Ae n.211, gennaio 2019
Le promesse spaziano da “Quota 100” a misure di “cittadinanza” da 780 euro al mese. Per orientarsi è necessario guardare agli ultimi 25 anni di riforme.
“Quota 100”, 41 anni di contribuzione, 780 euro al mese, pensione di cittadinanza: dopo 10 importanti riforme negli ultimi 25 anni, le pensioni sono tornate al centro dell’agenda politica in Italia, con l’usuale corollario di cifre. Ripartire dai dati, specie quelli comparati, è necessario. Partiamo dalla dinamica della spesa. Le cifre ci dicono che le riforme adottate nella fase 1992-2011 hanno contribuito a contenere sensibilmente la spesa pensionistica, che oggi è prevista diminuire in rapporto al Pil fino al 2030, per poi avere un limitato incremento di circa un punto e mezzo di Pil attorno al 2040-45. Tuttavia, l’Italia ha ancora una spesa pensionistica tra le più alte d’Europa (16,5% del Pil), seconda solo alla Grecia. All’elevato livello della spesa si accompagna l’alto livello delle pensioni italiane, se osservate in ottica comparata. Infatti, il “tasso di sostituzione aggregato” -che misura il reddito pensionistico nella fascia 65-74 anni in rapporto al reddito degli adulti 50-59 anni- è il secondo più alto nell’Ue (69%) e sensibilmente in crescita dal 2011 (51%). Tale livello è però riferito al dato medio: analizzando il profilo distributivo dei redditi dei pensionati, emergono invece alcune evidenti criticità. In primis, la disuguaglianza dei redditi tra gli ultrasessantacinquenni è in Italia la terza più elevata nell’Ue con un rapporto di 4,7 volte tra il reddito della fascia più abbiente e quello della fascia più povera oltre che in crescita. In secondo luogo, l’Italia presenta una delle quote più elevate di individui over 65 “a rischio di povertà ed esclusione sociale”: attorno al 25% rispetto a una media Ue inferiore al 20%. E l’accesso al pensionamento? L’Italia è tradizionalmente nota per i requisiti di pensionamento poco stringenti e i conseguenti bassi livelli occupazionali dei lavoratori anziani. È ancora così? I più recenti dati comparati -disponibili nel report “The Pension Adequacy Report 2018” della Commissione europea- mostrano che due decenni di riforme hanno cambiato radicalmente lo scenario. Non solo l’Italia ha oggi l’età pensionabile più elevata d’Europa (67 anni dal primo gennaio 2019), ma anche l’età media effettiva di uscita dal mercato del lavoro è tra le più alte (di poco inferiore ai 64 anni) e destinata a salire fin oltre i 67 nei prossimi tre decenni.
67 anni l’età pensionabile in Italia dal gennaio 2019: la più alta d’Europa
A ciò ha corrisposto un significativo incremento del tasso di occupazione nella fascia di età 55-64 anni -dal 34,3% al 52,2% tra il 2008 e il 2017, nonostante la crisi- che per i lavoratori maschi ha di fatto raggiunto la media Ue (62%) nel 2016. Che conclusioni possiamo trarre? La prima riguarda la spesa, come visto sotto controllo benché a un livello comparativamente elevato. Tuttavia, l’Italia non solo spende molto per pensioni, ma spende male, considerando che nel 2017 la spesa per le prestazioni dei circa 2 milioni di pensionati con redditi inferiori ai 550 euro/mese era di circa 6,8 miliardi a fronte di ben 26,5 miliardi per le prestazioni dei 350mila con redditi pensionistici superiori a 4.500 euro/mese lordi. Ciò suggerisce -considerando il sottosviluppo di importanti componenti del welfare italiano, come le politiche di conciliazione e per la prima infanzia- che eventuali misure espansive devono essere attentamente valutate e soprattutto rivolte agli individui/lavoratori che più ne hanno bisogno. La seconda è che questi ultimi vanno primariamente individuati in due gruppi: i pensionati poveri e quei lavoratori -impiegati in mansioni anche non strettamente usuranti, ma comunque gravose- per i quali non è difficilmente sostenibile continuare a lavorare fino a 67 anni e oltre.
Questo articolo è stato scritto da Matteo Jessoula per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Fornisci il tuo contributo!