Ae n.267, febbraio 2024

Il nuovo assegno di inclusione farà crescere la povertà.

La riforma voluta dal Governo Meloni ha reso categoriale l’accesso al “reddito minimo”. Riducendo il numero di famiglie beneficiarie e gli importi medi. Pessima idea

Dal primo gennaio 2024 non esiste più il reddito di cittadinanza (Rdc), sostituito dall’assegno d’inclusione (Adi). Entrambe le misure sono dei “redditi minimi”, cioè prestazioni finalizzate al contrasto della povertà per coloro che soddisfano precisi requisiti relativi al reddito e al patrimonio familiare. Se si eccettua un vincolo di residenza in Italia particolarmente stringente (dieci anni di cui due continuativi), il Rdc era concesso a tutti i nuclei in condizione di bisogno (certificata tramite una “prova dei mezzi”) mentre l’Adi viene erogato solo a quelli in cui è presente almeno un componente nelle seguenti condizioni: minorenne, con disabilità, over 60 o inserito in programmi di assistenza dei servizi territoriali. Le altre famiglie “povere” non sono dunque ritenute meritevoli di sostegno; per loro l’unica prestazione prevista è un assegno mensile da 350 euro (“Supporto per la formazione e il lavoro”) di cui possono beneficiare per un massimo di 12 mesi, non rinnovabili, i membri che partecipino a una politica attiva del lavoro. La riforma voluta dal Governo Meloni ha dunque reso “categoriale” l’accesso al reddito minimo in Italia, al contrario di quanto avviene in altri Paesi dell’Unione europea dove il sostegno monetario ai poveri si basa sul principio dell’universalismo selettivo, in base al quale vengono tutelati tutti coloro che superano la prova dei mezzi, indipendentemente da ogni altra condizione (ad esempio, la composizione della famiglia). Inoltre, altre modifiche hanno reso più complicato soddisfare i requisiti di accesso anche per alcuni nuclei “meritevoli”: la soglia di reddito per chi vive in affitto è stata ridotta da 9.360 a 6.000 euro ed è stata modificata la scala di equivalenza, necessaria per valutare il reddito di nuclei di diversa dimensione, eliminando dal calcolo i componenti in età attiva (oltre il primo) che non hanno responsabilità di cura (ad esempio i figli di età inferiore a tre anni o di almeno tre minori). Ne discende un minor valore della scala, che rende più difficile rispettare il requisito di accesso e, anche quando lo si rispetta, comporta una riduzione della prestazione.
Al contrario, la riforma ha introdotto miglioramenti per le famiglie in cui sono presenti persone con disabilità e prevedendo la piena cumulabilità tra l’Adi e l’assegno unico per i figli, bambini con meno di tre anni o almeno tre minori. Negli altri casi la mancata considerazione dell’adulto nella scala di equivalenza compensa ampiamente il cumulo con l’assegno unico. Infine, il requisito di residenza in Italia è stato ridotto da dieci a cinque anni.
Questi cambiamenti causano una riduzione del numero di nuclei eleggibili al reddito minimo e, in media, una contrazione dell’importo delle prestazioni erogate, facendo così aumentare la povertà. Aspettative di questa natura sono chiaramente confermate dallo studio “La revisione delle misure di contrasto alla povertà in Italia” realizzato da tre ricercatori della Banca d’Italia (Giulia Bovini, Emanuele Dicarlo e Antonella Tomasi) che hanno simulato gli effetti distributivi della riforma.
I risultati sono eloquenti nella loro drammaticità. Il tasso di copertura potenziale del reddito minimo, ovvero il numero di nuclei che rispettano tutti i requisiti, si riduce del 43% e le famiglie eleggibili scendono da 2,1 a 1,2 milioni. Il numero di quelle escluse è elevato sia tra gli italiani (-40%) sia tra gli stranieri (-65%); questi ultimi, a fronte dell’allentamento del requisito di residenza, sono penalizzati dai requisiti categoriali dell’Adi. Infine il reddito del decile più povero diminuirebbe in media dell’11%. Tutto ciò ha chiari effetti sulla povertà: mentre il Rdc contribuiva a ridurre l’incidenza di quella assoluta fra le famiglie (dall’8,9% al 7,5%) la sostituzione con l’Adi dovrebbe far risalire questo valore all’8,3%. La povertà, già in forte crescita in Italia anche a causa dell’impennata inflazionistica, tenderà quindi ad aumentare anche a causa delle scelte dell’attuale governo.

 

Questo articolo è stato scritto da Michele Raitano per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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