NOTA n.8 – Dicembre 2022 – Di Matteo Jessoula, Università degli Studi di Milano
Nel 2020 le donne hanno rappresentato il 51,8% dei pensionati in Italia, percependo complessivamente solo il 43,8% della somma lorda complessivamente erogata per pensioni (Itinerariprevidenziali 2021a) e l’importo medio della pensione di vecchiaia per le donne è del 37% inferiore a quello degli uomini (European Commission 2021a).
Vero è che, rispetto agli uomini, le donne sono più spesso beneficiarie di più trattamenti pensionistici, ma il divario di genere rimane significativo anche considerando questo fattore: il reddito pensionistico medio annuo si attesta, infatti, per le donne a 16.233 euro contro i 22.351 euro degli uomini, con un rapporto appena sopra il 70%.
Ciò è in linea con quanto emerge da alcuni indicatori sintetici elaborati a livello europeo, in primis il cosiddetto “gender gap in pension income”[1] (calcolato per la fascia d’età 65-79 anni) rispetto al quale nel 2019 l’Italia presentava un valore sensibilmente più elevato della media europea: 35,6% contro 29,5 % – anche in relazione a una più modesta riduzione dello stesso in Italia (-0,1 punti percentuali) rispetto all’UE (-5.8 p.p.) dal 2010.
Benché cristallino nei dati appena presentati, per molti commentatori, tra cui Itinerariprevidenziali (2021a, 2021b), il “gender gap” sarebbe un “falso mito” della previdenza italiana.
Gender gap e pensioni: “falso mito” o problema da risolvere?
Come sinteticamente illustrato sopra, il divario di genere in campo pensionistico è scritto nei dati; considerarlo un “falso mito” è dunque fuorviante in punta di fatto. Altra cosa è stabilire se, e fino a che punto, tale divario rappresenti un problema da risolvere, una criticità da affrontare dai decisori politici. Al riguardo, la premessa necessaria è che nei welfare state maturi i sistemi pensionistici per la tutela della vecchiaia perseguono due obiettivi fondamentali:
- contrastare o prevenire la povertà nella cosiddetta terza età;
- mantenere il reddito dei lavoratori e delle lavoratrici pensionati/e.
Entrambi questi obiettivi dovrebbero inoltre essere raggiunti a un’età di pensionamento che sia sostenibile sul piano economico, sociale e politico (Jessoula 2014; Jessoula e Raitano 2020)[2]. Con riferimento ai due obiettivi principali, alcuni indicatori di outcome ci aiutano a catturare la situazione italiana, con particolare attenzione alle donne, in confronto agli altri paesi europei. Il primo indicatore riguarda il “rischio di povertà ed esclusione sociale”, così come definito da Eurostat, per gli individui sopra i 65 anni. Mentre per gli uomini tale rischio è allo stesso livello in Italia e nell’UE (16%), esso è invece più elevato per le donne sia rispetto agli uomini in Italia (23% contro 16%, appunto) sia rispetto al dato medio per le donne in Europa, per le quali il rischio si ferma al 21% (Figura 1).
Figura 1. Individui a rischio di povertà o esclusione sociale nella vecchiaia (AROPE, 65+), 2019, per sesso, %
Fonte: European Commission (2021a)
Risultati analoghi emergono considerando il rischio di povertà relativa calcolata al 60% del reddito mediano (Figura 2), che mostra come in Italia le donne over-65 siano non solo maggiormente a rischio di povertà monetaria rispetto agli uomini (19% vs 13%) ma anche più esposte a tale rischio rispetto alle donne in Europa (19% vs 18%)
Figura 2. Individui a rischio di povertà nella vecchiaia (AROP, 65+), 2019, per sesso, %
Fonte: European Commission (2021a)
Infine, i dati sulla cosiddetta “deprivazione materiale severa”, che cattura le condizioni di povertà più acuta, ci dicono tre cose in linea con quanto appena osservato: le donne over-65 in Italia sono più esposte al rischio di deprivazione materiale severa in confronto agli uomini (7.9% vs 5.2%); esse sono sensibilmente più esposte rispetto alle donne nell’UE (7.9% vs 5.5%); soprattutto, tale indicatore è peggiorato per le donne in Italia dalla Grande Recessione (era infatti al 6.4% nel 2009) a fronte invece di un robusto miglioramento nell’UE (-2 p.p.)
