La Francia cancella le “35 ore”. Un errore, a giudicare dall’impatto civico e sociale. Che -secondo numerosi studi- è sempre positivo.
Il 12 maggio, nonostante le proteste di centinaia di migliaia di persone, l’Assemblea nazionale francese ha approvato la riforma del lavoro proposta dal ministro El Khomri.
Similarmente ad altre approvate in Europa nel corso degli ultimi anni (le leggi Hartz I-IV in Germania, il “Jobs Act” in Italia), la legge francese si prefigge tre obiettivi principali: rendere i licenziamenti più facili, incentivare la flessibilità e superare la settimana lavorativa di 35 ore. In prospettiva comparata, il caso francese merita attenzione perché il provvedimento che ora deve essere valutato dal Senato intende interrompere una esperienza innovativa quale la riduzione dell’orario di lavoro approvata oltre quindici anni fa dal governo Jospin.
Inoltre, la contrarietà alla riforma da parte del movimento studentesco e sindacale si è articolata a partire da una critica serrata alla volontà di mettere fine all’esperimento francese della settimana corta. Una proposta alternativa del movimento è proprio quella di portare la settimana lavorativa a 32 ore. Analizzando i dati, tutto il ventesimo secolo è stato caratterizzato da una riduzione progressiva dell’orario di lavoro. L’economista Keynes riteneva che intorno al 2030 la settimana di lavoro standard sarebbe stata di 15 ore, mentre ancora di recente la New Economic Foundations argomenta in modo interessante la necessità di una settimana di 30 o addirittura 21 ore. In Francia, nel 2000, è entrata in vigore una legge che ha portato la settimana di lavoro a 35 ore e il nuovo governo vuole incentivare orari di lavoro più lunghi.
Ma qual è stato l’impatto della settimana corta? L’impatto economico e occupazionale è ancora oggi motivo di contrasto tra specialisti, anche se un punto di accordo sembra essere stato raggiunto: nel breve periodo, l’impatto occupazionale ed economico è positivo, mentre nel medio periodo si riduce notevolmente l’effetto occupazionale, e l’impatto economico -specie in periodo di contrazione della crescita- può essere nullo. A noi però interessa soprattutto l’impatto sociale della settimana corta, e su questo punto sembrano esserci molti meno dubbi: pur con alcune differenze per tipo di lavoro, l’impatto complessivo è stato positivo, soprattutto rispetto alla migliore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro da parte delle donne lavoratrici. Come sempre, si poteva fare meglio: in uno studio condotto da Fagnani e Letablier si evidenziava come la semplice identificazione della riduzione dell’orario di lavoro non fosse sufficiente. Maggiore attenzione doveva (e dovrebbe) essere posta sulle modalità di attuazione della riduzione.
In generale, però, orari di lavoro ridotti determinano anche altri vantaggi, ad esempio sotto il profilo ambientale: Juliet Schor ha mostrato come chi lavora di meno lascia un’impronta ecologica ridotta non solo perché consuma di meno a causa di un reddito minore ma soprattutto perché ha tempo libero per ripensare al proprio stile di vita e per modificarlo in senso più ecocompatibile.
A giudicare dalle politiche del lavoro attuate in Europa, lavorare meno non significa necessariamente nel breve periodo lavorare tutti, ma possibilmente lavorare meglio e probabilmente vivere meglio e inquinare meno. Su questi elementi bisognerebbe ragionare sempre più seriamente. Peccato che, nonostante l’opposizione di milioni di cittadini, la riforma francese vada in una direzione opposta.
Questo articolo è stato scritto da Paolo Graziano per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.
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