bambini e delle bambine ad apprendere, formarsi, sviluppare capacità e competenze, coltivare le proprie aspirazioni e talenti. Sebbene catturare quantitativamente tale fenomeno rappresenti una sfida sotto il profilo metodologico, negli ultimi anni sono stati elaborati diversi indici di povertà educativa, volti a coglierne differenti aspetti e a far emergere le correlazioni esistenti, anche con riferimento alla dimensione geografica (Openpolis, 2020, Save the Children, 2020).

A questo riguardo, l’indice di “rischio educativo”, una misura composita che si basa su quattro differenti indicatori – la percentuale di bambini accolti nei servizi per la prima infanzia; la percentuale di abbandoni precoci del sistema di istruzione; l’incidenza della dispersione implicita[2]; la quota di studenti in condizioni di svantaggio economico – restituisce un’immagine molto eterogenea fra le province italiane, dove alla drammatica linea di “frattura” fra centro-nord e sud del paese si aggiungono alcune ulteriori linee di demarcazione (cf. Fig. 2). Differenze ampie emergono infatti anche all’interno delle regioni, fra aree interne e aree urbane; mentre contesti apparentemente distanti in macro-aree differenti, come ad esempio le province di Vercelli, Imola, Avellino e Oristano, non risultano poi così dissimili in termini di rischio educativo. Appare inoltre utile sottolineare che disparità consistenti fra territori risaltano anche all’interno delle aree di maggior benessere economico, come nelle province di Brescia e Pavia in Lombardia, e Reggio Emilia in Emilia-Romagna, dove il rischio educativo risulta marcatamente più elevato rispetto alle province limitrofe.

Figura 2. Province secondo il grado di rischio educativo per bambini e adolescenti (dati 2016-2019)

 

Fonte: Save the Children (2020, p. 22).

Accanto a questa fotografia statica, gli indicatori di mobilità sociale consentono di ampliare ulteriormente il quadro, cogliendo gli effetti attesi dello svantaggio nel medio-lungo periodo. Lo studio di Acciari, Polo e Violante (2019) è interessante da questo punto di vista perché permette di far luce sull’incidenza del contesto territoriale sulla probabilità di migliorare la propria situazione di partenza una volta adulti (vale a dire la probabilità di mobilità ascendente). Più nello specifico, in relazione al caso italiano e considerando la matrice complessiva delle transizioni attese tra decili di reddito, lo studio mostra come per un bambino nel decile inferiore della distribuzione, la probabilità di raggiungere da adulto il decile più alto sia di poco inferiore al  4%, contro il 26% di probabilità per un bambino che nasce nel decile più elevato di restarvi. L’aspetto che più rileva per questa nota riguarda tuttavia le differenze geografiche tra le 110 province italiane. L’analisi documenta infatti una divaricazione netta tra nord e sud del paese, con le province settentrionali caratterizzate al contempo da minore diseguaglianza e maggiore mobilità rispetto a quelle meridionali. La Tabella 1 riporta le due code della distribuzione, con le province in cui la mobilità è maggiore e quelle in cui è minore. La comparazione tra i casi di Milano e Palermo è emblematica: se da un lato ci si attende che nella provincia di Milano i figli di genitori con un reddito inferiore alla mediana raggiungano il cinquantaquattresimo percentile una volta adulti, i loro corrispettivi cresciuti nella provincia di Palermo in media si fermeranno al trentottesimo percentile.

Tabella 1. Mobilità inter-generazionale ascendente attesa in alcune province italiane (prime nove e ultime nove posizioni)

ProvinciaPercentile di reddito atteso per figli di genitori in un percentile inferiore alla medianaProbabilità di mobilità ascendente dal 1° al 5° quintile
Trento0.5610.161
Bergamo0.5490.215
Reggio-Emilia0.5480.177
Monza-Brianza0.5460.239
Modena0.5430.242
Milano0.5380.222
Treviso0.5360.210
Udine0.5340.176
Brescia0.5310.202
Reggio-Calabria0.3880.078
Agrigento0.3870.047
Catania0.3830.060
Trapani0.3820.053
Siracusa0.3820.073
Salerno0.3790.065
Palermo0.3780.056
Messina0.3780.062
Cosenza0.3660.059

Fonte: Acciari, Polo e Violante (2019, p. 32).