Il paradosso è che tale condizione di svantaggio delle donne non soltanto rispetto agli uomini nel nostro paese, ma anche rispetto alla media delle donne nell’UE, si determina nonostante la spesa per pensioni sia in Italia significativamente più elevata della media europea. In altre parole, l’Italia spende ben più degli altri paesi in pensioni, ma è meno efficace nel proteggere le donne da povertà ed esclusione sociale nella vecchiaia.
Al contempo, se consideriamo il secondo obiettivo di mantenimento del reddito di lavoratrici e lavoratori, la situazione italiana migliora in prospettiva comparata. Nel 2019, infatti, il cosiddetto Tasso di sostituzione aggregato – che misura il rapporto tra reddito individuale mediano tra la popolazione, tipicamente pensionata, nella fascia 65-74 anni e il reddito individuale mediano della popolazione 50-59 anni – era superiore in Italia rispetto alla media UE sia per gli uomini che per le donne (77% in Italia rispetto al 59% della media UE per gli uomini; 65% in Italia rispetto al 54% della media UE per le donne), segno di una maggiore generosità delle pensioni medie in Italia. Tuttavia, e il punto è importante in una prospettiva di genere, il gap nello stesso indicatore tra uomini e donne è più elevato in Italia – pari a 12 punti percentuali – rispetto all’UE, dove il divario è di soli 5 p.p.
Per concludere: nonostante il livello delle pensioni mediamente più elevato in Italia rispetto alla maggior parte dei paesi dell’Unione Europea, tutti gli indicatori fotografano una condizione di sistematico svantaggio delle donne anziane non soltanto rispetto agli uomini in Italia ma anche, per quanto concerne la protezione contro povertà ed esclusione sociale, rispetto alle donne (in media) nell’Unione Europea.
Oltre i “falsi miti”, le cause del problema
L’interpretazione più diffusa (ISTAT 2020; Itinerariprevidenziali 2021a, 2021b) riconduce il divario svantaggio previdenziale alla condizione svantaggiata delle stesse sul mercato del lavoro: il tasso di occupazione femminile è infatti sensibilmente inferiore a quello maschile – 49% contro 67,2% nel 2020 – con il divario che si amplia fortemente dopo il primo e ancor più dopo il secondo figlio: la differenza nei tassi di occupazione sale infatti da circa 10 punti percentuali. in assenza di figli a 40 punti percentuali con due figli.
Inoltre, le donne sono penalizzate dal differenziale retributivo, dovuto alla maggiore presenza delle donne nell’occupazione sia a tempo determinato che part-time, oltre che a carriere contributive più brevi e frammentate: la durata mediana della carriera lavorativa è infatti di circa 25 anni per una donna, contro i 40 degli uomini, e per circa il 30% delle donne la durata della carriera è inferiore ai 14 anni (Tinios e altri, 2015).
Questi dati consentono anche di spiegare il dato italiano relativo al “gender gap in the rate of non-coverage” – che cattura il divario di genere nella quota di individui che non hanno accesso a prestazioni pensionistiche (Tinios e altri, 2015; European Commission 2021b) – molto più elevato (17,7 p.p.) che nell’UE (6,4 p.p.) oltre che in crescita di ben 7 p.p. tra il 2010 e il 2019, in contrasto con una lieve riduzione a livello UE (0,7 p.p.).
L’interpretazione sopra proposta è certamente efficace, ma coglie solo alcune determinanti del problema, specie se consideriamo la più elevata spesa pensionistica italiana in prospettiva comparata, rispetto alla quale, come già ricordato, appaiono paradossali i tassi elevati di povertà ed esclusione sociale tra le donne.
