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Nati per contrastare il lavoro nero, i buoni sono diventati “strutturali”. Un modello retributivo che non garantisce diritti agli occupati.

 

I voucher, o buoni per regolare le prestazioni di lavoro accessorio, si sono imposti con forza nel dibattito pubblico. Basti pensare che tra il 2008 (primo anno di applicazione) e il 2015 i voucher riscossi, cioè quelli effettivamente utilizzati nell’anno, sono passati da 480mila a 88 milioni. Incremento simile riguarda i lavoratori coinvolti, da 24.775 a 1.380.000. I dati non lasciano indifferenti ma nemmeno sorprendono, visto il processo di totale liberalizzazione di questo strumento, sia in termini di settori produttivi -tutti, a parte qualche limitazione nell’agricoltura- sia in termini di soggetti -tutti gli individui indipendentemente dalla loro categoria professionale, lavoratore, pensionato, studente, disoccupato-. Rimane una duplice limitazione economica: ogni lavoratore non può percepire più di 7.000 euro l’anno tramite voucher, massimale aumentato dal Jobs Act rispetto ai precedenti 5.000 previsti dalla “riforma Fornero”; non si possono percepire voucher per un valore complessivo superiore a 2.000 euro annui da parte di uno stesso datore di lavoro.

Nati per fare emergere il lavoro nero, i voucher hanno ben presto mostrato la loro vera essenza: uno strumento di svalutazione del lavoro istituzionalizzato, che colpisce sempre più i giovani. Agli elevati tassi di disoccupazione, le aziende, soprattutto nei settori del turismo, della distribuzione al dettaglio e della ristorazione, contrappongono una costante rotazione di manodopera retribuita per mezzo dei buoni lavoro, come confermano i dati sulla distribuzione dei voucher riscossi per settori pubblicati nell’Osservatorio sul lavoro accessorio dell’INPS. Queste modalità di utilizzo, fintanto che i lavoratori non sono effettivamente impiegati per un numero cospicuo di mesi e parte della retribuzione non viene erogata “in nero”, non corrispondono a degli abusi di legge. Leciti sono invece i casi in cui i voucher vengono utilizzati per remunerare i periodi di prova. Rimane però che i buoni lavoro non garantiscono diritti quali l’assegno di disoccupazione, e quindi oggi anche quello di ricollocazione, le ferie e il congedo di maternità retribuiti. Anche la contribuzione previdenziale, cioè la quota di salario che viene accantonato per il diritto alla pensione, è meno della metà di quella prevista per un contratto da dipendente: 13% contro 33%. I voucher garantiscono invece contro gli infortuni sul lavoro, dato che sono soggetti a contribuzione INAIL.

Da queste evidenze dovrebbe muoversi il dibattito sull’abolizione dei voucher così come regolati dall’attuale diritto del lavoro. Non si tratta di abolire il lavoro occasionale, bensì di garantire a tutti i lavoratori i diritti minimi costituzionalmente previsti, come appunto una remunerazione degna e tutele di welfare per i periodi di non lavoro, come chiede la Cgil nella Carta dei Diritti Universali del Lavoro. La proposta della CGIL è quella da un lato di abolire i voucher così come regolamentati oggi e di riammetterli con maggiori tutele con esclusione dei committenti datoriali e le amministrazioni pubbliche.

I settori esclusi dai voucher possono infatti disciplinare il lavoro occasionale con forme contrattuali a termine, di durata anche giornaliera o per poche ore (utilizzando il connubio tra contratto a termine e regime orario part-time), garantendo contestualmente non soltanto una remunerazione pari ai contratti collettivi nazionali dei vari settori, ma anche tutti le stesse tutele, anche ai fini previdenziali, riconosciute ai lavoratori dipendenti.

Questo articolo è stato scritto da Marta Fana per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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