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Nella Stabilità 2017 non c’è solo l’anticipo pensionistico sotto forma di prestito. Il governo si è dimostrato attento alle mansioni gravose.

 

Come ultimo atto politico dopo la sconfitta referendaria, il governo Renzi ha ottenuto l’approvazione del “pacchetto pensioni” incluso nella Legge di Stabilità 2017. La più nota tra le misure previste è l’APE (Anticipo pensionistico) finanziaria che, in via sperimentale da maggio 2017 al 31.12.2018, consente di ricevere un’indennità in anticipo di 3 anni 7 mesi rispetto all’età pensionabile.

Si tratta, di fatto, di un semplice prestito, corrisposto da una banca in 12 mensilità annue -e coperto da un’assicurazione contro il rischio di premorienza- fino alla maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia, quando il pensionato inizierà a restituire l’ammontare per una durata di 20 anni. Più interessante, la versione sociale dell’APE prevede la possibilità di richiedere, a 63 anni, un’indennità pari al valore della pensione (fino a un massimo di 1.500 euro mensili) da parte di alcune categorie di lavoratori “svantaggiati” con almeno 30 anni di contributi: disoccupati senza sussidio; lavoratori che assistono il coniuge o un parente con disabilità; individui con invalidità grave. A questi si aggiungono i lavoratori con almeno 36 anni di contributi e che da almeno 6 anni svolgono mansioni considerate gravose. Sempre in chiave solidaristica, la riforma aumenta l’importo della “quattordicesima” di pensione, estendendola a circa 1,2 milioni di pensionati, elimina le penalizzazioni in caso di quiescenza prima dei 62 anni, agevola il pensionamento sia per i lavoratori “precoci” in condizioni di particolare svantaggio sia per i soggetti impiegati in lavori usuranti, eleva la “no tax area” per i pensionati, nonché licenzia l’ottava salvaguardia per gli esodati. Come valutare tali misure nell’ottica della coesione sociale? Rispetto al periodo 2010-15, la riforma segna una positiva discontinuità sia per il contenuto degli interventi sia per le modalità del processo decisionale. Il “pacchetto pensioni” è infatti il risultato di una negoziazione tra governo e sindacati, conclusasi con un verbale d’intesa in cui erano contenuti i principali provvedimenti -non tutti però condivisi dalle organizzazioni sindacali, specialmente l’APE “finanziaria”-. Nel merito, la manovra inizia ad affrontare -destinando circa 7 miliardi di euro a misure espansive- le conseguenze sociali delle riforme Sacconi e Fornero-Monti, in particolare il notevole incremento dei disoccupati over50, quadruplicati fino a quasi 500mila unità in soli 5 anni. Inoltre, la riforma mette in discussione l’idea, radicata nel dibattito italiano, che un sistema pensionistico “equo” debba prevedere regole uguali per tutti e la corrispondenza tra contributi versati e prestazioni percepite a livello individuale.

L’equità viene infatti declinata in senso sostanziale nella riforma, aprendo al riconoscimento del principio che i lavoratori non sono tutti uguali, e che si debba invece prevede- re una tutela più robusta per gli individui più svantaggiati. Le criticità però non mancano: il disegno di alcune misure, invece che avvantaggiare i più bisognosi, mira a favorire il ceto medio-basso; l’APE finanziaria, coinvolgendo banche e assicurazioni, è molto costosa per i richiedenti, e contrasta con il principio del contenimento dei costi in un’epoca di risorse limitate; gli interventi per le giovani generazioni sono ancora una volta rimandati a una “fase 2” di confronto governo-sindacati. L’auspicio è che tale fase possa aprirsi, con l’equità a fungere da principio guida tra i vincoli di bilancio e la necessità di una adeguatezza nella tutela.

 

Questo articolo è stato scritto da Matteo Jessoula per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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