Le altre determinanti risiedono infatti nel disegno del sistema pensionistico italiano, caratterizzato da regole che hanno consentito, e consentono, l’erogazione di prestazioni pensionistiche in media più generose rispetto alla maggior parte dei paesi europei – in passato anche a un’età generalmente più bassa – e che tuttavia si connotano, in chiave comparata, per una ridottissima efficacia redistributiva a favore dei soggetti più svantaggiati dentro e fuori dal mercato del lavoro: da qui il paradosso per cui un’elevata spesa pensionistica si combina con tassi di povertà e deprivazione materiale tra le donne anziane più elevati rispetto alla media UE.
In questo senso, le donne in quanto gruppo relativamente svantaggiato sul mercato del lavoro sono penalizzate da un sistema pensionistico tanto costoso e relativamente più generoso, in media, rispetto agli altri paesi europei, quanto iniquo sul piano sostanziale. In altri termini, a relativamente poche pensioni d’oro e molte più pensioni d’argento, si accompagna nel nostro paese una quota rilevante di “pensioni di rame”, specie per le donne.
Che fare?
Alla luce di quanto appena detto, è necessario agire su due diversi versanti. Il primo è noto e riguarda le azioni volte a migliorare la condizione delle donne sul mercato del lavoro. Anche le ricette sono ben conosciute: investimento in servizi inclusivi per bambini e anziani non-autosufficienti; irrobustimento dei congedi, soprattutto quelli parentali e di paternità; sviluppo delle politiche attive del lavoro. Sono tutte misure che possono contribuire a migliorare l’adeguatezza delle pensioni per le donne in Italia in un quadro caratterizzato da bassi tassi di occupazione, determinati dalla prolungata stagnazione economica, la persistente debole performance del mercato del lavoro nonché da importanti criticità nella conciliazione vita-lavoro.
Puntare esclusivamente su queste misure per aggredire il gender gap pensionistico in Italia è però altamente rischioso perché le azioni appena delineate non sono immediatamente efficaci, sia per ostacoli di natura strettamente politica, che ne comprimono sistematicamente lo sviluppo, sia perché, ad esempio, le politiche attive/di attivazione lavorativa funzionano soltanto in presenza di una robusta domanda di lavoro: come sostenere tale domanda è però il grande, e irrisolto, problema italiano da circa un trentennio – così come da un trentennio l’Italia arranca nello sviluppo di servizi per l’infanzia e la non-autosufficienza che operino come efficaci misure di conciliazione vita-lavoro “gender neutral”. Troppo rischioso, dunque, lasciare che i problemi previdenziali delle donne vengano risolti, “a monte”, intervenendo solo sul mercato del lavoro: i tempi sono necessariamente (troppo) lunghi e l’esito è incerto.
Il secondo versante richiede perciò di intervenire “a valle”, cioè sulle regole pensionistiche, con l’obiettivo a superare l’attuale iniquità – non solo in una prospettiva di genere – nella distribuzione delle risorse destinate alla tutela della vecchiaia in Italia – considerando, peraltro, che la piena transizione al metodo contributivo nel prossimo decennio potrebbe generare condizioni di svantaggio anche più marcate a sfavore delle donne (Jessoula e Raitano, 2015, 2019, 2020).
Presupposto di tali interventi è riconoscere che l’armonizzazione delle regole previdenziali perseguita negli ultimi tre decenni – caso emblematico l’introduzione del sistema contributivo – può tradursi in rilevanti condizioni di iniquità sostanziale nella tutela della vecchiaia tra soggetti più e meno avvantaggiati sul mercato del lavoro, dunque anche tra uomini e donne – oltre che tra diverse categorie professionali, tra individui con differenti profili di carriera e aspettativa di vita, ecc..
Si suggeriscono perciò tre linee di intervento.
