Nei Paesi socialmente più inclusivi la riduzione dell’orario lavorativo è una realtà. Da cui prendere spunto.
Uno dei paradossi del mondo del lavoro contemporaneo è il fatto che, pur in presenza di un tasso di disoccupazione piuttosto alto (o molto alto, come nel caso dell’Italia), si lavora troppo.
Non sarebbe meglio “lavorare meno, lavorare tutti”? In linea di principio, poche persone avrebbero l’ardire (o il masochismo) di rispondere negativamente.
In pratica, il tema della riduzione dell’orario di lavoro è confinato a dibattiti semi-clandestini di rado considerati seriamente dalle istituzioni nazionali, e ancora di più europee. Eppure, così come è accaduto per il tema del reddito di cittadinanza, sarebbe necessaria una riflessione seria visto che i Paesi più innovativi sotto il profilo sociale si sono mossi lungo la direzione della riduzione dell’orario di lavoro. E così come in Finlandia è stata avviata un’importante sperimentazione del reddito di cittadinanza (si veda Ae di marzo 2016), in Svezia già da diversi anni è stata introdotta la giornata lavorativa di 6 ore in diverse aziende appartenenti a settori molto innovativi (come ad esempio l’informatica) e a settori molto più tradizionali (servizi di cura agli anziani). Oltre alla Svezia, anche altri Paesi hanno già imboccato la strada di una riduzione media dell’orario di lavoro: nei Paesi Bassi, la settimana lavorativa media è di 30 ore a causa della diffusione del lavoro a tempo parziale, mentre in Francia già dal 1999 è stata introdotta per legge la settimana di 35 ore, sebbene secondo dati OCSE (2015) la settimana lavorativa media sia di 36 ore. L’Italia si colloca poco al di sotto della media OCSE (35,5 contro 36,8 ore settimanali), così come la Germania (35,3 ore settimanali).
Una semplice correlazione tra orario di lavoro e tasso di disoccupazione non dice molto circa i meccanismi causali, eppure qualche curiosità dovrebbe emergere anche da una lettura superficiale di questi dati. Nei Paesi più avanzati sotto il profilo della crescita economica inclusiva e della coesione sociale, quali la Svezia e i Paesi Bassi, la settimana lavorativa “corta” è una realtà, e pertanto i tempi sembrano più che maturi per aprire un dibattito serio a livello nazionale e a livello europeo che metta il tema finalmente sull’agenda politica. Partendo dall’ovvio presupposto che il lavoro a tempo parziale non può essere imposto dall’alto ma deve scaturire dall’incentivazione di una libera scelta delle lavoratrici e dei lavoratori al fine di godere maggiormente di momenti di socialità extra-lavorativa (famiglia, amici, divertimenti, etc.) senza una eccessiva penalizzazione remunerativa. Alla riduzione dell’orario di lavoro potrebbe corrispondere una contrazione proporzionale di salario per i redditi più elevati, mentre tale proporzionalità dovrebbe essere evitata per i redditi più ridotti. In altri termini, anche in combinazione con forme di intervento pubblico quale un reddito di base, si potrebbe ridisegnare il futuro del (non) lavoro costruendo società più inclusive e coese. Questa prospettiva sembra tanto più importante, tanto più risulta inevitabile ipotizzare in tempi rapidi una significativa contrazione dell’offerta di lavoro: secondo le stime più prudenziali fornite dall’OCSE, a causa di una progressiva automazione dei processi produttivi, il 10% dei lavori attuali scomparirà entro il 2030. Una società in cui il lavoro diventerà una risorsa sempre più scarsa. È indispensabile impostare fin da ora relazioni industriali e nuove politiche sociali e del lavoro che tengano conto di questo nuovo scenario al fine di evitare società sempre più escludenti e fragili.
Questo articolo è stato scritto da Paolo Graziano per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.
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