Ae n.248, maggio 2022

Transizione e giustizia sociale: prospettive e dilemmi all’ex Ilva.

L’obiettivo è conciliare produzione, lavoro e tutela dell’ambiente. Nonostante gli investimenti l’equilibrio non sembra ancora possibile

Per decenni l’ex Ilva di Taranto, l’acciaieria più grande d’Europa, ha racchiuso le contraddizioni del capitalismo industriale italiano: occupazione e prosperità economica (accompagnata da profitti milionari) da un lato; devastazione ambientale e morte dall’altro. Se coniugare economia, aspetti sociali e ambiente -le tre dimensioni del “trilemma” della just transition, la transizione giusta e sostenibile nel gergo dell’Ue- rappresenta ovunque una sfida senza precedenti, a Taranto l’impresa appare più complessa che mai. La tensione fra i tre poli del “trilemma” è infatti deflagrata in una situazione di esasperata conflittualità a seguito dell’inchiesta “Ambiente svenduto” del 2012. Ora le cose potrebbero cambiare, per diverse ragioni: l’ingresso dello Stato nella gestione diretta della fabbrica, con investimenti per circa un miliardo di euro e gli impegni connessi all’utilizzo dei fondi europei (in primis il Piano nazionale di ripresa e resilienza, che prevede due miliardi di euro d’investimento in ricerca e sviluppo per l’idrogeno) sono carte nuove che potrebbero sostenere i costi e favorire le azioni volte ad ammodernare gli impianti (che necessitano profonde ristrutturazioni) a garantire la sicurezza degli operai e a mitigare l’impatto ambientale in un territorio caratterizzato da un elevato tasso di disoccupazione (11,3%) e bassissima occupazione (45% nel 2020). Sul piano teorico, le alternative possibili sono quattro: il mantenimento dello status quo, “l’ambientalizzazione” degli impianti, la decarbonizzazione attraverso l’idrogeno, la dismissione della fabbrica. Quali sono le posizioni dei principali sindacati metalmeccanici -Fim, Fiom, Uilm- che rischiano di rimanere “stritolati” dalla contrapposizione tra gli obiettivi economici (produzione di acciaio), ambientali (diminuzione dell’inquinamento industriale e delle emissioni di CO2) e sociali (occupazione e sicurezza sul lavoro)?
Se la dismissione degli impianti è considerata insostenibile per le sue ricadute occupazionali ed economiche, lo stesso vale per il mantenimento dello status quo, dato il disastro ambientale e sanitario a danno sia dei lavoratori sia degli abitanti di Taranto. La decarbonizzazione attraverso l’idrogeno (paventata dal Governo Conte II e sostenuta dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano) è valutata in una prospettiva di medio-lungo periodo, pur suscitando forti perplessità: troppo grandi i limiti tecnologici e infrastrutturali.

2 miliardi di euro

Le risorse allocate dal Piano nazionale di ripresa e resilienza per la ricerca e lo sviluppo nel settore dell’idrogeno

 

Le tre sigle confederali convergono quindi sull’opzione “ambientalizzazione”, che consiste nella ristrutturazione degli impianti, con l’introduzione di un forno elettrico e due impianti di pre-riduzione (Dri). Questo consentirebbe di combinare gli obiettivi di natura economica e occupazionale con quelli ambientali riferiti al contesto locale, senza però riuscire ad aggredire le emissioni di anidride carbonica: un acciaio “verde”, che non acceleri il cambiamento climatico, non è di fatto oggi possibile. Quali prospettive dunque? Qualche indicazione arriva dagli sviluppi più recenti: la riaccensione dell’altoforno numero quattro, con il conseguente innalzamento delle emissioni inquinanti e la messa in cassa integrazione di 2.500 lavoratori, nonostante la ripresa dei volumi produttivi. A Taranto, non è ancora tempo di transizione giusta.

 

Questo articolo è stato scritto da Matteo Jessoula, Luca Novelli e Matteo Mandelli per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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