Primo, incrementare la capacità solidaristica e redistributiva del sistema pensionistico pubblico, sganciando almeno parzialmente la tutela della vecchiaia da una concezione rigidamente “lavoristica”, che penalizza fortemente le donne con carriere brevi e frammentate per effetto della quota rilevante di lavoro informale non retribuito all’interno della famiglia;
Secondo, reintrodurre flessibilità strutturale nell’età di pensionamento – non, quindi, tramite lo stillicidio di riforme annuali come quota 100 (governo gialloverde 2019), quota 102 (governo Draghi 2021), quota 103 (governo Meloni 2022) – al fine di ristabilire tanto la sostenibilità sociale e politica del sistema quanto, almeno nel breve-medio periodo, stabilità e certezza delle regole di pensionamento.
Recuperare flessibilità strutturale nell’accesso al pensionamento può implicare soluzioni di policy differenti, tra cui la reintroduzione di un’età pensionabile flessibile – ad esempio sul modello svedese, che prevede un periodo di uscita tra i 62 e i 68 anni: è però importante che questa linea di intervento si accompagni alla prima indicata sopra (rafforzamento dell’efficacia solidaristica e redistributiva del sistema pensionistico pubblico) affinché età di pensionamento più basse non si traducano automaticamente in prestazioni pensionistiche inadeguate[3].
Infine, terzo, può essere opportuno rivedere i meccanismi di accesso alle forme di previdenza integrativa, che oggi coprono soltanto i lavoratori con contratti più robusti sul mercato del lavoro. Corollario è che i primi due punti richiederanno, verosimilmente, un incremento della quota di spesa pensionistica finanziata dalla fiscalità generale, come già sta avvenendo in altri paesi europei e in parte, benché in maniera nascosta, anche in Italia.
[1] Il Gender gap in pension income esprime la differenza, in termini percentuali, nel reddito pensionistico lordo percepito dagli uomini e dalle donne in un dato anno (European Commission 2021).
[2] È il cosiddetto “trilemma” delle pensioni (Jessoula 2016), tanto cruciale quanto di non facile soluzione.
[3] In questo senso si sostiene il necessario superamento, con finalità ovviamente equitative, delle soglie di importo pensionistico (1,5 e 2,8 volte l’assegno sociale) per accedere al pensionamento. Tali soglie mirano infatti a risolvere il problema dell’inadeguatezza delle prestazioni pensionistiche con un approccio del tutto differente, che produce effetti sensibilmente regressivi a danno dei lavoratori e delle lavoratrici più svantaggiati.
Bibliografia
European Commission (2021a), The Pension Adequacy Report 2021. Volume 1, Brussels.
European Commission (2021b), The Pension Adequacy Report 2021. Volume 2, Brussels.
Itinerariprevidenziali (2021a), I falsi miti sulla previdenza italiana: pensioni da mille euro e gender gap
Itinerariprevidenziali (2021b), Il mito del gender gap pensionistico
Jessoula, M. (2014), L’equilibrio imperfetto. Le pensioni italiane tra sostenibilità, adeguatezza, equità, in «Italianieuropei», 3/2014.
Jessoula, M. (2016), L’equità necessaria e il “trilemma” delle pensioni, OCIS Policy Memo, n. 3/2016,
Jessoula, M. e M. Raitano M. (a cura di) (2015), La Riforma Dini vent’anni dopo: promesse, miti, prospettive di policy, Numero speciale di «Politiche Sociali/Social policies», 3/2015.
Jessoula, M. e M. Raitano (a cura di) (2019), Le pensioni in Italia, oggi e domani?, Numero speciale de «La Rivista delle Politiche Sociali», 3/2019.
Jessoula, M. e M. Raitano (2020), Pensioni e disuguaglianze: una sfida complessa, l’equità necessaria, in “Politiche Sociali”, 1/2020.
Tinios, P, Bettio, F. e Betti (2015), Men, women and pensions, European Commission.
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