Sul piano interpretativo, è inoltre interessante notare come le variabili che risultano significative nello spiegare le differenze osservate non siano solo le condizioni del mercato del lavoro locale e le caratteristiche del nucleo familiare, ma anche due indicatori specifici che riguardano il sistema educativo: il livello di competenza raggiunto dagli studenti nei test comparativi e la qualità dei servizi per la prima infanzia. Questi risultati confermano, dunque, che accanto alle opportunità occupazionali e alle condizioni della famiglia di origine, le chance di vita delle bambine e dei bambini e il loro futuro sono plasmati anche dal sistema di istruzione e dai servizi educativi e di cura per l’infanzia a cui accedono.

In linea con la tesi “location matters”, se letti in modo congiunto i dati sin qui presentati attestano chiaramente che le caratteristiche dei contesti territoriali in cui le persone nascono e crescono risultano cruciali nel delineare la cornice di vincoli e opportunità con cui si confrontano. In tale ottica, i servizi educativi e di cura per la prima infanzia, se accessibili e di qualità, appaiono risorse fondamentali sotto un profilo duplice: da un lato, per le scelte delle famiglie in termini di conciliazione tra lavoro retribuito e cura, in quanto rendono possibile la partecipazione al mercato del lavoro di chi ha responsabilità familiari, abbattendo il costo-opportunità del lavoro retribuito; dall’altro, in relazione alla possibilità di contrastare il riprodursi dello svantaggio, in quanto favoriscono lo sviluppo cognitivo e relazionale delle bambine e dei bambini, a parziale compensazione delle condizioni sfavorevoli di partenza.

 

3. I servizi educativi e di cura per l’infanzia: correttivi o catalizzatori?

Tradizionalmente, la scarsità dell’offerta di posti nei servizi per la prima infanzia in Italia, combinandosi a requisiti d’accesso che ne privilegiano la funzione in termini conciliativi, rende tali servizi fruibili prevalentemente dai figli con i genitori in condizioni lavorative regolari e maggiormente stabili, in cui la madre è occupata (Saraceno, 2000). In modo non dissimile da quanto avviene anche in altri paesi europei, tali caratteristiche, insieme agli alti costi per gli utenti, si legano ad una sovra-rappresentazione delle famiglie di ceto medio e medio-alto fra i beneficiari dei servizi, condizione che ne limita pertanto l’impatto redistributivo e la capacità di contrastare la trasmissione intergenerazionale dello svantaggio. Come recentemente segnalato da Natili e Sorrenti (2019), l’Italia è tuttavia uno dei paesi in cui l’accesso ai servizi della prima infanzia è tra i meno inclusivi in Europa: solo il 18% dei bambini provenienti da famiglie con bassi livelli di reddito accede ai servizi socio-educativi, contro il 32% della Spagna e il 50% di Svezia e Danimarca; con un forte impatto della condizione occupazionale delle madri (Ocse, 2016).

Accanto alla scarsa disponibilità di posti, una seconda caratteristica dell’offerta di servizi per la prima infanzia nel nostro paese è l’eterogeneità esistente (e persistente) a livello territoriale (Fig. 3).  Nel complesso, guardando la Figura 3, se da un lato stupisce la quantità di comuni che non dispongono di servizi di cura ordinari (come i nidi, i micronidi, i nidi aziendali e le sezioni primavera), ma solo di servizi integrativi per l’infanzia (come gli spazi gioco); dall’altro lato, ancor più preoccupante è la numerosità di comuni in cui non sono disponibili servizi, né ordinari né integrativi. L’Emilia Romagna, la Toscana e l’Umbria, come anche il Lazio e le Marche, si distinguono per un sistema di offerta capillare con tassi di copertura dell’utenza mediamente più elevati. La disponibilità di servizi si dirada invece spostandosi verso le regioni meridionali, a partire dalle province abruzzesi, fino a quelle molisane e campane e ulteriormente nelle province calabresi (Istat, 2020). Alcune regioni, tuttavia, presentano condizioni distintive, che solo il dettaglio territoriale consente di cogliere. Ad esempio, Puglia e Sicilia, seppur in presenza di una copertura più omogenea a livello comunale, soffrono indici di copertura comparativamente bassi; mentre la Sardegna, benché abbia vaste aree in cui i servizi sono assenti, presenta in alcuni comuni un’intensità del servizio sensibilmente più elevata.

