Ae n.275, novembre 2024

Superare i falsi miti sul sistema pensionistico.

Si replicano diagnosi e terapie degli anni Novanta, ma i dati raccontano una storia diversa. Per riscrivere le regole bisogna partire da basi radicalmente nuove

Il dibattito sulle pensioni rimane schizofrenico tra promesse elettorali e nuovi vincoli di bilancio che preannunciano tagli. A sostegno di questi ultimi, alcuni contributi della stampa replicano diagnosi e terapie degli anni Novanta: se il processo di invecchiamento demografico mette a rischio la sostenibilità dei sistemi a ripartizione, le principali criticità sarebbero il carattere “assistenzialistico” di quello italiano e il limitato versamento contributivo da parte dei lavoratori per via di condizioni di accesso al pensionamento troppo “morbide”. La nuova terapia prevede: riduzione della quota di spesa pensionistica assistenziale; innalzamento dell’età pensionabile ed estensione del periodo contributivo minimo per le pensioni di vecchiaia. Ma davvero l’assistenzialismo è il grande vizio del sistema pensionistico italiano e andiamo ancora in pensione troppo presto? I dati raccontano una storia diversa. Primo, la componente assistenziale
(pensioni di vecchiaia means-tested) del sistema pensionistico è in realtà più limitata in Italia rispetto agli altri Paesi europei, fermandosi allo 0,4% del Pil contro una media Ue dello 0,5%. La seconda narrazione da superare è che andiamo in pensione troppo presto. La situazione è infatti mutata rispetto a trent’anni fa quando l’Italia era il “Paese delle baby pensioni”. Se l’aspettativa di vita a 65 anni è aumentata di 2,8 anni dal 1994 (e di soli 1,1 dal 2004) nello stesso periodo l’età pensionabile è aumentata di ben 12 anni per le donne e di sette per gli uomini. Inoltre, l’irrigidimento -con una rapidità che non ha pari nei Paesi Ue- dei canali di accesso al pensionamento con le riforme Sacconi e Monti-Fornero ha portato l’Italia ad avere sia l’età legale di pensionamento più elevata in Europa, sia l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro tra le più elevate: 64,2 anni nel 2023, contro una media Ue di 63,6, in linea con la Germania, poco sotto la Svezia (65) ma sopra ben 19 Paesi Ue. Possiamo aumentare ancora l’età pensionabile? Per rispondere sono necessari altri dati che consentono di valutare l’equità del sistema in ottica intra-generazionale e di coglierne le interazioni con il mercato del lavoro. Primo: le differenze nell’aspettativa di vita a 65 anni vita sono ampie, fino a 3-5 anni a scapito dei gruppi svantaggiati sul piano socioeconomico.

0,4%

La quota del Pil rappresentata dalla componente assistenziale (pensioni di vecchiaia) del sistema italiano

Secondo, a 65 anni gli anni attesi in buona salute (10,1 anni) sono molto inferiori all’aspettativa di vita (20,6). Terzo, mentre l’aspettativa di vita è in graduale aumento, ciò non sembra essere vero per gli anni attesi in buona salute. Per i lavoratori svantaggiati appare dunque arduo e oneroso continuare a lavorare oltre i 65 anni. Infine riguardo all’interazione tra più elevate età di pensionamento e mercato del lavoro: il tasso di occupazione nella fascia 65-69 anni è di fatto in linea con la media europea e in quella 55-64 è raddoppiato dal 2000 raggiungendo il 57,3%. In parallelo si è però drammaticamente ampliato il divario nei tassi di occupazione dei lavoratori adulti (25-49 anni) tra l’Italia e l’Ue: dai cinque punti percentuali del 2003 fino ai quasi dieci punti nel 2022. L’Italia è oggi tra i Paesi europei con la più bassa quota di giovani e la più alta quota di anziani sul totale dell’occupazione: è con questa struttura occupazionale che vogliamo affrontare le transizioni verde e digitale, che richiedono competenze elevate e “fresche”? Riscrivere le regole pensionistiche oggi richiede di superare le analisi che hanno plasmato le “grandi riforme” degli anni Novanta, disegnando una proposta organica di intervento su basi radicalmente diverse che consenta di combinare efficacemente sostenibilità economico-finanziaria, adeguatezza ed equità, quest’ultima non solo in chiave inter-generazionale ma anche (e soprattutto) intra-generazionale.

Questo articolo è stato scritto da Matteo Jessoula per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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