Figura 3. Copertura dei servizi per l’infanzia ogni 100 residenti in età 0-2 anni per comune, 2017

Note: i comuni colorati in nero sono quelli in cui sono presenti servizi all’infanzia ma non della tipologia “consolidati” (i nidi, i micronidi, i nidi aziendali e le sezioni primavera); in questi comuni quindi sono presenti solo i servizi denominati “integrativi”.

Fonte: Istat (2020, p. 17).

In tale scenario, la diversa disponibilità a livello territoriale, i requisiti d’accesso e i livelli qualitativi eterogenei fanno sì che i servizi educativi e di cura non riescano ad agire in modo efficace come correttivi rispetto alle condizioni di svantaggio nei territori più a rischio. All’opposto, data la loro carenza rischiano di fungere da catalizzatori della diseguaglianza. Detto diversamente, il mancato investimento nei servizi educativi e di cura fa sì che questi non riescano a svolgere la funzione che sarebbe loro propria – compensare e promuovere le opportunità di cui dispongono i bambini e le bambine negli anni cruciali dell’infanzia – con effetti negativi potenziali sia nell’immediato, sia nel medio-lungo periodo, per le singole famiglie e i territori in cui vivono.

4. Investire sui luoghi per invertire la rotta: tra risorse e livelli essenziali delle prestazioni

Dopo una lunga fase di sostanziale disattenzione, negli ultimi anni le politiche per l’infanzia hanno acquisito maggiore rilevanza e visibilità nell’agenda politica a livello nazionale. Sebbene sul versante dei servizi educativi e di cura per l’infanzia l’esigenza di coniugare l’ampliamento dell’offerta di servizi con la qualificazione degli stessi e interventi volti a ridurre i costi a carico delle famiglie al fine di promuoverne l’inclusività sia da tempo stata riconosciuta come la sfida cruciale, le azioni intraprese finora non hanno tuttavia segnato passi decisivi in tale direzione.

In questa prospettiva, l’adozione nel 2015 della “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti” (L. n. 107/2015), meglio nota come “La Buona Scuola”, aveva generato grandi attese rispetto al possibile superamento di alcune fra le maggiori criticità del modello italiano. Attraverso l’avvio di un sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita fino ai sei anni, la riforma aveva infatti l’ambizione di garantire “ai bambini e alle bambine pari opportunità di educazione, istruzione, cura, relazione e gioco, superando diseguaglianze e le barriere territoriali, economiche, etniche e culturali, nonché ai fini della conciliazione tra tempi di vita, di cura e di lavoro dei genitori, della promozione della qualità dell’offerta educativa e della continuità tra i vari servizi educativi e scolastici e la partecipazione delle famiglie”(art. 1, co. 181e). In attuazione della riforma, il D. Lgs. n. 65/2017 e il successivo Piano di azione nazionale pluriennale del gennaio 2018 ne hanno dettagliato gli obiettivi specifici, spaziando dalla riqualificazione degli edifici al potenziamento della formazione del personale educativo e del coordinamento pedagogico a livello territoriale, dall’ampiamento dell’offerta dei servizi alla riduzione del costo a carico delle famiglie.

Queste disposizioni hanno individuato senza dubbio obiettivi condivisibili ma, come recentemente segnalato dal Rapporto dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza (2019), le risorse messe in campo finora sono del tutto insufficienti a tale scopo. Accanto alla questione delle risorse mobilitate, rispetto alle differenze persistenti fra i territori un elemento cruciale su cui sarebbe auspicabile intervenire appare quello della definizione a livello nazionale di livelli essenziali delle prestazioni. Solo la previsione di uno standard di prestazioni che determini l’obbligo per lo Stato di garantirne la realizzazione – nella forma di servizi da erogare, qualità degli stessi e standard relativi alla tariffazione orientati all’universalismo selettivo [3]– potrebbe infatti contrastare le disparità richiamate nelle sezioni precedenti, con effetti positivi attesi non solo a livello individuale, ma anche per i territori stessi nel breve e nel medio-lungo periodo.

Nella fase attuale, una svolta netta in tale direzione acquisirebbe una portata ancora maggiore. La pandemia infatti, se da un lato ha inciso negativamente sulle condizioni economiche di molte famiglie e territori, dall’altro ha messo anche a dura prova la sostenibilità e la sopravvivenza dei servizi educativi e di cura per l’infanzia in molti contesti in cui l’offerta era già limitata. Le risorse del nuovo piano europeo, emblematicamente denominato Next Generation Eu, dovrebbero rappresentare l’opportunità di fare dell’investimento sulle prossime generazioni la priorità per il paese, a partire dai più piccoli e dai contesti più svantaggiati.

In questa prospettiva, il recente Rapporto preparato dall’Alleanza per l’Infanzia e Educazioni (2020), “Investire nell’infanzia: prendersi cura del futuro a partire dal presente”, offre un quadro ampio e organico di interventi che consentirebbero di affrontare per la prima volta in modo strutturale le principali criticità del modello italiano. L’idea di fondo, qui condivisa, è che l’accesso a servizi di cura ed educativi di qualità fin dalla primissima infanzia sia condizione necessaria per promuovere la riduzione delle disuguaglianze (individuali e territoriali) e favorire una maggiore coesione sociale nel paese.

[1] Opportunity Insights è un istituto di ricerca statunitense fondato da un gruppo di ricercatori d’eccezione, come Raj Chetty, John Friedman, and Nathaniel Hendren, dedicato allo studio e all’analisi delle diseguaglianze.

[2] La dispersione implicita o nascosta fa riferimento a quegli studenti che, pur non avendo abbandonato la scuola, terminano il ciclo di formazione secondaria senza aver acquisito le competenze fondamentali. Per un approfondimento si rimanda a Ricci (2019).

[3] La nozione di universalismo selettivo, nonostante possa apparire un ossimoro, esprime la situazione in cui in presenza di una copertura universalistica (ad esempio, tutti i residenti in un dato territorio) l’accesso alle prestazioni è selettivo, in quanto l’effettiva fruizione è subordinata all’accertamento, attraverso una prova dei mezzi, della condizione di bisogno economico dei richiedenti.

Per saperne di più:

Acciari, P., Polo, A. e Violante, G. L. (2019), And Yet, It Moves: Intergenerational Mobility in Italy, in DF WP 4/2019, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Roma [scaricabile]

Alleanza per l’Infanzia e Educazioni (2020), Investire nell’infanzia: prendersi cura del futuro a partire dal presente, Roma [scaricabile]

Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza (2019), I livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali delle persone di minore età, AGIA, Roma [scaricabile]

Istat (2020), Nidi e Servizi educative per la prima infanzia, Stato dell’arte, criticità e sviluppi del sistema educativo integrato 0-6, Roma, Istat.

Natili, M. e Sorrenti, A. (2019), Prima infanzia, il primo punto dell’agenda, in AltraEconomia, n.221, dicembre 2019.

Ocse (2016), Who uses childcare? Background brief on inequalities in the use of formal early childhood education and care (ECEC) among very young children, Paris, OECD Publishing. [scaricabile]

Ocse (2018), Equity in Education. Bringing down Barriers to Social Mobility, Paris, OECD Publishing [scaricabile]

Openpolis (2020), Le mappe della povertà educativa. Roma.

Ricci, R. (2019), La dispersione scolastica implicita, Rapporto InvalsiOpen [scaricabile]

Saraceno, C. (2020), Politiche per le famiglie e disuguaglianze, in Politiche Sociali, 1/2020, pp. 103-124.

Save the Children (2014), La lampada di Aladino. L’indice di Save the Children per misura­re le povertà educative e illuminare il futuro dei bambini in Italia, Save the Children, Roma.

Save the Children (2020), Riscriviamo il futuro, Save the Children, Roma.

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